Qualcosa di weird – Addosso

Una matassa che respira, una cosa grigia, polverosa. Odora di segreti, si annoda ai polsi, impara i nostri trucchi. Nessuno la vede, tranne chi inciampa nello stesso punto.

Ma cos’è davvero? C’è una risposta?

 


Di Giovanna Lombardo 

La cosa grigia sta sempre lì, vicina a lei o anche vicinissima, come quella mattina in cui si è svegliata e ce l’aveva tutta addosso, in un groviglio confuso e puzzolente stretto intorno al petto, alle braccia, alle caviglie. Ha dovuto saltellare a piedi uniti fino alla doccia e strofinare moltissimo per staccarla, e ci è quasi riuscita, ma per non fare tardi ne ha dimenticato un filamento legato al polso, così si è vestita e ha infilato la cosa grigia sotto al maglione, schiacciandola un po’ intorno alla pancia e sui fianchi. Però pungeva, e Mia ha passato tutto il giorno a grattarsi e contorcersi.
Da quella volta, sembra che la cosa grigia ci abbia preso gusto: non si limita più a starsene sul cuscino o ai piedi del letto, ma ogni mattina prova a nascondersi tra i vestiti, nelle scarpe o dentro all’astuccio dei colori. Dal canto suo, Mia è diventata molto meticolosa, rivolta e controlla calzini e magliette prima di indossarli e spesso riesce a chiudere la cosa grigia in cameretta, o a correre giù per le scale così velocemente da lasciarla indietro. In quei casi, la cosa grigia sguscia da sotto al portone e la riacciuffa, e allora Mia deve portarsela a scuola chiusa nello zaino; più raramente, rimane a casa, così Mia con la coda dell’occhio può scorgerne la sagoma scura e indistinta dietro ai vetri della finestra, sapendo che la ritroverà comunque lì al rientro, più ispida e pungente di prima.
Ma in quei giorni di quiete, in cui non è costretta a controllare continuamente che lo zaino sia ben chiuso o che la cosa grigia non sporga dalle tasche dei jeans, Mia può concedersi qualche momento di serenità: nei lavori coi compagni è più disponibile e accogliente, l’ora di lettura trascorre in una concentrazione lieve e spensierata, non sente il bisogno di cogliere sguardi e bisbigli nel timore che siano rivolti a lei e alla sua sgradevole matassa.
Non l’ha mai vista nessuno, di questo Mia è certa. Solo una volta la cosa grigia le è rimasta addosso per tutto il tempo, ben visibile sul colletto di pizzo: ma allora era piccola, come era piccola Mia, e tutti l’hanno scambiata per un batuffolo di lanugine da spazzare via con un gesto veloce della mano.
Era successo che, come al solito durante la ricreazione, mentre i bambini sciamavano da un angolo all’altro del giardino inseguendo palloni, piccioni, merende, il gruppetto di Mia e delle sue compagne si fosse radunato all’ombra del grande olmo per condividere questioni della massima urgenza. Mia in questo è sempre stata la più brava di tutte: custode suprema dei segreti delle amiche, è lei a decidere fin quando proteggerli e quando invece raccontarli in giro, proprio al momento giusto, quando le viene voglia di far piangere qualcuno, di godersi lo spettacolo degli equilibri che vanno in frantumi.
La scena si era svolta come sempre: Mia al centro del cerchio che si accarezza le lunghe trecce perfette, Mia che umilia l’amica guardandola negli occhi già gonfi di lacrime, le altre che ridacchiano, la campanella che suona la fine dell’intervallo e di un pezzetto d’infanzia.
«Ma che hai lì? Lì vicino al collo».
«Io? Dove? Ah, niente, è solo un po’ di polvere».
Da allora sono cresciute entrambe, Mia e la cosa grigia. Quanto più una diventa invadente e ruvida, tanto più l’altra diventa sospettosa e scaltra: una deve esserci, l’altra deve nasconderla; una punge, graffia, puzza, l’altra è lucida e ambita, e quando ferisce lo fa col sorriso.
Controllare la cosa grigia è comunque molto faticoso. Così, da sola a fine giornata, Mia smette di affannarsi e lascia che le si avvicini quanto vuole. Poi si mettono entrambe davanti allo specchio e giocano un po’: a volte la cosa grigia diventa un mantello con un grande cappuccio a coprire tutta la faccia di Mia; altre volte è un’enorme parrucca disordinata, potrebbero farci il nido le cicogne. Altre volte ancora Mia si fa strada con le mani dentro al groviglio: quando trova il bandolo, si annoda il filo dietro la nuca e lo intreccia ai suoi capelli. Le trecce di Mia sono sempre perfette, gliele invidiano tutte.
Poi succede che la prof cambia i posti in classe. I compagni di banco, le affinità di sempre, le preferenze, le esclusioni, le sottili perfidie, salta tutto.
