,

Speciale Premio Strega Poesia – Diario di un autodidatta, Alfonso Guida

A cura di Annachiara Atzei

 

“Penso a ogni tua parola
che sta dietro il mio inizio.
Penso che l’atto è un attimo
di fine in cui mi perdo.”

Alfonso Guida, Diario di un autodidatta

 

Alfonso Guida ha scelto di vivere nel ritiro, nel silenzio e nella solitudine.
Ha scelto di stare a San Mauro Forte, in Basilicata, dove è nato. Di tornarvi dopo una parte dell’esistenza trascorsa altrove (“Mi era ghiaccio,/ strapiombo, strazio morale, dialettica – afferma – ricominciare lontano, in città”), per riappropriarsi finalmente di sé poiché – sembra dirci – solo le radici alimentano il nostro senso di appartenenza e svelano, prima di tutto a noi stessi, la nostra natura. Solo il silenzio e la solitudine, come esperienze anche interiori, aiutano a distinguere ciò che davvero ha valore e a fuggire dalla indifferenza e dalla noncuranza. Quel luogo è la fonte di ispirazione della sua produzione letteraria, così come della recente raccolta poetica
Diario di un autodidatta (Guanda), in cinquina al Premio Strega Poesia 2025. Ma forse è anche più di un luogo di elezione e di impulso del suo lavoro, perché nei testi di Guida c’è una vera e propria corrispondenza col paesaggio, continua e profonda (come in Zanzotto, tra gli autori a lui cari), quasi che questo avesse uno spirito. Si direbbe, anzi, che questo sia un personaggio all’interno della narrazione, intorno al quale si muovono persone, azioni e sentimenti.
In questa terra del margine – trasfigurata nei testi – si è esuli e proscritti. Guardinghi verso l’alieno, tenuti stretti all’arenaria e all’argilla, quasi come in un deserto esotico. Diffidenti allo sguardo altrui e incapaci di affrontare sé stessi per la paura di colpe inconfessate. Da quel “poco” che c’è intorno – il paesaggio arso e antico del Sud – l’autore ha appreso e ancora apprende lo stare al mondo e di questo cammino di conoscenza (che giunge fin dove è dato all’essere umano) stila un resoconto, un diario sincero e onesto in cui il lettore potrà riconoscerlo e riconoscersi, se trova il coraggio di affondare nel sé più recondito. 

 

 

È una drammatica discesa nella dissipazione, quella che è contenuta qui, ancor più perché si è scontrata e ancora si scontra con una realtà giudicante e dura, inattuale, arroccata nella propria quotidianità e nelle proprie convinzioni e che non ammette la diversità, la visione, la ferita, piuttosto la infligge per allontanare l’altro – l’inadatto – per isolarlo e isolarsi.
Alfonso Guida indaga tutto: anche il torbido, l’inopportuno o l’osceno, inteso – quest’ultimo – come ciò che sta fuori scena, che si finge svolgersi aldilà dal palcoscenico, eppure è un fatto imprescindibile nel susseguirsi degli accadimenti e nel racconto di un passato che non è autoreferenziale o fine a sé stesso – non è un mero elenco di eventi – ma filosofia dell’esistenza, ragione prima di identità.
C’è, allora, ancora qualcosa che non si può dire? E la poesia fin dove può spingersi? L’autore lucano non si esime (e non ci esime) da nulla: parla della sua scissione interiore, degli uomini che ha incontrato, delle sue avventure erotiche, dei desideri e delle pulsioni, di relazioni sofferte, di demoni smarriti, di una verità davanti alla quale ha spesso esitato: quella “vergogna di sapermi avverato/ solo nel possesso dei corpi” di cui parla in uno dei versi. Dice di “destini occasionali”, Guida: di Vito, Michele, Giacomino e Nunzio – figure amate perché sfuggenti o sfuggite, che non sostano in una relazione se non rubata al tempo e che dal tempo ritornano nitide, in quel gioco di ricomposizione e mescolamento che fa la memoria. Sono amori curvati da un lato, che singhiozzano appena un cenno di stanchezza. E l’esercizio della memoria è un riscatto collettivo, il tentativo di vincere un vuoto che, in quanto soggetti senzienti, incombe e, forse, occuparlo con l’amore. In questo, ricorda Bolaño, la stessa sensibilità e ruvidezza della sua poesia, quando ne I cani romantici dice: “E a volte guardavo dentro me stesso/ e visitavo il sogno: statua resa eterna/ da pensieri liquidi,/ un verme bianco che si contorceva/ nell’amore./ Un amore sfrenato./ Un sogno dentro un altro sogno”.

