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Speciale Premio Strega Poesia – Sorelle di confine, Intervista a Jonida Prifti

A cura di Annachiara Atzei

 

“dal mezzo della luce frontale
confine verticale
nei cunicoli della mente
estensione orizzontale
dal condotto solitario
busto d’albero”

Jonida Prifti, Sorelle di confine

 

Il confine è una zona di contatto in cui la poesia si muove. In Sorelle di confine (Marco Saya) – in corsa per il Premio Strega Poesia 2025 – questo margine è molteplice – biografico, geografico o anche temporale – ed è esplorato in ogni suo versante. Jonida Prifti lo descrive come una linea che divide, ma riesce a immaginarlo anche come spazio attraversato, esplorato e permeabile. In questo non-luogo, si muovono i personaggi del suo poema – La portatrice carnica, Annia o Tola (che non è altro che la stessa autrice) – riemerse dalla memoria personale per mescolarsi a quella collettiva con una forza e una evidenza che solo certe figure femminili sono capaci di portare con sé. La poeta albanese dà loro vita con versi sonori e accesi, inventando un linguaggio che fa dell’errore, dell’inciampo o della dimenticanza, parola nuova e dal senso molteplice.

 

 

 

Sorelle di confine è un libro “plurale”: per le storie che racconta, per le lingue che usa, per il riverbero sonoro delle scelte lessicali e sintattiche. Cosa accomuna questa pluralità?

La selezione di poesie che sono raccolte in Sorelle di confine non è stata premeditata. Solo dopo aver scelto i testi mi sono resa conto che qualcosa che avevo dentro era venuta fuori al momento giusto, dopo aver sedimentato nella memoria. E, a posteriori, riesco a vedere questo lavoro come un poema unico all’interno del quale i testi si riversano in un flusso continuo e dialogano tra loro. Quello che accomuna ciò che sta in questo flusso è il tema del confine, che è concepito non solo come linea che segna il limitare di un territorio e l’inizio di un altro – cioè come una divisione – ma come margine, anche interiore, esplorato in entrambi i suoi lati e nel mezzo. Una cosa che solo la poesia può raccontare.

Come dicevi, il confine è una linea di separazione ma è anche una zona di contatto nella quale la tua poesia si muove. Qual è il confine di cui parli? È geografico? È biografico? È un confine di tempo? L’errore, il ripensamento o la contraddizione sono un confine?

Includerei tutti confini che nomini. Si mescolano. Del resto, a differenza che nel racconto, in cui tutto deve trovare un senso, nella poesia tutto si combina. Qui, il vissuto personale si fonde e diventa una vicenda collettiva. Tutto quello che intacca la pelle attraverso l’esperienza viene elaborato e sommato dentro di me per poi uscire fuori attraverso la parola, il suono e la lingua. Quanto all’errore, sì, anche l’errore è un confine. Dopo che lo commetti, non ti fermi e vai oltre, oppure torni indietro ed eviti di attraversare quel limite. Di errore in errore, abbandoni il precedente sbaglio ed esplori ciò che il tuo cammino ti presenta dopo. Non è altro che un insegnamento di vita che poi, nel mio caso, si riflette nella lingua.
Se parlo da immigrata, quale sono, penso all’errore che si fa con la lingua: pian piano si impara a parlare correttamente e si smette di ricadere nello sbaglio. Quando scrivo, mi piace riprendere gli errori che sono propri della lingua per trasformarli in un vero e proprio lavoro sonoro. Sviscero la parola, cambio il suo senso o lo annullo per inventarne uno nuovo.

A questo proposito, tu sei una artista poliedrica: il tuo lavoro, infatti, spazia dalla poesia sonora alla musica alle arti visive. Come lavori per creare questa tensione emotiva e di senso che sembra moltiplicare il potere della parola? Trovi che il testo scritto abbia un “limite”?

