Verso il punto estremo del conflitto civile e culturale (2)

Le responsabilità della sinistra


Dire come sia possibile affrontare e vincere la sfida non è facile. Tuttavia, non sarebbe onesto e neppure istruttivo ignorare o sottovalutare i gravi errori che sono stati commessi dalla sinistra e che non poco hanno concorso a determinare lo stato di cose vigente.
Continua a bruciare lo scotto di una carenza duratura e pesante di idee, ipotesi e programmi a medio e lungo termine. Si è specialmente pagata a caro prezzo (e la resa non è ancora conclusa) la scelta che è stata compiuta quando, per evitare rischi di dogmatismo e di chiusura settaria simili a quelli già patiti dalla cultura italiana del dopoguerra, si è finiti per approdare ad una posizione piuttosto che rifondare il tracciato e le linee portanti. Non si è capito che l’abbandono della teoria, la caduta nell’eclettismo, il sacrificio della strategia alla tattica disumavano la cultura dell’opposizione e contemporaneamente facevano il gioco del nuovo Capitale, bisognoso – anche prima della sua incarnazione berlusconiana – di ridurre ogni istanza di concretezza realistica a pura salvaguardia dell’esistente. Qui è consistito il gap da cui è partita la catena degli errori commessi.

Non vi è area in cui non abbia imperversato la tendenza a seguire e riprodurre modelli di comunicazione e di comportamento fabbricati dalla cultura del consumo. E, poiché ne sono spesso scaturite elaborazioni più sapienti e sofisticate della versione originale, si è oggettivamente instaurata una relazione di complicità, che ha superato i limiti di un’influenza passivamente subita ed ha assunto tutti i caratteri di un contributo autonomo e propulsivo al consolidamento ed alla diffusione del codice informatore. E gli esempi piovono a iosa.
Quando il giornale radical-chic che più rappresenta le idee sull’opinione pubblica progressista punta senza scrupoli alla spasmodica ricerca dello scandalo, del clamore, del “colpo a sensazione” per accrescere il numero dei lettori (e lo fa indistintamente anche nelle sezioni della politica e della cultura), mostra una sudditanza alle leggi della moda e del mercato assolutamente non inferiore a quella che permea i concorrenti giornali di estrazione moderata e benpensante. Quando la Terza Rete televisiva – tradizionalmente deputata alla cultura ma a lungo diretta da un vecchio nostalgico della “non ideologia” – vanta le sue postazioni di punta in trasmissioni di intrattenimento e varietà che fino a trenta, venti anni fa sarebbero state legittimamente considerate poco meno che incolte e qualunquistiche, riflette un metro di scelte e di proposte che si allinea di fatto a quella strategia dell’”indice di visione e di ascolto” che ha costantemente guidato il palinsesto della Fininvest prima e di Mediaset poi e, più di ogni altra, preparato e sensibilizzato l’animo di milioni e milioni di spettatori al mito del fulgore berlusconiano. Ancora: quando nel mondo dell’editoria viene giornalmente praticata, anche presso una parte cospicua della sinistra politica e culturale, una linea di costruzione del “caso letterario” che tende a privilegiare libri mediocri e di facile cassetta (sintomatici i casi della Maraini e della Tamaro), si ha l’ennesima conferma di come le linee-guida che ne sono a monte coincidano con i medesimi criteri che partoriscono altrove, ma con maggiore coerenza, prodotti d’appendice, libri rosa e romanzi gialli. Dall’uno o l’altro di questi settori si scorge fino a che punto l’ideologia consumistica e mercantile abbia attecchito anche sugli strati più profondi e resistenti del tessuto culturale, senza divenirne ausilio o supporto, ma subordinandoli fino in fondo a se stessa.

Non solo, ma alle realtà interne di questi settori si sono sommati gli effetti perniciosi della loro interferenza e della loro sovrapposizione. È lecito chiedersi: quanti sono i critici di giornali e televisioni che, essendo anche scrittori e membri di giurie letterarie, non risultano fortemente condizionati dal rapporto con il proprio editore e dalla disponibilità al voto di scambio con i giurati di altri premi?
E di converso quante sono le proprietà finanziarie che, disponendo delle maggiori testate, non controllano anche la grande editoria e, attraverso questa e le testate, il circuito dei premi, così da irrogare le loro direttive senza colpo ferire ed assicurare ai titoli prestabiliti l’intero ciclo di pubblicazione, lancio, sostegno critico ed informativo e consacrazione finale? La risposta è scontata.
E quali intellettuali di sinistra sono insorti per denunciare e combattere questa prassi e non l’hanno invece avallata e coperta, quando non se ne sono lasciati direttamente coinvolgere in prima persona? Salvo pochissime eccezioni, la risposta è ancora una volta scontata. Il fatto è che dal sacrificio dell’istanza strategica alla provvisorietà degli interessi tattici non è derivata solo l’omologazione ai segni ed ai valori della società dello spettacolo, ma anche una linea di condotta pubblica e professionale segnata da amoralità e cinismo.

