,

L’estate dell’umanità periferica, giorno VII: La vita è un circolo vizioso

Artwork by Giulia Bocchio + Midjourney

 

 

amore non voglio chiamarlo
questo che provo per te

Sibilla Aleramo

 

 

Dino, lo sai meglio di me: l’amore non si spegne facilmente. Il nostro non fa eccezione.
La prima volta che ci siamo visti era una mattina silenziosa e limpida, quasi magica. Ricordo ancora la data: il 3 agosto. Fino ad allora c’eravamo solo scritti. Lettere prima educate e formali, via via più intime, ma tutto come sospeso in una lentezza esasperante. Sembravi quasi aver paura di me, a tratti. Io no, non avevo paura. Non ho paura dell’amore, io. Gli corro incontro fiduciosa, come certi bambini davanti a un gioco nuovo. Con te non ho fatto certo eccezione. Anzi, ho corso più veloce.
Eri un poeta, mi piacevano i tuoi versi. I tuoi Canti orfici erano belli, belli e terribili. Te l’ho scritto, piena di entusiasmo. Ti eri mostrato lusingato, quasi commosso. I complimenti di un altro poeta, per un poeta, sono quasi un’illuminazione, la carezza che rassicura. Anche se non ti vedevo, potevo cogliere la mia luce riflessa sul tuo volto.
Ero stata io ad insistere per incontrarci perché – ora posso dirlo – avevo deciso di innamorarmi di te. Lo avevo già deciso, prima di vederti di persona, prima di guardarti negli occhi, prima di sentire il tuo odore. Lo avevo deciso e basta. Sono fatta così, è la mia natura e non la nascondo più.
E quella mattina, la prima volta che ti ho visto, mi sei piaciuto anche fisicamente. Siamo finiti a letto subito. Di questo non sono pentita, né mai mi pentirò.
Sei stato tenero e forte, commosso dal dono del mio corpo. Io che vivo di parole adesso non so neanche raccontarlo. Abbiamo passato giorni incantati. Subito dopo sono tornata a Firenze, a lasciare il mio uomo di allora. C’eri solo tu. In quel momento e per sempre. E un’altra cosa mi piaceva: non mi chiamavi Sibilla, quel nome di carta che mi ero cucita addosso quando ho deciso di scrivere. Ne ho uno più banale di così, Rina, e tu usavi quello, mi chiamavi con il mio vero nome, un nome che aveva cominciato ad assumere un senso, un suono, quasi un richiamo. Il tuo, Dino.
Ti amavo. Mi amavi.
Però me lo avevi detto, con le lacrime agli occhi, che un mostro abitava in te e non riuscivi a controllarlo. Piangendo, cercavi di descriverlo. Dicevi: «Succederà di nuovo. La vita è un circolo vizioso». Io sorda e cieca, ti accarezzavo i capelli senza capire. Spesso, dopo l’amore, insistevi, accorato, affinché me ne andassi, perché ero ancora in tempo, dicevi, e non volevi farmi del male.
Tu non volevi farmi male.
Io non ti ho voluto credere.
E poi è successo. Quella mattina ti sei svegliato diverso. Avevi lo sguardo feroce di una belva affamata di qualcosa. Non so che dissi. La tua risposta fu uno schiaffo, poi una spinta, poi una serie di calci, con lucida freddezza. Io, incredula, cercavo di difendermi come potevo, ma tu continuavi, con la schiuma alla bocca, senza guardarmi, senza parlare. Poi finì tutto di botto, com’era cominciato. Mi abbracciasti, mi cullasti con le parole dell’amore. Piangevi più di me.
Ti ho perdonato.
Si era rotto qualcosa, però.
Avevo paura.
Anche tu avevi paura di te stesso e sei tornato in manicomio.
Quando sono venuta a trovarti ti ho chiesto: «Come stai?».
Tu mi hai risposto, calmo: «Come uno che sta in manicomio».

 

Paola Deplano
Poetarum Silva + Collettivo Montag

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.