È un processo complesso che ha a che fare con cosa io provo in quel preciso momento e con le vibrazioni tangibili che percepisco in quel determinato ambiente. Mi faccio trascinare, come se andassi in trance: mi perdo e mi faccio trasportare da ciò che avviene lì. Un testo già scritto posso cambiarlo live, togliendo, sottraendo o moltiplicando il senso del testo in base a come mi sento durante la performance. Talvolta, invece, invento testi completamente nuovi durante la mia esibizione.
Per quanto riguarda il testo scritto, ci sono dei momenti specifici in qui, trasportata, scrivo di getto, lascio e riprendo i versi più volte per poi rimetterci mano in seguito a seconda dell’esito del lavoro. Fin dal principio, so già che quel testo cambierà.
Credo, tuttavia, che ci siano dei testi che sono scritti per restare tali e che abbiano un effetto capace di trasferirsi al lettore. Quindi, no, la parola scritta non è un limite in sé. Il testo è definito e ha un suo senso, la performance può eventualmente aggiungere valore, anche a seconda di come si svolge.

Parliamo dei temi del libro. La raccolta mette insieme più storie di donne che in qualche modo sono entrate a far parte della tua vita, anche perché si sono distinte per le particolari vicende che hanno vissuto. Da dove parte la tua riflessione?

La mia riflessione è partita da La portatrice carnica e, subito dopo, ha avuto seguito con Annia. Queste donne sono venute a trovarmi improvvisamente, dandomi una scossa, e sono stata trascinata dalla loro storia. Nel 2019, a Sabaudia, vicino Roma, luogo che frequentavo da anni, mi sono accorta di una targa in memoria delle portatrici carniche: mille donne che nei primi del Novecento portavano munizioni e vettovaglie fino alla prima linea, durante la guerra contro l’Austria, sulle Alpi Carniche. Questo era l’unico modo per raggiungere il fronte, visto che era difficile percorrere le strade di montagna con mezzi diversi. Queste donne facevano viaggi lunghissimi con le gerle e rientravano a casa la sera, sole. Il governo le pagava poco. Tra esse, una morì: Maria Plozner, colpita da un cecchino austriaco. Ho scritto il poemetto che si trova in Sorelle di confine immaginando il suo ultimo giorno di vita.
Annia, invece, donna dell’alta aristocrazia romana e moglie di Erode Attico, visse nel 120 a.C.. Suo marito inviò un sicario per ucciderla, all’ottavo mese di gravidanza. In un periodo in cui ero sensibile al tema della maternità, perché ero diventata madre da poco, venni a conoscenza della sua storia durante una passeggiata alla Caffarella.
Ho sempre avuto un interesse per il tema del femminile e qui l’ho espresso in maniera evidente e consapevole. Nei miei testi, molto spesso la donna è la protagonista insieme a ciò che vive all’interno della società. Le storie raccolte qui, pur scritte in tempi diversi, sono appunto accomunate da questo tema.

Nella poesia Tola, che parla di una bambina che per la prima volta capta alla radio dei segnali in una lingua straniera e rimane meravigliata dell’esistenza di un mondo altro rispetto a quello che lei conosce, arrivi finalmente a parlare del tuo vissuto. Che ruolo ha giocato la curiosità verso l’altro da sé e il potere di immaginazione sulla tua vicenda personale e, quindi, sulla tua poesia? E che spazio ha trovato in questo libro? 

Sì, in Tola – ma non solo – parlo della mia storia in maniera esplicita. Per questo motivo prima mi riferivo a una vicenda collettiva: l’io scompare e si rimescola con l’altro. Non avrei mai parlato di me senza che la mia storia potesse essere condivisa, come storia di tutti. Sono arrivata dall’Albania in Italia 24 anni fa e la mia vicenda mi ha spinto a scrivere molto di me, anche laddove questo non è fatto in maniera diretta ma si legge tra le righe. In generale, metto tanto del mio vissuto e delle emozioni più significative della mia vita che ne hanno segnato determinati periodi. Scoprire, a sei o sette anni, che, al di là del mio paese, ci fosse un mondo altro ha significato, da adulta, ammettere di aver vissuto in un regime di repressione dal quale i nostri genitori ci proteggevano: non ci si poteva fidare di nessuno, né dei vicini né dei parenti, per paura di essere spiati. Se vogliamo usare la metafora del confine, il fatto di aver lasciato il paese di origine non significa aver superato un confine ma, probabilmente, averlo attraversato. Dire che ora sono qui e non più dove sono stata un tempo è, per me, complesso. Forse sono in entrambi i luoghi, in un confine-soglia, trasparente, acquatico dove vado, torno, resto. In sé, il confine può essere rigido, ma in questa raccolta, ho voluto renderlo permeabile. Nei testi, parlo di un confine che divide, ma c’è anche il tentativo di abbatterlo per far sì che non esista più. Nella realtà è difficile farlo, senz’altro può succedere nella poesia.

