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Antisillabario – Elia sotto i portici di Via Roma

Antisillabario.

Ogni lettera è un personaggio, con una volontà precisa, desideri e paure, deliri e ossessioni. Come ogni personaggio anche le lettere hanno una loro storia personale, un passato con cui fare i conti e un futuro a cui sono inevitabilmente destinate.
Oggi E.

 

Una rubrica di Francesco Marangi

 

Ho incontrato Elia un giorno di pioggia, di sabato, gli studenti facevano casino nei bar, io cercavo un buon posto per passare la notte. Pioveva forte e lui stava fermo, seduto sotto i portici di Via Roma. Io avevo deciso di prendere la metro, non per andare da qualche parte: contavo di fare avanti e indietro, appisolarmi sui sedili fino a chiusura e dopo dormire in qualche angolo appartato. Sotto terra forse fa meno freddo, ti addormenti ascoltando gli spiriti ridere nel buio. Intanto guardavo tutta questa gente che si muoveva per strada. Dove sta andando? Verso dove è diretta? In cosa spera? A quale Dio si inginocchia? Verso quali stelle si posa il loro sguardo nelle notti più scure? Ho incontrato Elia, la sua faccia pallida e magra, uno scheletro uscito da qualche tomba dimenticata all’ombra di un albero di pesco, o un banano magari, nelle terre dove il sole sorge rosso e inquieto sopra leoni addormentati, capanne di fango, coccodrilli e ippopotami con le enormi bocche spalancate nell’acqua torbida. Mi sono avvicinato a lui, avevo paura di svegliarlo, ma non ero sicuro che stesse dormendo, ero preoccupato, volevo assicurarmi che respirasse. Ei scusa, gli ho detto. Lui ha aperto gli occhi piano piano e mi ha sorriso. Più gengive che denti. Io sto bene giovane, mi ha detto. Stai bene? Sì, io sto bene giovane, ha detto ancora. Sedere, mi ha detto. Non so perché ma mi sono seduto. Aveva una voce incredibile, quelle voci profonde, gorgoglianti, con un suono simile a uno strano strumento orientale o qualcosa del genere. Ho incontrato Elia, mi sono seduto con lui, e sono rimasto in silenzio a guardare i piedi della gente, o meglio le scarpe e le gambe della gente, o meglio le scarpe e i pantaloni della gente. E c’erano molte scarpe e molti pantaloni, di misure e taglie diverse, e il pavimento era macchiato e le vetrine dei negozi sembravano diverse dal solito: i manichini senza faccia, i maglioncini, i vestiti lunghi, le sciarpe di lana: una sorta di misterioso carnevale. Poi Elia mi ha passato un cartone di vino rosso. Ho ringraziato con un cenno della testa e ho bevuto, gliel’ho passato e ha bevuto anche lui. Poi ha preso da una saccoccia un tozzo di pane secco, l’ha spezzato con fatica in due e me n’ha dato un pezzo. Aveva mani antiche, le mani di uno sciamano, le mani di un contadino, le mani di un santo, le unghie sporche e spezzate, le dita spesse: forse aveva lavorato come falegname per qualche tempo, forse aveva sempre chiesto l’elemosina, magari per le
vie di Addis Abeba, Madrid, Atene o Kuala Lumpur, forse aveva un sogno, forse scriveva poesie, forse non aveva bisogno di nulla: pregava ogni sera, prima di coricarsi sotto la lurida coperta, bucata e strappata, guardava la notte addormentare la città, le luci alle finestre, il chiarore di stelle vere e stelle inventate.
Ho incontrato Elia, ho sonnecchiato con lui per una notte, una notte freddissima, quasi abbracciati, uno contro l’altro per scaldarci. Quando mi sono alzato ho visto la giacca fosforescente di qualche netturbino, la strada bagnata, dal cielo non arrivava più neanche una goccia, sarebbe uscito il sole. Avevo i piedi congelati e tossivo. Ho pisciato in un angolo. Elia era appoggiato alla colonna, aveva gli occhi aperti. Ho avvicinato il palmo della mano alla sua bocca. Poi ho guardato il mio riflesso nella vetrina, avrei bisogno di un paio di scarpe nuove, quando piove mi entra l’acqua dalle suole rotte. E ho pensato che era domenica: fra quattro o cinque ore, i negozi sarebbero stati pieni di gente.


In copertina: alfabeto graffetta by Teo Menna

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