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Au Clarion des Chasseurs
3, Place du Tertre
Paris.
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Ore 13.38 di un qualsiasi orologio
in un’esatta inclinazione del polso
del mondo, meridiani e parallelo
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sposti il foglio, tu ci trovi parole
io trovo e svolgo te se questo potesse bastarti se
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allineando la lucidità sulla punta delle tue scarpe
alle mie, comunque non correremmo se non in cerchio
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verticale accumulo di ricordo il nostro passeggiarci dentro
acciottolio di sassi portati da un passo all’altro
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tutta questa guerra di fretta rimasta
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nelle mani della sera.
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I secondi sono virgole.
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Anemia mentale.
Maniglia di luce come atroce appoggio.
Una comune di denominatori
continua ad allevare cadaveri.
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Inizia a scarabocchiare, poi scrivere
con le mani fredde e tremolanti. Fermati
quando le mani tremeranno di nuovo.
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Dove nessuna promessa di passo, passo del gioco
s’intende, attende la morte. Noi,
tu e la noia: la parata del gioco di parole.
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La più grande prova non è il futuro stesso.
Quanto riconoscere il passato nella premura del futuro,
l’unico modo di ingannare la morte in uno spessore
di vita.
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Deboli gocce corrono sui vetri dentro.
Nubi cariche e ancora gravide
questa in una Q non è un temporale, questo
é un solo silenzio centrato riempito a bufera.
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Le unghie deboli di un occhio incarnito d’appunti
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il portarti a spasso anche quando
anche quanto
anche mai
anche nulla
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ma continuare a esercitare le tue essenze
non sottrarrebbe
libera interpretazione da assenza di idee
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non te
come
non io
dove
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il contrasto tra tempesta e follia a farfalla,
porterà ordine e polvere, entrambe conclusioni a schiaffo.
E su entrambe le mani armatura, necessarie e vuote.
Non puoi saltare o levarti dall’acqua:
pellicola.
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Quando avrai ripiegato questo foglio sul pianoforte della mia
vita mi sarò ricordato tra me e te di un cancello a cardine centrale
il peso delle parentesi in cui mi spiegasti accuratamente il significato
della musica nella tua
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testa:
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annullare inutili silenzi.
Così ora aspetti che il tarlo di questa onda in mezzo al salone venga
a nutrirsi delle tue perplessità per
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lasciarti segnare.
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Una lettera bemolle
nella musica del quadro
come i fogli, le parole ti produrranno
tagli e lacerazioni.
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Nell’avvicendarsi della pace a righe
con la guerra, della morte verticale
con la vita, dell’amore e sempre
con la sofferenza, il tutto tienilo
con un punto apolide da uno stile semplice e pulito.
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Troverai pace coeva, senza dover scostare polvere dai residui
di un oppure: ti renderai quasi famoso.
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Esiste una normale tendenza
alla deformazione dei ricordi stessi.
Messi così non sembrano rimediati.
È solo necessario nutrire periodicamente
e ragionevolmente la ragnatela della memoria.
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Gli ami degli occhi guizzano ai bordi della stanza
sono angoli, sono vortici d’immagini incoerenti
luce inconclusa di candela e luce di neon
a ricordargli che qualcosa sempre
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stride dentro i denti
parte un attorno a scolpire e
dipinge un nuovo passato.
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Lasciati sognare.
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Anche perché la vista di continuo risulta.
Punteggiata da angosce interne, accumulazioni esterne.
Molte delle cose più intense nascono
da un’aspirazione del tutto naturale.
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Versi come bambini, come l’amore.
Possiamo dargli solo i mesi di grembo, dicono le madri.
Li possiamo aspettare, tenere dentro.
Abbracciare no.
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Nascere è solo un fiato d’aria guasta. Ma diversa.
Non c’è mondo per essi. E non affezionarti ai versi.
Niente della loro vita è una parabola.
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Tu che sfinisci i tramonti
e poi riprendi a tremare
ci devi cadere
in un silenzio prima di definirlo tale.
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Lasciati remare due dita sugli occhi aperti per
avere la capacità di scrivere senza fare uso di T e di V.
E se non hai lo strumento, abbi tempo e idee da vendere.
Non ti servirà un collo lungo per copiare
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la torre di Babele, l’allegoria biblica della rovina,
del fallimento, della punizione dell’orgoglio della ragione.
