Verso la faccia. Nulla come il viso è così immediatamente rappresentativo di noi stessi, eppure Umberto Fiori non si accontenta, anzi, rifiuta la propria faccia e comincia una operazione – che cinquant’anni dopo diventa anche letteraria – per andare oltre il sembiante e ragionare sull’identità.
Nel 1968, inizia la sua collezione di fototessere automatiche, come indagine senza pretese e fatta per puro divertimento, in cui l’intreccio tra dimensione del singolo e collettiva, insieme all’assenza di un operatore dietro l’obiettivo, si dimostravano elementi di interesse e curiosità.
L’idea appare bizzarra solo entro certi limiti, se si pensa che Fiori è da sempre un artista poliedrico e trasformista nonché – al di fuori del suo lavoro – un uomo politicamente impegnato già dalla giovinezza.
Fino al 1983, è stato cantante e autore di canzoni degli Stormy Six, storico gruppo rock italiano, poi compositore di libretti d’opera, saggista e critico musicale e, ovviamente, poeta o “poeta di voce”, come lui stesso ama definirsi, che, nella maturità, sente le parole come destino e non più come pura scelta estetica. La sua scrittura non è mai misteriosa, ma parlata, immanente, urbana. Compone, tra gli altri, Case (1986), Esempi (1992), La bella vista (2002), Voi (2009), e nel 2019 pubblica il racconto in versi Il Conoscente in cui il protagonista porta proprio il suo nome e si confronta con un antagonista odioso, che esibisce onnipotenza, indicato per tutta l’opera come, appunto, “il conoscente”.

Nel 2023, il suo album fotografico, che mette insieme circa settecento scatti, diventa occasione per pubblicare per Garzanti Autoritratto automatico, raccolta di poesia e prosa – che ricorda, quest’ultima, i dialoghi delle Operette morali leopardiane – che dice in versi, o prova a farlo, cosa significhi cercare, come in un miraggio, di somigliarsi. Sembra quasi di vederlo infilarsi in quelle “scatole”, angoli appartati di mondo, da solo o in compagnia di amici o di donne amate, nelle città più diverse… Nudo. E per nudo, non si intende privo dei vestiti, ma uguale a sé, libero dai filtri che gli occhi altrui impongono, tra conformismo, ricerca spasmodica della bellezza e giudizio. Il patto è tenere ogni scatto, anche quello malriuscito, quasi come ad essere privo di difesa.
Immaginiamo l’interno del baracchino: nessun fondale, nessuna ambientazione che indichi un luogo, un punto di riferimento conosciuto, un altrove. In questa immobilità, in questo scorcio sempre identico, la sola cosa a muoversi, a mutare, è l’immagine di chi viene fotografato.
Niente potrebbe sembrare più lontano dal lavoro di Fiori, ma il richiamo a Here, il bellissimo fumetto di Richard McGuire, tradotto in Italia con il titolo Qui per Rizzoli Lizard, è stato immediato. Lì, succede lo stesso: il fondale è fisso – una stanza – e la narrazione si sviluppa in finestre temporali collegate tra loro che si mischiano e si accavallano: tutto sembra stare fermo, eppure tutto cambia, si sposta attraversando il tempo. Anche Fiori, nel comporre la collezione, inserisce i suoi ritratti spesso senza rispettare un ordine cronologico e accostando fotografie scattate anche a distanza di anni, alternandole con scatti professionali, realizzati in studio, e mostrandosi in un catalogo di smorfie e atteggiamenti di indomita scempiaggine. Il gioco – che davvero tale non è – funziona proprio per questo: perché si misura col tempo.
La ricerca di una somiglianza con sé stessi richiede un attraversamento non tanto di luogo, ma di anni, durante i quali quella faccia si allontana dall’osservatore, ma contemporaneamente si proietta in avanti e racconta la storia individuale dell’autore. Le poesie raccolte nel libro esprimono con un mezzo affine, quello della parola, questo concetto. Scrive Fiori: “Quel ragazzo lì nella foto/ con la maglietta a righe bianche e nere/ da gondoliere, gli occhiali scuri./ Da qui, dal suo futuro,/ gli leggo nel pensiero. Cosa gira/ nella sua testa, chi lo può sapere/ meglio di me?”. Passato e futuro – o forse presente – si guardano negli occhi e tentano di capirsi, di trovare qualcosa in comune da dirsi, come una sorta di rinnovata confidenza.
L’invecchiamento fisico, i capelli bianchi e le occhiaie che si fanno più pronunciate sono visti da fuori e fissati in un rettangolo di carta stampata dal retro pallido. La poesia, come la fotografia – direbbe Bonnefoy – cattura l’istante e lo preserva e così fa anche lo scrittore milanese attraverso la ripetizione quasi narcisistica della sua faccia e la trasposizione nei versi.
