A cura di Annachiara Atzei
“Un’altra notte,
e sparge i suoi semi a caso.
Qualcuno si perderà nell’acqua, qualcuno
nel fuoco. O forse in niente. Soffia un vento strano,
che non conosci”
Giancarlo Pontiggia, La materia del contendere
Qual è la materia del contendere? Per capirlo è necessario percorrere un cammino a ritroso verso un’origine remota e cercare di penetrare il movimento del mondo per – finalmente – possederlo. Ma è davvero possibile? Prova a farlo Giancarlo Pontiggia ne La materia del contendere (Garzanti), in cinquina al Premio Strega Poesia 2025, con versi sobri, vaghi e precisi, e, allo stesso tempo, capaci di comunicare per immagini, così come ci ha abituato con la sua intera produzione letteraria. Un libro che parla al lettore come un soffio di brezza, una brezza misteriosa che rimette in gioco tutto, mescola le carte o, forse, le riordina secondo la sensibilità del poeta.
In esergo, un frammento tratto da Eraclito: “negli stessi fiumi/ scendiamo e non scendiamo,/ siamo e non siamo”: un enigma più volte riletto e reinterpretato, che Pontiggia utilizza come seme di riflessione e di scrittura. Come per il pensatore greco, anche per lui esiste una costante tensione delle cose, una dinamica trasformativa che unisce gli opposti e li separa di continuo, in un incedere costante. Questo fluire, paradossalmente, è l’essenza stessa della stabilità, la sua premessa. Ed è proprio da qui, da questa saldezza, che può generarsi il cambiamento. Ma non si tratta di un’opera filosofica – pur se dalla filosofia classica trae molti spunti – bensì di un libro sull’essere umano, sulla sua capacità di sperare, di proiettarsi in un futuro prossimo o distante partendo dai dubbi sul passato – anche lontanissimo – e dagli elementi primi dell’esistenza materiale – aria, acqua, fuoco, vento – alla ricerca di ciò che appare vero e con l’ambizione – talvolta supponente – di conoscerlo.

Già altrove, nella poesia dello scrittore milanese, i versi nascono da luoghi conosciuti e da esperienze vissute, spesso da bambino (penso a Con parole remote, Bosco del tempo o al più recente Il moto delle cose): sono contenuti nelle ore sonnolente dell’estate, nelle spighe, nelle robinie, nelle stanze ombrose, nella polvere delle strade che svoltano contro cieli alti. Nel vimine, nel viticcio, nel pioppo. In un filaccio di stoppia. In questa raccolta, i testi diventano più meditativi e le immagini usate si fanno metafora del concetto di tempo, di vita e morte, di eternità. Incontriamo, allora, il ranocchio che salta, un ospite che dorme e forse sogna, la morte che cammina sui trampoli, o un sandalo che rotola giù per una scarpata. E, nel tempo che l’uomo non può controllare, fiorisce la memoria, anche ancestrale, e l’energia creativa promana dalla parola quasi assegnandole un compito: far coesistere unità e molteplicità, caos e regola. Un esercizio di complessità (che ha caratterizzato la poesia del Novecento italiano, continuamente rivolta a ricercare le contraddizioni del reale) che non può prescindere dalla forza argomentativa, dall’uso delle sonorità della lingua e dal potere della visione. E proprio le immagini che Pontiggia sceglie permettono di dialogare col circostante, di conoscere ciò che altrimenti non è conoscibile, pur se usuale e concreto, e di percepirne il senso profondo. Se un pensiero contraddittorio ci agita, è da qui che può iniziare la nostra indagine sull’esistente e il nostro tentativo di connessione con esso. Si tratta di quella “verità in figure” di cui parlava Cristina Campo, che, attraverso i testi, viene ricomposta dal poeta il quale, modellando o ricreando tutto, si fa interprete e mediatore, ascoltatore e occhio attento su quanto accade.
Ammesso che sia possibile fare una sintesi dei temi trattati in questo lavoro, questi potrebbero essere tre: il tempo, le voci e i suoni che si rincorrono e si susseguono, lo spazio destinato al sogno. Quello descritto nel libro è un tempo allungato, radicato e magmatico – che pure non sempre sa: è “sovrano senza regno” – e che esiste perché noi lo attraversiamo (ed è così da sempre) e lo misuriamo. In tal modo, passato e futuro si fanno spazio tra i versi, nei quali, di volta in volta, “un otre di secoli straborda fuori da un addome” o “spiriti reclamano un passato”, oppure ancora il tempo è “remoto e inaccessibile” e si resiste, senza morire, né prima né dopo, senza tagliare alcun traguardo. All’interno di questo dis-ordine, la più piccola parte di noi – in movimento all’interno del tutto – ci spinge ad agire o a stare.
Poi, ci sono le voci e i suoni, che sono quelli umani e quelli della natura, così come quelli che promanano dagli oggetti del quotidiano: frammenti di vita vissuta, come un secchio, una brocca, una strada o un posto qualunque. Come a voler dire che qualcosa da sempre ci abita e ad essa apparteniamo, o come a tentare di legare un filo con ciò che è stato in un tempo che non abbiamo conosciuto e che tuttavia ha deposto qualcosa in noi.