 

Foto di Gabriele di Pillo

 


Tre poesie da Sorelle di confine (Marco Saya)

 

Da  La portatrice carnica

 

Guardiana

 

Disturbo del ricordo
allargata raggiera
così, in sosta dal senso di dire
in quale forma sono?

Una testa di chiodo
orma, attorno all’ultima ferita
un pezzo di polmone
ridurre, dal peso in diffusione

per mezzo di voci si ripercuote
dalle fonti di collo
m’arriva l’urlo
alla sua sonnolenza improvvisa

nebbia, dal fondovalle
detrito di un sole
eclisse indolente, prosciugarsi
in alba persa, allungo confini

sprofondarsi, dentro strati di neve
innevato tronco in zona di zéi
detergo fronti caldi
guardiana d’un tratto in disuso.

 

Sorella di confine

                                   a Eva Geist

 

                  Il calore dei buchi neri è una stele di rosa.

Attende di essere decifrata per dirci cos’è davvero lo

scorrere del tempo.

Forse è un frutto acerbo. Busto bandito del gomito di

                                                            una divinità.

Fuso in argilla il melograno attraversa le nuvole.

La testa sposta l’aria delle vocali. Le bocche allargano

                                                                torture reali.

          Viso tra parei rossi. Pareti di riso. Paresi di raso.

Ti vendo nei triangoli, sorella di confine, in grigi chiarori.

      Dov’è il campo? Dov’è il grano? Dov’è lo strano?

Dalla nave, mani a indicare l’acqua.

Specchio d’alba. Diciott’ore di colli in fiamme. Polmoni

blu.

Non saltare il livello!

Viso tra parei rossi. Pareti di riso. Paresi di raso.

Ti vedo nei triangoli, sorella di confine. Attendi.

*

Divisa

Divisa da un mondo nel fango
specchio di legno con figura
nel mezzo delle porte, cibo per acari
due chicchi di fagioli, in vita

le prese di pugno del sentimento
malto per il gusto
la lingua, polvere nel palato
lontani cieli, foschia morale
sconosciute pieghe pulsano fari

baciarsi nell’altro mondo
sfibrarsi di pelli, ricongiungersi
dove d’aria affondarsi
in venti ineriti
aperti di notte, brillano protetti
i miei occhi.

*


Jonida Prifti nasce a Berat, Albania, e arriva in Italia nel 2001, è poetessa e artista poliedrica la cui ricerca spazia dalla poesia sonora e musica alle arti visive, partecipando a diversi eventi internazionali di arti performative, da sola o nell’ambito di progetti innovativi, come Acchiappashpirt, assieme al musicista noise Stefano Di Trapani e il duo J A con la musicista Eva Geist. Si laurea in letteratura, con una tesi magistrale sulla poetessa italiana Patrizia Vicinelli all’Università La Sapienza di Roma. Fra le altre cose, ha pubblicato Ajenk (Transeuropa, 2011), Rivestrane (Selva, 2017), Stazione degli occhi (Kurumuny, 2021), Tola (Canti magnetici, Acchiappashpirt, 2017), Flutura (MDTS, UK, A., 2015), Liri SM (Canti Magnetici, A., 2019), Click remover (Misto Mame, A., 2019), Enter ja (Rubber, LP, J A., 2019), Carnica (My own private records, 2022).


In copertina: Oskar Kokoschka, Due nudi, 1913

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