Qualcosa di weird – Il corno

Calendario dell’avvento a modo nostro.
Questo è il racconto che apre la nostra rassegna dedicata al weird, una storia che arriva da una Sicilia senza tempo, dove una creatura mitica compare in un contesto domestico già incrinato,  la cui presenza riattiva  affetti distorti e superstizioni.
È l’inizio di una discesa nella colpa, nell’allucinazione che abita da sempre il rapporto fra uomo e creatura. 


Di Matteo Balestra

 

Ddu frociazzu ri me figghiu Marino un giorno portò a casa quello che all’inizio mi sembrava solo un cavallo molto strano. Aveva il pelo lucido e così bianco che si vedeva anche di notte, ma soprattutto un lungo corno conficcato in fronte. Solo quando accompagnai Marino in città scoprii che si trattava di un unicorno, un animale delle leggende “bonu pi ‘n puppu comu to figghiu”. Marino adorava quella cosa e la trattava come una persona vera, ma io ci rissi subito che non la volevo vedere. In lacrime, Marino mi ci disse che non solo era la sua migliore amica ma che aveva la stessa voce della mamma, che non c’era più. Anche se questa cosa mi turbò, visto che u picciriddu non la smetteva più di piangere decisi di fargliela tenere, nascosta nella stalla. Ma anche così le voci non smisero e si iniziò a dire che tenevo quella bestia nascosta da tutti per pigghialla ndo culu. Una di quelle notti in cui l’alcol e i pinzèri mali mi tenevano sveglio, mi venne da pensare che nessuno avrebbe preso in giro Marino se quello fosse stato un cavallo e basta. Mentre tutti dormivano entrai nella stalla e colpii la criatura con un pugno sul muso. Quando fui certo di averla tramortita la legai con una corda e le scompigliai la chioma, imbrattandola di terra e polvere. Presi la sega, e dopo averle bloccato il muso col braccio mentre si dimenava e scalciava passai al corno. Arrivato a metà dell’opera mi accorsi di avere le mani ‘nzuppi di sangue, ma non mi fermai. Quando finalmente riuscii a strappare il corno, l’unicorno lanciò un nitrito profondissimo e si accasciò. Chiddu bastardu finì accussì. La mattina dopo, con Marino feci finta di non avere sentito nulla e visto che non la smetteva più di piangere gli ci rissi che se lo avessero visto così gli altri lo avrebbero considerato ancora chiu tuccatu da rannula. E all’inizio sembrava aver capito, ma se non frignava di giorno lo faceva di notte mentre chiamava l’unicorno. Le cose andarono avanti così fino a quando, una sera, chiamai Marino per fari a cena. Alla quinta volta che non rispondeva salii in camera sua. Il letto rifatto e il pigiama infilato sotto il cuscino mi fecero rabbrividire. Quando mi accorsi che la luce della stalla era accesa capii subito. Figghiu miu! Quello che rimaneva del suo corpicino era un manichino senza testa che teneva tra le ditine il mio fucile da caccia. Con le mani che tremavano, avvolsi Marino in una coperta e uscii. Iniziai a camminare senza sapere dove andare, convinto che se mi fossi fermato avrei ceduto alle lacrime. Marino iniziava a puzzare e il suo sangue, tanto diverso da quello della criatura, era appiccicoso. Mi ritrovai lungo un sentiero che non conoscevo, la luna alta nel cielo e lo sbattere d’ali dei corvi. Realizzai di essere vicino al Simeto solo quando iniziai a sentire il suo scrosciare. Fu in quel momento che lo vidi: in lontananza, sulla riva del fiume si trascinava una creatura a quattro zampe. Deperita, che cercava di abbeverarsi. Avvicinandomi, mi resi conto che era un unicorno. Ma non fece in tempo ad accorgersi della mia presenza perché qualcos’altro attirò l’attenzione di entrambi. Una mandria di unicorni correva libera, dall’altra parte del Simeto, sotto i raggi della luna. Lontano da mani umane che potessero far loro del male. E intanto, chidda povira arma di Di che aveva sete li guardava come me, in silenzio. Quella scena mi fece abbandonare la presa su Marino e scoppiare in lacrime. Sentendomi singhiozzare, prima la creatura alzò la testa e poi iniziò a venire verso di me. Quando fu abbastanza vicina al piccolo Marino, abbassò il muso per annusarlo. Con delicatezza, e rispetto. E io gli ci rissi di annusarlo bene, perché u nicareddru era il migliore amico degli unicorni. Quando iniziò a leccarlo, come per svegliarlo da un lungo sonno, senti u cori miu rumpìrisi. Per fargli capire che tra me e la sua razza non c’era odio allungai la mano per accarezzarlo. Lui però me la morse, mi strappò un dito, e poi tornò al picciriddu. Ma il dolore per Marino era così forte che mi sembrò a megghiu castìga. Solo quando feci un passo indietro notai che ero circondato da una luce bianca. Decine e decine di unicorni stavano assistendo alla mia punizione in riva al Simeto, e anche quello che stava baciando Marino aveva iniziato a brillare, sempre di più. Per un istante pensai a quanto benedetti dovevano essersi sentiti nel Medioevo a vedere a una così benedetta criatura e mi venne naturale mettermi a pregarla, per affidarle l’anima di Marino. Mentre mi inginocchiavo, urtai qualcosa di molliccio. Il pezzo di un braccio, l’osso in bella vista. Passato il dolore e la magia del momento, ora iniziavo a vedere la scena per quella che era. Una creatura che non doveva esistere stava divorando i poveri resti di mio figlio. Mi tirai indietro con uno scatto e solo in quel momento l’unicorno alzò gli occhi. Azzurri e oro assieme. Umani, ma allo stesso tempo millenari.
Chiàngevanu?

 


Matteo Balestra nasce in una notte tempestosa del 1996 in un paesino sperduto della bassa bergamasca. Passa le sue giornate a leggere e scrivere senza toccare manuali scolastici fino a quando entra nel Liceo delle Scienze Umane, lì si diploma. Scoperto il suo amore per la società e le sue storture si laurea in Sociologia con un voto più che dignitoso. Ora lavora come Project manager e nel frattempo scrive, scrive e ancora scrive.


 

In copertina: Unicorno by Marten de Vos, 1572

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