Qualcosa di weird – StileMio

Scrittrici e scrittori che non scrivete da un po’, forse vi identificherete in questa voce. Ma non ve lo auguriamo.


Di Christian Mella

È da tanto che non scrivevo su un pezzo di carta… è da tanto che non scrivevo, in generale.
Li sento già, quelli fuori, che alla prima riga si sbellicheranno subito dalle risate. “Allora era proprio matto, ecco perché è finito lì dentro! La forchettata a Missoni è stata solo l’apice”.
Già, la forchettata. Ma lasciamo perdere la forchettata, quelli lì direbbero “Era già matto perché uno scrittore che dice di non scrivere da molto tempo è proprio il colmo”. Ecco. Questa sì sarebbe una bella pugnalata, e mi ferirebbe a colpo sicuro perché dice la verità. È proprio il colmo.
In questa liberazione ho deciso che dirò tutta la verità, perché solo così, spero, mi toglierò questo peso che mi ha portato qui dentro, e forse anche il dottore si convincerà a farmi uscire in tempi brevi.
Ecco, la verità. Forse l’ho già detto, d’altronde è da più di dieci anni che non scrivo, perciò mi perdonerete. La verità è che io non scrivo più nemmeno una lettera dal giorno stesso in cui pubblicai il mio primo racconto. Tutti voi ricorderete Il verme di città, ecco, da quando è uscito, niente, neanche una lettera.
Il problema è che la fortuna mi ha baciato che io ero ancora vergine, di fortuna, non ne avevo mai vista neanche l’ombra e lei così, un giorno qualsiasi decide di baciarmi e io non me l’aspettavo, è colpa di quel bacio se ora sono qui.
Dieci anni fa, che non ero ancora nessuno, avevo messo insieme una ventina di racconti e così, ingenuamente, mi son detto “Allora, che ci facciamo?”. Così li ho riletti per benino, di quei venti ne ho scelti tre che mi sembravano i meglio riusciti, e di quei tre ho scelto Il verme di città, che era il mio preferito. E così, senza saperne niente (era solo un anno, che scrivevo) cercai quali fossero le riviste letterarie in Italia. Copiai la mail della prima che era uscita, e inviai.
Non era passata neanche una settimana che mi arrivò la risposta: il mio racconto era piaciuto, l’avrebbero pubblicato. “Rappresenta perfettamente la condizione di finta socialità, e dunque solitudine, dell’uomo moderno, da una prospettiva e con una poetica che mancavano al panorama nazionale”, mi avevano scritto. Io non ne ero così sicuro, però se lo dicevano loro, chi ero io per contraddirli? Mi dicevano anche che gli sarebbe piaciuto avere un altro mio racconto. Allora gli inviai Due piccioni e una fornaia, anche quello gli piacque moltissimo, me ne chiesero ancora un altro per la settimana successiva, e così gli inviai l’ultimo racconto rimasto della mia terzina, Prova tecnica, anche quello li convinse subito, addirittura mi dissero più de Il verme di città, e ancora mi chiesero un altro racconto per la settimana dopo. Ecco, è da lì che è cominciata la mia disgrazia.
Mi misi a cercare tra gli altri racconti che avevo, ma proprio non ce n’era uno che fosse anche solo lontanamente all’altezza di quei tre che avevo mandato. Non ero un esperto, ero molto giovane, ma persino uno che non avesse mai letto una pagina l’avrebbe capito. In quei tre racconti c’era alchimia letteraria, c’erano la realtà e i suoi nervi scoperti, c’era la promessa di essere arricchiti da ciò che si andava a leggere. In quegli altri che avevo da parte, invece, niente. Un po’ di idee interessanti, ma timide, schiribizzi ed esercitazioni, nulla di più. Intanto i giorni passavano, e o inviavo qualcosa, o dovevo dirgli che la mia era tutta una cosa improvvisata, che avevo quei tre racconti e basta, che mi ci era voluto un anno per tirar fuori quelle tre cosine lì da tutto un altro ammasso di esperimenti mal riusciti, e chissà quanto ancora mi ci sarebbe voluto per tirar fuori qualcos’altro di buono. Dire così sarebbe stata la mia fine, così pensavo allora, e il mio sogno sarebbe terminato lì, appena cominciato. Avevo avuto il pane e anche i denti, e ora mi ritrovavo col pane ma senza i denti, mi sembrava un’ingiustizia. Decisi allora di fare un tentativo, per mangiare ancora di quel pane.
Aprii ChatGPT.
A quei tempi mi aveva aiutato molto con un esame e ci avevo preso una certa dimestichezza. Aprii una nuova conversazione, la chiamai StileMio. Diedi in pasto all’intelligenza i tre racconti che avevo pubblicato, e gli chiesi se poteva scrivermi dei nuovi racconti usando come stile la scrittura di quei tre, i miei distillati migliori. Le idee di partenza gliele avrei date io.
 «…Sì, è possibile. Mandami pure i tre racconti, li analizzerò per capire i punti peculiari della tua scrittura, e sulla base delle tue peculiarità di scrittore elaborerò le nuove idee che mi manderai».
Così nacque Malattia e guarigione di Gustavo Alta. Il titolo esisteva già, era roba mia, ma il racconto era uno di quelli che avevo scartato. Adesso, a leggerlo così, come l’aveva scritto StileMio, era perfetto, e soprattutto, sembrava maledettamente mio. Certo, io non l’avevo scritto, ma l’idea era mia, lo stile era mio, e anche quelli della rivista, quando glielo inviai, non misero in dubbio che fosse inchiostro della mia penna. Gli altri tre racconti avevano fatto delle buone visualizzazioni, ma Malattia e guarigione di Gustavo Alta li batté tutti. Il mio nuovo racconto divenne il più letto in assoluto della rivista, ne nacque un caso letterario, e di lì a un mese mi contattò un editore. Voleva un romanzo.