Infine, il sogno (o la visione). “La notte impone a noi la sua fatica/ magica. Disfare l’universo,/ le ramificazioni senza fine/ di effetti e di cause che si perdono/ in quell’abisso senza fondo, il tempo” – scriveva Borges, che dei sogni aveva fatto un genere letterario, nella poesia Il sogno. È attraverso il sogno – sembra dire anche Pontiggia – che si ricompone il divenire e il divenuto e si giunge al luogo da cui proveniamo per renderlo certo.

In questo eterno tramutare, dove sta l’uomo? Qual è il suo ruolo? Anch’egli è un fossile (“l’uomo non mi piace”, fa dire severamente il poeta ad Amleto), mantiene tracce delle epoche passate e le raccoglie in sé, è ciò che resta di qualcuno un tempo vivente e testimone di una umanità precedente e nonostante ciò viva e, insieme, il portatore di una fiaccola sempre accesa. Viene da un altrove, dunque, trasferendo le reminiscenze di numerose generazioni e si mescola al resto – si fa anch’esso roccia, bosco, fiamma o neve – e col resto trema, fluttua, cambia e si evolve con trascorrere del tempo.
Scrive Pontiggia in uno degli ultimi testi: “Il tempo, questo sovrano senza regno,/ che getta la sua moneta a ogni bivio,/ ne sa meno di te e di me, che ci guardiamo./ Non credere a chi non crede troppo,/ e neanche a chi non crede, sii/ come la luce di questa baia, dove fa notte, e basta”. Essere luce sempre accesa come principio del sapere, come fondamento dell’indagine su di noi e sulla vita.
Quando un giudice dichiara cessata la materia del contendere, poiché il giudizio non può procedere per mancanza di interesse delle parti, il processo è definito e si estingue. Ma qui, dove la legge è quella del mutamento perenne, l’oggetto della disputa non viene mai meno, non si spegne, non perde mai il suo senso, anzi la sua ciclica revisione e le continue domande intorno ad esso ne alimentano il nucleo bruciante, tenendolo vitale. Perché, in fondo, il suono del mondo abita in noi, e afferrarlo è ciò che continua ad animare il nostro pensiero e il nostro sentire.
Tre poesie da La materia del contendere (Garzanti, 2025)
Qualcosa ha inizio questa notte,
qualcosa
che non è niente, eppure si fa strada
nel subbuglio delle cose, nel disordine
del mondo, qualcosa
che non è niente eppure c’è,
e ci segue, in un clamore
di vicende, di strepiti insensati, di vita
dentro la vita, qualcosa
che non è qualcosa,
un presagio, un soffio, forse un dire
d’ombra, un suono
sceso giù da chissà quale pertugio
e s’inoltra
*
Vi sento
qui, ora, nell’impeto
della mente che ricorda,
risale
un argine di boschi e di padri, sfocia
nel suo delta di tempo, immane
è
come un vivere acquattato,
che affiora, all’improvviso, sulle dita
che toccano un principio, uno,
– qualunque, denso, fermentante –
e dentro
il vuoto
e in quel vuoto
il suono
del mondo
*
Tutto è pieno di dèi, di vita che pullula.
Oppure: non c’è un bel niente,
ma un niente che pullula di sogni,
di storie. Oppure: non c’è un bel niente,
e va bene così.
Cogli il frutto che matura, dicono in tanti,
dop che lo disse un poeta sublime.
Oppure no, lascia che marcisca sul ramo,
con la sua buccia avida di sole.
È molta, troppa, la materia del contendere,
e neanche se fossi Aristotele, potresti venirne a capo.
Il tempo, questo sovrano senza regno,
che getta la sua moneta a ogni bivio,
ne sa meno di me e di te, che ci guardiamo.
Non credere a chi crede troppo,
e neanche a chi non crede, sii
come la luce di questa baia, dove fa notte,
e basta
*
Giancarlo Pontiggia nasce a Milano nel 1952, ha pubblicato le raccolte poetiche Con parole remote(Guanda, 1998; nuova edizione Vallecchi, 2024), Bosco del tempo (Guanda, 2005), Il moto delle cose(Mondadori, 2017). Per il teatro ha scritto Stazioni (Nem, 2010) e Ades. Tetralogia del sottosuolo (Neos, 2017). Saggi di poetica e riflessioni sulla letteratura si trovano nei volumi Contro il romanticismo. Esercizi di resistenza e di passione (Medusa, 2002), Lo stadio di Nemea (Moretti&Vitali, 2013), Undici dialoghi sulla poesia (La Vita Felice, 2014), Nuovi dialoghi sulla poesia (Amos, 2022), Origine(Vallecchi, 2022). Traduce dal francese e dalle lingue classiche.
In copertina: Road at St Paul, Félix Vallotton