Ma fa anche qualcos’altro: esclude che sia un terzo estraneo, da dietro la macchina fotografica, a decidere quale sia la prospettiva. È lui il regista, e offre un punto di vista immediato e personale che non ammette reinterpretazioni se non quella di chi guarda la foto o legge il testo, completando così la sua opera.
In tal modo, il poeta instaura una connessione con quella faccia: “Un muro di pudore/ ti trattiene ogni volta/ quando in mezzo alla calca si spalanca/ questo abisso di intimità”, scrive, utilizzando, non a caso, una parola chiave – intimità – che quasi appare luminosa nello scorrere i testi. Se, come dice il Visitatore nel dialogo in prosa contenuto nel libro, nei primi lavori di Fiori l’io è rimosso, sostituito da un sé impersonale, ora la prima persona dilaga. Questa esplosione dell’io solo in apparenza è fine a sé stessa: “La fotografia è un fenomeno strano. – dichiarava Inge Morath all’apice della sua carriera – Ti fidi dei tuoi occhi e non puoi fare a meno di scoprire la tua anima”.
Come in un daumenkino, il libro animato le cui immagini sembrano prendere vita, Fiori, ha raccontato un cammino, anche interiore, e chissà se è riuscito nell’intento di soddisfare questo desiderio privato, se è stato disposto, per ritrovarsi, ad accettare, col trascorrere dei decenni, di perdere qualcosa. Intanto, con questo libro originale e autentico ha consegnato la propria faccia al lettore e, in fondo, una proiezione – che ora ci è dato conoscere un po’ meglio, seppure per una parte piccolissima – della propria umanità.
Speciale Premio Strega Poesia
Una rubrica a cura di Annachiara Atzei
In copertina: Fiori fotografato da Dino Ignani
Cinque poesie da “Autoritratto automatico” (Garzanti, 2023)
Foto-tessera
Inverno. Buio, nebbia. Fiati, motori.
In giro, poche ombre. Sul piazzale
dove si affaccia
la Camera del Lavoro
splende, sola, la scatola
della foto automatica.
Le tendine scostate, vuota, in attesa:
come nella navata di una chiesa
l’armadio bruno del confessionale.
*
MM.
Sotto la piazza,
in fondo alle scale mobili,
svoltato l’angolo, dopo l’edicola e il bar
giorno e notte sta accesa la capanna.
Qui porta il pellegrinaggio.
Scorre la tenda grigia.
Ruota il sedile. Sparisce la banconota
Anno per anno, nel buio al di là del vetro,
torna il miraggio dell’identità.
*
Tempo
Colli che si raggrinzano nel colletto,
capelli sempre più grigi, poi bianchi,
occhiaie molli da lèmure, guance cascanti:
era questa l’idea, fin dall’origine.
Fissare il cambiamento, l’identità.
Contemplarli da fuori,
come in certi documentari il fiore
che di colpo si apre
con lo sprazzo di un fuoco d’artificio.
Tutto previsto tu dici, scontato:
il lavoro del tempo
(e della vita e della gravità).
Ma quando poi
uno si è visto là
tutto insieme, e si sfogli e si risfoglia
anno per anno scatto dopo scatto,
il gioco rischia di cambiare aspetto.
Tu che non sei il soggetto
di questo crollo, tu che non hai collo
né capelli, né età,
segui tranquillo il cammino
delle immagini, seguilo
come gli spasmi di un insetto
nella tela del ragno,
come si guarda un naufragio
dall’alto di una montagna.
*
Segnaletica («Wanted»)
La faccia è nuda. La faccia
è sempre pronta. Al lampo della macchina
Queste labbra sottili,
questo naso affilato, la macchia bruna
sulla guancia sinistra, l’arrestato
– di profilo, di fronte –
non può non confessarli. Il ciuffo biondo,
le sopracciglia, lo inchiodano.
Solo gli occhi
– due buchi in un muro – nascondono
l’altra faccia, laggiù, la fessura
impenetrabile
dove la luce sprofonda.
*
Foto-ricordo
A spingermi là dentro,
sotto la luce della scatola,
era un ricordo.
Una forma imprecisa, risaputa,
un’ombra che premeva
nella mia testa
come il sogno che resta lì per un attimo
quando ti svegli:
nei dettagli non sai ricostruirlo
ma sai bene com’era, sei certo
di averlo fatto.
Lineamenti, colori, connotati:
scatto per scatto spiavo la traccia
che potesse guidare fino a quelli
della mia vera faccia.
*