Ma la storia della sua sessualità non è la sola che chiede di essere raccontata.
Tra le persone richiamate nei versi ci sono anche quelle della madre e del padre che, risucchiate in una complessa dinamica di amore e odio, di bene e male, di decenza e indecenza, ci appaiono in un rapporto sempre teso con l’io poetico. Quest’ultimo, nel definirne i tratti li condanna e li redime, li giustifica o li assolve per poi nuovamente manifestare il suo biasimo, come se non volesse o non riuscisse ad ammettere tutto perché troppo: come per quella “vastità del materiale che supera di gran lunga la mia memoria e il mio intelletto”, alla quale faceva cenno Franz Kafka in
Lettera al padre. Scrive Guida, spiazzandoci e inducendo chi legge a una riflessione necessaria: “Restavo nudo anch’io negli occhi giovani/ di mio padre. Lo amavo, come un corpo./ Mi tocca essere amato. Sono buono./ Sono un bambino buono – urlavo, muto./ Papà non capì il senso. Mamma intuì./ Poi raccolse un rifiuto e tirò dritto”: qualcosa accaduto nell’infanzia e, poi, durante la gioventù si insinua nel subconscio per riaffiorare sferzante e talvolta impietoso. Guida lo affronta, lo mette nero su bianco, nel tentativo di chiudere un conto aperto, di far tacere l’urlo forte che giunge dal passato, affannandosi dietro un peso di anni crollati.
Gli strumenti che usa sono la prosa poetica e i versi. L’incedere piano della parte iniziale del libro ci introduce ai temi delle sue poesie – il paese, la campagna, il legame con i genitori, le pulsioni di morte, gli autori amati (Sereni, Pagnanelli, Loi, ma anche Bellezza, Rosselli e Salvia) – mentre, nelle successive sezioni, le parole aprono uno squarcio sulla realtà e la dissezionano furiosamente. Assonanze e allitterazioni rendono il testo teatrale. E la lingua sembra venire anch’essa da una zona remota perché del remoto recupera le immagini e le sensazioni. Guida, infatti, è capace di inventare una semantica del ricordo fatta di nomi, personaggi e sembianze mai sbiaditi e sempre vivi.
Il diario è un registro, un taccuino: raccoglie frammenti di cose accadute. In questo caso, a stilarlo è un autodidatta, che apprende senza maestri o idoli. Li rifiuta (tranne i suoi mentori poetici) per abbandonarsi al suo vero io, senza sovrastrutture, retoriche di sorta o condizionamenti. Come chi scrive rannicchiato nella voce che gli parla dentro – come succede da bambini – e sente venire da un luogo indistinto un sussurro, una voce, un suggerimento. Il suono inconfondibile della poesia.

 

 


Tre poesie da Diario di un autodidatta (Guanda, 2025) 

 

AGNOSIA

 

Dal primo libro sporgeva la testa. Cambiava sesso, immagine, apparenza. Nascondeva il fardello, lo stridore. Povere panchine lasciate sole, tra le donne affollate di nidiate, tra le madonne dipinte con un ago d’abete e un nodo di crine sul tronco sfibrato di una betulla in disparte. Madonne senza luce. Donne apatiche. Suonavano rapsodie rap da Reipnol. Speranza corale, disperazione muta, cerimoniale di conferma di una fede nuziale, di un’unione mortale col sesso e col bene insalubre, di un’agonia di foglie e di comete decapitate, tutte convocate, dal mio sangue insonne, a testimoniare. Suore esultanti, allegre, col rossetto. Madri di minestre per gli stranieri della Caritas. Padri e figli schivi – l’impotenza, il vino, i campi – a fiorire. Mi spogliavo, nudo, per strada. MS, ragazzo da aspettare, da succhiare, legare stretto alla catena, al letto. Mi tormentava l’insonnia, la pena di non distinguere bene la strada. Procedevo alla rinfusa. Aspettavo la terra. Avevo perso non la casa, ma la terra. Parte di questa terra.

*

 

NUDO CON RACCONTO

 

La rabbia, per proteggersi. Il silenzio si volta indietro. Scandisci ogni grammo mordendo un ghigno. Ammucchi gli anni del giorno dopo.

*

 

CONGEDO

 

La terra è un crollo, un abisso descritto
dantescamente da Caproni. Inizia
l’estasi, l’entusiasmo. T’incammini.
Scendi, prosegui. Altrove pianti il seme.
Rizza le papille un gusto di morte.
La vocazione nasce come prova.
Non è un teorema. Sei tu, col tuo dono,
col tuo mistero. C’è correlazione
tra volontà e sottomissione. L’attimo
muta in tema. Scrivi, porgi la guancia…
La verità ti accompagna nei secoli
di una domanda, la stessa, impossibile
da porre, muta, viva, come il fuoco
di un tedoforo spartano o la lotta
di un santo, chiuso in cella, col suo diavolo.

*


Alfonso Guida (1973) è nato e vive a San Mauro Forte, in Lucania. Nel 1998 ha vinto il Premio Dario Bellezza per l’opera prima con la raccolta Il sogno, la follia, l’altra morte. Nel 2002 ha vinto il Premio Montale con la plaquette Le spoglie divise[Quindici stanze per Rocco Scotellaro]. Suoi versi sono apparsi su diverse antologie e riviste. Ha pubblicato inoltre Il dono dell’occhio(Poiesis, 2011), Irpinia (Poiesis, 2012), Ad ogni passo del sempre (Aragno, 2013), L’acqua al cervello è una foglia (LietoColle, 2014), Poesie per Tiziana(Il Ponte del Sale, 2015) e Luogo del sigillo (Fallone, 2017). Per Avampostocura la rubrica «Golpe».


In copertina: Joan Mirò, Il guanto bianco, 1925

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.