Questa volta mi misi d’impegno: aprii StileMio, gli spiegai per filo e per segno l’idea che avevo avuto per il libro, e come la prima volta, a partire dai miei tre racconti, StileMio fece la sua magia. Questa volta, però, diedi anch’io il mio contributo: mi presi tre, quattro mesi abbondanti per rileggere tutto il libro, per fare un po’ di correzioni e dare il mio tocco, ma mi montò una rabbia! Non c’era mezza parola fuori posto, e tutto sembrava così scritto da me, ma così scritto da me, che sarebbe stato ragionevole congratularmi con me stesso, eppure io non avevo messo niente lì dentro, nemmeno una virgola. Ecco: decisi che almeno su quelle avrei lavorato. Mi rimisi di nuovo a leggere tutto, dissi all’editore che avevo bisogno ancora di qualche mese, ed effettivamente notai che le virgole potevano essere molto migliorate: alcuni periodi erano troppo brevi, affrettavano troppo il passo della lettura, così aggiunsi in totale centododici virgole. Così cambiava tutto, e l’idea era mia, e anche lo stile era mio. Si poteva dire, tranquillamente, che il romanzo era mio.
Lo pubblicarono nel gennaio successivo, di otto anni fa. L’anno dopo ancora, avevo venduto più di centomila copie, e avevo vinto un importante premio (ma questo lo sapete).
Io mi sentivo sospeso in un sogno, era un bel sogno, ma come tutti i sogni non vedevo le cose nitide, mi sembrava che tutto fosse ricoperto da un’impalpabile patina verdastra, e a volte avevo paura a guardarmi le dita per timore di scoprire che non erano cinque.
Il successo mi venne però in aiuto, e mi risvegliò abbastanza da quel sogno verdastro. Non sapevo e non potevo immaginare nulla di forchette per infilzare i salmoni. Mi proposero una prima traduzione per la Francia, e visto che avevo studiato il francese e lo parlavo molto bene, decisi di impegnarmi giorno e notte affiancando la traduttrice, e quell’attività mi regalò dei mesi felici di onesto lavoro. Ecco, non scrivevo nulla, ma davo il mio parere su quale fosse la parola giusta tra due sinonimi, se una traduzione più letterale o più di significato era la migliore per quel certo periodo, e mi sembrava così di dare il mio prezioso contributo.
Uscito anche in Francia, iniziai a ricevere una discreta attenzione internazionale, e anche la critica nostrana moltiplicò gli sforzi nei miei confronti. Per mesi, ogni giorno, c’era almeno un quotidiano locale o straniero che elogiava i miei lavori. Dicevano che “…Nel suo romanzo d’esordio, l’autore si è confermato all’altezza dei suoi racconti. La tematica sociale è rimasta al centro del suo discorso, e se dai suoi scritti brevi era difficile prevedere come il suo tratto esistenzialista potesse tradursi senza scivoloni in un lavoro di trama più lungo, con la sua recente uscita ogni velo di paura si è dissolto grazie alla lucidità consapevole della sua prosa”.
Iniziai a credere che quei complimenti mi appartenessero di diritto, che me li ero guadagnati, certo, sapevo che il romanzo non l’avevo scritto io, l’aveva scritto StileMio, ma io ero l’inventore di StileMio, e i testi che usava come materiale di partenza erano i miei tre distillati migliori; perciò, anche tutto quello che ne era uscito in seguito mi apparteneva.
Iniziai così a sentirmi sollevato, e io, che ero sempre stato molto umile, iniziai anche a darmi un poco di arie. Ero al centro dell’attenzione, tutti i giornali, le televisioni, i podcast volevano intervistarmi, e non passava settimana in cui sulla mia agenda non ci fosse in programma qualche apparizione pubblica.
Nel mentre, a cadenza mensile pubblicavo un racconto, che subito veniva poi tradotto anche in francese, inglese, tedesco, spagnolo e russo. Io mi occupavo personalmente di correggere le virgole negli scritti che produceva StileMio, e affiancavo i traduttori dall’italiano al francese.
Tutto andava per il meglio, ogni tanto quando mi facevano dei complimenti rimanevo imbambolato per dei secondi, ma poi mi passava e tutto andava bene, finché qualche anno fa l’editore mi scrisse dicendomi che era passato del tempo dal mio primo romanzo, non avevo mica qualche idea, vero? Per forza dovevo averla, mi disse. Però, una cosa: volevano che rinnovassi il mio stile. Va bene, le mie idee erano buone e la mia penna sapeva riportarle con maestria sulla pagina, però con il secondo romanzo dovevo cambiare un po’ registro, fare una piccola evoluzione, per mostrare al pubblico un altro lato della mia scrittura.
Ecco. Una piccola evoluzione. Un altro lato.