Persino nell’istituzione più alta del sapere, l’Università, l’andamento delle cose non ha mutato il suo trend, ed anzi, per molti aspetti, lì più che altrove la corruzione è diventata la regola e l’arroganza del torto la sua fedele applicazione. Non basterebbe Gadda per enumerare in serie con la debita indignazione tutti i misfatti e le iniquità che vi vengono metodicamente perpetrate con la corresponsabilità o per diretta iniziativa dei baroni “laici”: cattedre assegnate a parenti o amanti (tanto meglio se ubicate nella stessa Università o nello stesso Dipartimento), promozione in carriera di sindacalisti, responsabili di partito, rappresentanti di organismi amministrativi (carenti di merito e regolarmente compensati per il prono servilismo alla controparte ed al boss protettore), allevamento in serie di sinistre schiere di “pretoriani” (abili solo come attiva manovalanza di accordi clientelari o di guerre striscianti nei confronti di altri professori e di altri colleghi): e ciò naturalmente nel più disinvolto disprezzo dei titoli scientifici e dei valori intellettuali, grazie ad accordi prestabiliti e a concorsi truccati (su cui pare si sia finalmente cominciato a far luce e su cui moltissima altra se ne dovrà fare, e al più presto, se l’indagine della magistratura sarà opportunamente sollecitata ad estendersi a tutto campo e a tutti i livelli con una salutare e tanto attesa operazione di “concorsi puliti”).

Come si rileva facilmente, il quadro d’insieme è fosco e preoccupante. E l’aspetto più negativo del paesaggio che vi è disegnato non sta tanto nell’estremo malcostume morale (comunque grave) di cui danno l’esempio le sue espressioni di vita, quanto nei risultati oggettivi che queste hanno provocato sull’evolversi della situazione reale. Detto, infatti, sinteticamente, l’insieme di colpe e responsabilità oggettive prima descritte ha recato con sé quattro danni di sicura entità:

1. ha concorso a deteriorare e minare spazi ed istituzioni del discorso culturale, rendendone poi molto più arduo (e meno credibile) il successivo sforzo di riqualificazione e rilancio in chiave democratica e progressista;

2. ha vistosamente depotenziato le risorse di autonomia progettuale, elaborativa ed organizzativa dello schieramento antagonista, atomizzandone le forze e dissolvendone i principali nuclei di coesione e di raccordo;

3. ha favorito – anche laddove ha raccolto consensi e plausi estemporanei – la formazione di una mentalità e di uno stile “individualistici”, assai più conformi ai disvalori del “società-spettacolo” che non ai discrimini ideali di una prospettiva libertaria ed innovatrice;

4. ha compromesso sensibilmente il prestigio e l’integrità dell’immagine pubblica della sinistra (uno dei suoi patrimoni più preziosi), vanificando l’uso strategico della sua rivendicata “diversità” ed esponendone il destro alle critiche ed alle denunce, non di rado fondate, della compagine avversa (di qui, peraltro, l’imbarazzato silenzio o l’eccessiva apertura verso l’ascesa pubblica di simulacri pseudointellettuali del centrodestra, che avrebbero meritato ben altro trattamento e ben più dure risposte: ma come lo si poteva fare? sulla base di quali testimonianze concreet da esibire e da contrapporre?).

Di tutti questi danni, per quanto dolorosi, non si può non seguitare a fingere di ignorare l’esistenza e a minimizzare la portata. La precarietà della situazione, pronta a precipitare da un momento all’altro, richiede un’autocritica inclemente. Sarebbe irresponsabile non fare ammenda dei propri errori e non sforzarsi a sconfiggerne le cause, specialmente nell’istante in cui si intende lanciare la più radicale delle sfide culturali a Berlusconi e ai suoi alleati.

[continua… – fine parte 2]

2 risposte a “Verso il punto estremo del conflitto civile e culturale (2)”

  1. Ho letto sia la prima che la seconda parte. La tua è un’analisi lucida, che condivido in pieno.
    Il “continua” mi fa pensare ad un approfondimento sul ruolo della lega, che – insieme ai cosiddetti “alleati” – sta “educando” l’elettorato del nord ad un egoismo sempre più nauseante.
    grazie
    stefania

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