L’arte come espressione di sé, l’arte come atto apotropaico di denuncia e autodeterminazione. In questo racconto di Melania Mieli, il simbolismo, è un abisso etico ed estetico che lega a sé i temi del trauma, della memoria, del potere, e delle complesse dinamiche che legano vittime e carnefici in una rete ambigua e disturbante di relazioni mai svincolate da bias e occhi giudicanti.
#Dicembrenarrativo
Rappresaglia
Riccardo raggiunge il luogo dell’invito con un quarto d’ora di ritardo. Elena Cavani Muraro – Rappresaglia è inciso sulla carta goffrata, insieme alle coordinate necessarie per partecipare all’inaugurazione della mostra.
A quanto dice il sito internet del museo nella sezione eventi, in esposizione temporanea ci sono venti autoritratti fotografici, a delineare la parabola creativa dell’artista. Si tratta di un percorso scosso dal demone eterno e sempre mutevole della Violenza, che si fa corpo nella materia profonda e densa dell’opera, e svela la sua anima dissonante, esaltata dalle diverse incidenze della luce.
“L’ombra è la nostra libertà, la luce è desiderio di vendetta. La Rappresaglia è la nuova realtà”. Questo scrive l’artista.
L’invitato mostra il suo lasciapassare all’ingresso.
Gli bastano pochi passi nella struttura per concludere che la scelta di rinunciare al solito completo con cravatta a favore di blue jeans e camicia è stata quella giusta. I presenti sfoggiano look curatissimi ma alternativi, e in una qualsiasi delle sue giacche Emporio Armani si sarebbe sentito fuori luogo.
Si avvicina a una cornice sospesa al centro della sala, un bestione di due metri per due, da cui lo osserva una foto a mezzo busto di Elena. Ha gli occhi sgranati e la bocca aperta da cui fuoriescono due fili di bava e di miele. Un bustino a rete le chiude il petto strabordante in cui sono intrappolate sei api pronte a nutrirsi del nettare luminoso. La sua pelle è tanto patinata da sembrare porcellana, i capelli neri sono sistemati in una treccia ordinata appoggiata lateralmente sulla spalla.
«È potentissima» dice un ragazzo alle sue spalle in compagnia di una signora vestita con un caftano multicolor. Riccardo si volta verso il coetaneo, con uno sguardo involontariamente interrogativo.
«Sei api come i sei ragazzi dello stupro» si sente in dovere di spiegare l’altro. «Li sta concettualmente uccidendo».
La mandibola di Riccardo si serra, sente le guance colorarsi di rosso e si allontana verso la cornice successiva.
Ancora lei.
La protagonista indossa unicamente uno slip blu, lo scenario e il pavimento sono dello stesso colore. È voltata e accucciata su uno specchio pieno di lesioni. La figura è tagliata all’altezza del collo reclinato in avanti. L’illuminazione esalta le pieghe paffute che le si formano sulla schiena da cui sgorga del liquido rosso, che si va a raccogliere tra le crepe del riflesso in basso.
«Mi perseguita»
«E allora diamole quello che cerca»
«Falla entrare».
L’ospite avverte un forte senso di nausea, si volta verso la porta alla ricerca dell’uscita, ma incontra piuttosto il sorriso gentile di una giovane ragazza in frac con tanto di papillon.
«Sta per iniziare la presentazione, la prego di accomodarsi».
Elena è seduta sul palco davanti a un centinaio di persone, oltre a quelle che la stanno seguendo in streaming sui social. È concentrata sulle parole che la giornalista utilizza per descrivere la sua mostra; arriva a definirla “un racconto delicato e crudele sull’esistenza”. Ne è soddisfatta, tuttavia parte della sua attenzione va ai vestiti scomodi che indossa, a come appare dal vivo e online. Ha dovuto trattenere la pipì perché tirare giù la guaina contenitiva avrebbe richiesto troppo tempo, le calze le tirano e la giacca le comprime il petto; ha paura che il bottone della gonna ceda o che la seduta risulti scomposta visto che non riesce ad accavallare le gambe. Evita di toccarsi o muoversi, onde scongiurare che il suo disagio sia visibile anche agli altri.