Nell’essenza di una dimora vedrai le cose camminare.
O cadere in questa reazione a catena, endotermica e interiore,
in cui resteranno particelle trasformate in credenti a confronto
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il più miserabile degli errori è mentire a sé stessi.
Il più desolante è crederci. Il passaggio successivo: giustificarlo
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al buio, le parole perdute forse si nutrono di grammatiche nomadi.
Dimentica tutto. Su appunti per sempre immobili.
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Inizia scrivendo e andando con disinvoltura per la tangente.
Anche fuori dal foglio, scoprirai l’arte perdendoti. E le regole
in arte, vengono all’ultimo momento, ignorandole o scoprendole
Dopo averle applicate.
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Talvolta, travolta. Avvolto
ti accorgerai di non poter più scrivere, ma vivere ciò che hai scritto.
Lasciandoti dove puoi nascere in un punto, e morire di continuo.
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Adesso spostiamoci, come su una giostra.
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Prendere le parole e vestirsene avvertendosi: “maneggiare con cura”.
In dosi eccessive risultano letali. Violente, raffinate, gratuite.
Guardare e non toccare ogni giorno
faranno succedere qualcosa mentre la paranoia t’indurrà a riprodurre
il mondo vegetale. O essere fiore.
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Vuoi scrivere?
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Procurati qualcosa d’interrotto
nella mente, nell’anche della notte, nella vita delle dita.
Appoggia un bicchiere senza fiotti sui pensieri compiuti
scritti fino a quel momento. Stancamente rami
i pieni, il vuoto e il niente insegneranno. La deformazione
della maledetta realtà. E abbracciane la seduzione.
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O fuggi, scappa, violentati per tornare verso l’ebbrezza della tragedia
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in un secondo. È necessario costruire
un mondo
a parte per evitare qualsiasi tipo di giudizio
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non sporcarti con la voce degli altri
quando
è necessario coltivare dentro vermi. Nel sentirsi limo
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la sovrapposizione non è un segno di spreco per caso,
fatto da un incapace o da un impotente. Quanto
un gesto custodito, degradato dalla luce, amplificato e seviziato
dalla depressione. E nessuno deve accorgersene.
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Voglio il foglio. Volgi il foglio in sezione.
Cogline interdetto il profilo, e dove il taglio
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delle sillabe in rilievo
premi
nel disegnare con un compasso di braccia appese
spezza, sciogli, destruttura il copione.
Scindi, secondo caratteri digitali e personalità.
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Mentre aspetto ancora una volta qui
la contrapposizione tra uomo e poeta
che celi tra un letto di ferro,
battuto e la cera della tua pelle
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e dove anche la mente di una sola ragione vincente
é un bozzolo capace
di tessere trame di seta e fili conduttori
di saliva elettricità.
Dare un significato alle assurdità con un movimento
simile a quello delle radici.
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Quando accartocciato
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ancora come sempre
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non so cosa
però
io non so cosa
.
scrivere con una piuma bagnata.
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La distruzione come genesi del divenire.
In ogni direzione evolversi morso e preda
affidando sé stessi già preparati al sapore aspro di una fine,
scoprire quando un istante possa non essere silenzio
mentre il destino esplode riportandoti destino.
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Sono solo. E non sono armato.
Non sei solo. E sei amato.
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Sono le incertezze che non traduco
a rendermi forte
io non aspetto
nulla
.
ma non toccatelo quel nulla, perché ha già toccato voi.
Ferito sul corpo e nella visione, come vetro piegato dal dolore,
o libro appena chiuso dall’ultimo foglio, raglio e raggio dell’autunno, piano
tragitto al termine della voce.
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Cibandosi attraverso un orecchio. Cibarsi di orecchie. Incidersi con un orecchio.
Provare a ruotare una W, una M ed una E.
Disegnare con le forbici un tre lungo un occhio.
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Piango. Mi serve per tornare tremando.
Quanti modi conosci per isolarsi comunicando?
Questo. Un viaggio di sola andata senza spostamento
.
mentre tutti questi giorni trascorreranno
bendati di un accurato, velluto rivoluzionario
.
pronto a partorire una dolce
difficoltà che ti somigli.
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***
Marco Naccarella

2 risposte a “Logotomia – Marco Naccarella (post di natàlia castaldi)”
meraviglia.
e non dico altro.
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grazie di cuore, Morfea.
questo, posso dirlo.
m.
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