Anche tu sei lo scrittore che non sei riuscito a essere?
Vediamo cosa dice il professor I.
Una rubrica di Francesco Marangi
Ho avuto C come studente. A dire il vero ho insegnato ad A B e C. A di certo era il più mansueto, il più disposto ad imparare. C spesso farneticava, farfugliava, non amava parlare in pubblico, mentre A non aveva problemi a leggere un racconto davanti a tutta la classe. B era una via di mezzo, profondamente introverso, ma se c’era da parlare di letteratura poteva parlarne per ore, scatenava tutte le sue energie represse, tutta la rabbia e credo anche in parte una vaga frustrazione sessuale, ebbene le sfogava quando c’era da discutere attorno ad un racconto di Kleist o sulla struttura delle liriche della Dickinson, come se da quello dipendesse la sua vita.
Mi reputo un buon insegnante. Non sono mai riuscito a sfondare come scrittore, lo riconosco. Ho sempre pensato di essere un genio incompreso. Non è così, non valgo poi molto. Quello che posso fare è insegnare ai ragazzi come smontare e rimontare le opere che ho sempre tentato di raggiungere. Posso starmene seduto qui a scrivere: questo ormai è irrimediabile, una brutta abitudine che non posso soffocare; però ora scrivo con la ferma convinzione, e il sollievo, di non valere poi così tanto come scrittore; almeno non tanto quanto pretendevo in precedenza. Mi manca qualcosa di essenziale: quella punta di follia, il senso del kaos, il senso del suono totale, della parola magicamente riportata al primordiale ruggito, alla sua forma nucleica, infinitesimale.
Ho iniziato a insegnare ormai vent’anni fa, subito come ripiego, e poi, quando ho capito che il ripiego era la sola cosa che mi restava da fare nella vita, mi ci sono buttato anima e corpo, quasi con convinzione.
Vi parlo di A B e C perché in questi tre studenti, in questi ragazzi io ho intravisto, anzi, sono quasi sicuro di aver trovato, delle valide voci, menti originali; quel tipo di studenti che ogni professore vorrebbe incrociare lungo il proprio cammino. Prima di conoscerli avevo in qualche modo rinunciato alla letteratura, avevo perso la fede, guardavo gli studenti e li trovavo tutti poco interessanti, militarizzati, pronti a eseguire, senza reticenze di alcun genere, ogni ordine; anche se poi occupavano le aule e citavano Bakunin o, peggio, il povero Marx: viviamo in tempi oscuri. A B e C si sono presentati all’inizio dell’anno. Questo era un anno come altri per me; da molto ormai anche l’insegnamento non mi dava più nulla, non faceva che accentuare quel senso di fallimento, quel senso di vuoto che avevo alimentato io stesso, obbligandomi a una vita di inutili sacrifici. Insomma, avevo perso ogni entusiasmo.
Leggevo poco i contemporanei. Dov’è finita la letteratura? Dove si nasconde la grandezza? In quelle pagine non trovavo nulla. Per la disperazione sono tornato indietro di secoli: leggevo il Satyricon, Rebelais, poesie in greco e latino, l’Ariosto e il Tasso; mi ero appassionato ai testi esoterici e alle testimonianze delle mistiche medievali; in particolare Angela da Foligno, capace di scuotere, alla mia veneranda età, una libido ormai quasi assopita. Mi concedevo anche qualche escursione fra I canti di Maldoror: in Lautréamont ritrovavo il sorriso della perversione, l’estasi diabolica, quella volontà di scrivere sull’orlo del baratro. Ero diciamo sulla via del declino, e forse mi andava bene così, quando all’inizio di quest’anno mi piombano in classe A B e quello scalmanato di C. Non so da dove arrivassero, il loro passato è tutt’ora un’incognita per me. Sono entrati nella mia vita, hanno saccheggiato, messo a ferro e fuoco, e sono scomparsi, da un giorno all’altro. B dormiva durante le mie spiegazioni; A spesso scriveva, lo notavo quando passavo vicino al suo posto: ignorava del tutto le mie parole e seguiva una qualche voce che gli rimbombava nella testa. C poi, non ne parliamo. Un giorno l’ho beccato mentre si faceva masturbare dalla sua vicina di banco, ne sono ormai certo. Ho fatto finta di nulla, ovviamente. Eppure, quei tre ragazzi, quando si degnavano di consegnare i compiti che avevo assegnato, magari un racconto o un saggio breve, quando quei tre si mettevano a scrivere sul serio, i loro lavori erano, in rapporto alle peculiarità di ognuno, lavori brillanti, arguti, e mostravano una consapevolezza, nella scrittura, che mi stupivo di riscontrare in alunni così giovani. I racconti, nello specifico, erano per lo più straordinari. Senza dubbio il mio favorito era C. Credo che la scrittura di C avesse qualcosa, quel misterioso qualcosa che io avevo provato in tutti i modi a riconoscere nella mia scrittura; qualcosa che mi era sempre mancato. Forse talento, chissà. Sarà il tempo a decidere. Intanto mi sono preso la libertà di conservare le pagine di C, tutto ciò che mi ha consegnato, in un’apposita cartella, nel cassetto della mia scrivania. Grazie a loro sono tornato a credere che la letteratura abbia un senso; la letteratura come sforzo per trasformare l’umanità, incidere la pelle corazzata della Storia.
Le parole in fondo restano la nostra unica speranza. Ogni lettera, ogni spazio, ogni punto, ogni virgola, ogni scelta deve essere ineluttabile: il Verbo si trasforma in destino, il destino che proviene da Dio, Dio che narra sé stesso. Qualche errore di battitura ogni tanto. La letteratura come competizione, agone: vittorie sporadiche, ingannevoli; il più delle volte magnifiche sconfitte. Perché no? Dovremmo mostrare l’umile grazia di inchinarci davanti alla grandezza, quando questa ha la misericordia di palesarsi, di calarsi la maschera, per farsi riconoscere, per farci osservare il riflesso del nostro nulla, la nostra assoluta insignificanza.
In copertina: Georges Lemmen, Uomo che legge, 1883