Ora la nuova compagna di Mia è Carla. Carla è quella strana, lo sanno tutti, e sembra che a lei stia bene così. Basta che non le diano fastidio, che non la prendano in giro: altrimenti reagisce strillando e lanciando oggetti. Le piace vestirsi di rosa e mettere i fiocchi tra i capelli, mentre le sue compagne sono già passate da tempo a piastra e mascara. A ricreazione mangia un frutto e fa un gioco tutto suo: se non piove e si può stare in giardino, va in fondo verso l’albero grande e comincia a girare intorno al tronco, scavalcando le radici, tante volte quante ne occorrono per finire la storia che racconta a bassa voce, a sé stessa e all’albero, forse. A volte inciampa, e torna in classe con le ginocchia sporche di terra, le mani un po’ graffiate. Se piove fa la stessa cosa, non in tondo ma in linea retta, su e giù per il corridoio. Lì di solito non inciampa, nessuno osa mettersi sulla sua strada o tanto meno farle uno sgambetto.
Lei e Mia si ignorano da anni, da quando in terza elementare la loro amicizia è finita misteriosamente. Nessuna delle due ne ha mai parlato, la pace obbligata dalla maestra si è presto trasformata in una reciproca tolleranza. Questa nuova vicinanza non piace a nessuna delle due, ma nessuna delle due se ne lamenta: per corrucciata rassegnazione l’una, per ostentata superiorità l’altra.
Così sono tutti un po’ sorpresi quando una mattina Mia chiede di poter andare in bagno, con la voce spezzata e gli occhi rossi, e dopo un minuto Carla la raggiunge, con la scusa di portarle dei fazzolettini perché la carta igienica non c’è mai. Sorpresa anche la prof, e sospettosa, alla fine acconsente, e forse quel cambio di posti non è stato del tutto casuale.
«Sei lì?», chiede Carla avvicinando l’orecchio a una delle porte dei bagni delle femmine. Sente uno strofinare frenetico di stoffa, e tirare su col naso.
«Vattene».
«No».
«E allora stai lì ma non mi scocciare».
«Ti fa molto male?»
«Cosa?»
«Quella cosa».
«Ma che dici? Che vuoi da me? Vattene, ti dico». Ma non lo dice, perché ha cominciato a singhiozzare.
«La polvere, la matassa, quella cosa che hai sempre addosso: ti fa molto male?»
Silenzio. Allora Carla comincia a fare la cosa che le viene meglio: buttare fuori parole a nastro, come quando è da sola e non c’è nessuno a interromperla. «La vedo, sai. Io la vedo, e non so perché gli altri no. Un fastidio, quando ero seduta nel banco dietro di te, con questa cosa scura che avevi sulla testa e che non mi faceva vedere niente: continuavo ad agitarmi sulla sedia per seguire la spiegazione alla lavagna, e poi rimanevo sempre indietro e il professore aveva già cancellato e così mi perdevo i pezzi della lezione e mi toccava fare quella che è lenta e non capisce e chiede di ripetere. Un giorno me la sono trovata tra i piedi, tutta scura e strisciante e aggrovigliata, mi ha fatto un po’ impressione ma non ho detto niente, tu e le altre eravate tutte prese a raccontarvi quelle storie noiose di fidanzati. E poi ha quell’odore, una volta stavo per bere del latte guasto ma me ne sono accorta dall’odore che non era, e aveva quell’odore lì, lo stesso della tua matassa. Prima eri più brava a nasconderla, eh. Adesso invece salta fuori da tutte le parti, a volte mi chiedo come fai a muoverti con questa cosa che ti stringe il petto e le braccia. E poi secondo me ti fa male. Ho ragione? Ti fa male?»
Ancora silenzio. Poi il chiavistello cade, la porta del bagno rimane socchiusa. «Se te lo dico mi aiuti?»
Mia ha il collo coperto da piccoli graffi, così come il dorso delle mani, e i polsi. La cosa grigia è annodata alla coda di cavallo e poi le scende sulle spalle, un po’ dentro e un po’ fuori dal maglione. Mia ne regge l’altra estremità tra le mani, e stringe, come per trattenere una preda appena catturata.
«Ma se la tocco prende anche me?»
«Non lo so, non l’ha mai toccata nessuno».
Quando la prof va a controllare perché non sono ancora tornate, Mia non piange più. Ha una grossa treccia attorcigliata intorno alla testa, la più bella di sempre, si guarda allo specchio e sorride. Anche Carla sorride, i graffi sulle sue mani si confondono con quelli del giardino, sono cose da nulla.

 

 


Giovanna Lombardo insegna lettere alla scuola secondaria di primo grado, è formatrice, consulente per l’editoria scolastica, autrice di antologie per la scuola secondaria. Ha insegnato a contratto per varie università e per l’Istituto italiano di cultura di Parigi. Ha pubblicato diversi saggi sulla letteratura italiana contemporanea e sui rapporti tra scrittori e produzione editoriale.


In copertina: Paul Hazelton, Ghost of my living mother (2010)

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