Ancora sulla poesia | Daniele Gennaro

Sono arrivato al punto in cui la letteratura
non mi intimidisce più.
Un tempo, con la naturalezza di un labrador,
mi piegavo ingenuamente sulla ciotola sbreccata
(quanto amo questa parola!) per uno spuntino
fuori pasto.
Da quando ho letto Joseph Brodskij nel tepore
della mia cameretta studio invernale, ho capito
che forse stavo scontando la mia pena.
Non possiamo definirci poeti se non abbiamo
alle spalle almeno cinque anni di lavori forzati,
a segare ceppi ceppi d’albero tutto il giorno,
cibandoci di teste di pesce e zuppa lunga
di cavolo nero.
Ne parlavo oggi con un amico sì, lui sa bene
come stanno le cose: la poesia è verità.
Se l’ambizione segreta di ogni giovane che
scrive è la gloria , o la fama, o la celebrità –
e perchè no?- un Nobel, non possiamo far altro
che lasciar cadere le braccia ai fianchi e sperare
nel vino nuovo.
Poichè la poesia è immaginazione, non si capisce
come caparbiamente molti si ostinino a spaventare
le pagine bianche con moltitudini inutili di parole
scolorite. Data la capacità immaginativa come dono,
ci sono altre strade da percorrere se la scrittura
non funziona.
Una mostra di Pollock può dare, quadro dopo quadro,
la stessa soddisfazione di un volo in bimotore sopra un’ isola
nella corrente, fra la Florida e Cuba.
Attraversare cieli, arrampicare le chiazze amorfe di colore,
restituire senso alla tenebrosa marea della solitudine.
La poesia è nelle cose.

Una replica a “Ancora sulla poesia | Daniele Gennaro”

  1. “…
    lì] dove sedersi è fissare – sòli – una tazza
    che sia sempre la stessa
    l a s t e s s a]
    dacché l’abitudine ha la sua valenza
    ripetitiva e consolante
    nel bordo sbeccato da un’accidentale caduta,
    la crepa]
    che lievemente percorre la porcellana
    col suo sottile capillare
    amaro] come l’aroma stesso
    del caffè appena versato.”

    grande sintonia tra tazze “sb(r)eccate”

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