Un’idea per il romanzo ce l’avevo già, e mi sembrava buona. Il problema era quell’evoluzione. StileMio usava sempre quei tre vecchi racconti, come modello, era quello stile impeccabile che ero riuscito a distillare chissà come, molti anni prima, in quei tre primi racconti fortuiti. L’unico a conoscere il segreto di quell’alchimia era StileMio, non io. E perciò era anche l’unico che potesse fare qualcosa.
Erano giorni che pensavo a come fare, a dire il vero lo sapevo già, ma non mi decidevo. Poi ricevetti una chiamata dall’editore, non c’era più tempo, voleva sapere a che punto fossi.
Era notte, faceva caldo nonostante la finestra fosse spalancata. Tra le foglie degli alberi di fronte alla mia casa il vento scorreva, ma era come se ci fosse una barriera che gli impediva di entrare dalla mia finestra, e così tutto nel mio studio rimaneva incollato, immobile. Finalmente, aprii ChatGPT, ma questa volta non cliccai su StileMio. Aprii una nuova conversazione e la chiamai StileMio2.
Ripetei la stessa domanda che avevo fatto molti anni prima a StileMio: «Se ti invio tre testi (un romanzo e due racconti), sapresti scrivermi un nuovo romanzo (a partire da una mia idea) usando come stile quello dei tre testi che ti invio?»
Così feci. Diedi in pasto alla mia nuova creazione il mio primo romanzo e due dei migliori racconti che aveva scritto StileMio, e da queste mie istruzioni, in pochi minuti, StileMio2 mi regalò il mio nuovo libro. Era perfetto. L’idea era stata sviluppata bene e, soprattutto, era lo stile che mi aveva caratterizzato in tutti quegli anni, ma con qualcosa in più, di diverso. Provai a lavorare sulle virgole, ma non ce n’era bisogno. A togliere le poche che c’erano avrei fatto un danno, e ad aggiungerle avrei rallentato inutilmente il ritmo della scrittura.
Provai a ripetere l’operazione per diversi giorni, ma non c’era nulla da fare, e alla fine mi arresi. Il romanzo era perfetto, io non potevo migliorarlo in alcun modo, e lo inviai così all’editore.
Io sprofondai di nuovo in quella strana realtà da sogno in cui ero rimasto ingarbugliato già una volta, e più mi facevano complimenti per il mio nuovo successo, più vedevo le persone e gli oggetti coperti da una patina verdastra, più avevo paura di guardarmi le dita e scoprire che non erano cinque.
Non avevo fatto niente, del mio ultimo romanzo. Nemmeno le virgole.
Dovevo andare ad un incontro con il redattore della prima rivista che mi aveva pubblicato Il verme di città, voleva intervistarmi per la mia nuova uscita, e non sapevo con che faccia avrei retto le sue domande.
Mentre camminavo verso l’incontro con lui, ancora pensavo che non c’era niente di mio, in quel romanzo, nemmeno le virgole. Però, no! Ecco, pensai, ecco che c’è di mio: che sì, la punteggiatura in quel libro era perfetta e io non avevo dovuto aggiungere o togliere nulla, ma se era così perfetta era perché i lavori che gli avevo dato in pasto erano così curati, che da quelli aveva preso spunto per produrre un lavoro così ben riuscito. È vero, anche i racconti e il romanzo non li avevo scritti io, ma la punteggiatura sì, quella era la mia impronta: la mia punteggiatura, che curavo io, era così perfetta che StileMio2 l’aveva fatta evolvere ancora in meglio, ma gli sarebbe stato impossibile senza il mio precedente lavoro! Di nuovo con la mente lucida, la patina verdastra dissoltasi, arrivai all’incontro.

Adesso lo sapete già com’è andata, perché sono finito qui dentro.
L’incontro era andato benissimo, e spenti i microfoni e le telecamere mi sentivo molto sollevato. Il mio vecchio redattore, che mi aveva scoperto, ci teneva poi che mi fermassi in studio a mangiare qualcosina, io avevo degli impegni, ma accettai. In fondo, glielo dovevo.
Con una forchetta, stavo prendendo del salmone da un vassoio, che lui mi disse: «Sai, non te l’ho detto nell’intervista perché è un dettaglio così piccolo, ho pensato che magari è una cosa che ho notato solo io, però mi sembra un cambiamento enorme rispetto ai tuoi lavori di prima. Quando leggevo i tuoi racconti, e il tuo primo libro, pensavo sempre ci fosse qualcosa di troppo, di insignificante eh, però di troppo, e ora ho finalmente capito cos’era a farmi storcere il naso. Le virgole! Troooppe virgole, i periodi diventavano ampollosi, ora invece è tutto così scorrevole, così serrato! Bravo, bravo, bravo! Ti sei superato».
Io vedevo e sentivo tutto come in un sogno. Le virgole… il mio stile… i periodi ampollosi… Rinvenni solo quando mi legarono per portarmi via, con un filo di voce ripetevo ancora «Stile mio… stile mio…»,  e quando finalmente mi zittii e mi accorsi che mi legavano, cominciai a mugolare perché, perché mi portavano via, e gli infermieri mi girarono la testa e mi dissero «Ecco, ecco perché ti portiamo via!». E solo allora vidi e mi resi conto, la forchetta del salmone infilzata nella sua mano, una pozzanghera rossa per terra.




Christian Mella (2000) vive in provincia di Milano e lavora da Milano a Roma, passando per
Perugia, Brescia e Torino. Si è infatti laureato da poco in Global Politics and Society presso
l’Università degli Studi di Milano, e mentre cerca di farne la sua professione lavora come driver in
tutta Italia. I suoi pallini fissi sono la letteratura e la geopolitica: quando chiude un libro apre una rivista di geopolitica, in un circolo vizioso spezzato per sua fortuna dalla sua ragazza e dai suoi amici (con cui puntualmente parla di queste due cose). Nel 2024 è arrivato tra i finalisti di IncipitOffresi, e dal 2025 collabora con IlPoloPositivo e ha conosciuto il collettivo Galab.
Nel fine settimana cucina degli spaghetti alle acciughe dalla ricetta segretissima.


In copertina: Con-fusione by Giulia Bocchio

Una replica a “Qualcosa di weird – StileMio”

  1. Lettura molto incalzante, con l’espediente dell’anticipazione del finale che rende tutto più curioso. Intreccia due temi fondamentali della nostra modernità. Unica critica (costruttiva): ma l’editore del protagonista non possedeva un software per distinguere il lavoro dell’AI da quello umano? Oppure lo stile era così affine a quello dei tre racconti originari che era impossibile dubitare del suo talento (come il narratore vuole farci credere)? Certo che è un espediente narrativo e poi il contesto è già surreale, e non si capisce se sia davvero più sano il mondo del protagonista. Buono il riferimento alla dissociazione che sprofonda nel suo tracollo mentale. Mi è piaciuto molto.

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