Si guarda intorno. Gli uomini con lei sul palco sono molto più rilassati: hanno scarpe comode, camicie e pantaloni larghi, si adagiano sullo schienale e non sembrano preoccuparsi dello spazio che occupano. «La sua non è certo un’arte facile e leggera» dice la giornalista. «Ciò che rappresenta sembra aiutarla a estrarre da sé tutte le emozioni e i malesseri che ha provato. Da cosa deriva questa ossessione per il colore blu, che caratterizza fortemente tutte e venti le opere qui esposte?».
La fotografa avvicina il microfono alle labbra e pronuncia una risposta collaudata: «Nell’autoritratto concettuale l’estetica assume un ruolo cardine. Sentivo il bisogno di trovare un mio linguaggio cromatico inconfondibile. Il blu è il cielo e l’acqua, su cui si svolge la storia brutale che avevo l’esigenza di raccontare».
«Sta lavorando a un nuovo progetto?».
Che espressione assumerebbe tutta questa gente se sapesse la verità? È tutto un bluff. Io sono un bluff e sto ingannando tutti con qualche scatto fortunato, e adesso ho dentro solo il vuoto.
«Sto raccogliendo vari pezzi, spero che a breve prenderanno una forma».
Al contrario della precedente, le successive richieste dei critici non la colgono in fallo; Elena motiva le scelte tecniche, incassa i cosiddetti complimenti al suo coraggio – d’altra parte, mostrare nudo il suo corpo grasso è considerato un atto eroico.
Dalle ultime file della platea una ragazza interviene entusiasta: «Lei è un mito per me, io non avrei mai avuto il coraggio».
Eccolo di nuovo, quel complimento che la offende.
Ormai è abituata a incassare il colpo, sarebbe riuscita a sorridere e annuire con educazione a chi giudica il suo corpo talmente mostruoso da richiedere coraggio per esporlo, se non fosse per la figura alle spalle della giovane.
Riccardo.
È in piedi accanto all’uscita, ha le mani affondate nelle tasche dei jeans, una posa che gli ha visto assumere spesso negli anni del liceo, quando, insieme ai suoi compagni di classe, occupavano gli scalini in cortile durante la ricreazione. Sente la gola chiudersi e la salivazione azzerarsi, per sua fortuna le basta uno sguardo nella direzione della sua assistente Donatella per ottenere un salvifico bicchiere d’acqua.
Riccardo ha accettato l’invito.
Negli anni in cui lo ha osservato attraverso le foto condivise sui social, a Elena era sembrato cambiato: i lineamenti dolci le apparivano induriti, intorno agli occhi notava il progressivo accentuarsi delle rughe, il caschetto corvino era diventato un composto taglio corto. Lo sguardo che le indirizza adesso, tuttavia, è esattamente quello di prima, colmo di rifiuto, disgusto e odio verso chi l’ha trasformato in un mostro. Ma ha accettato l’invito, e si convince che una parte di lui deve ancora essere inebriata dal potere che esercita, come una droga.
Terminata la presentazione, lui torna nell’area espositiva; lo fa cercando di collegare alle immagini quanto ha ascoltato poco prima. Si avvicina a gruppetti di intenditori per cogliere i loro
giudizi: alcuni definiscono gli autoritratti simbolici, contorti e rari; altri ne sembrano provocati, perché non si rivelano mai totalmente agli occhi di chi guarda, ma nascondono e sottintendono con cautela.
Il corpo di Elena è spesso compresso da lacci, tanto che ne riporta i segni sulla pelle. Cerca di pescare nei ricordi di quella sera, ma non rintraccia corde o altri strumenti di costrizione. Quelle fotografie sembrano raccontare una fiaba senza lieto fine.
Allo stesso tempo, le trova erotiche.
Perché sono qui? Si chiede per la millesima volta. Le risposte si accavallano una sull’altra, ma nessuna sembra convincerlo fino in fondo. Perché vuole sbagliare adesso? Proprio lui che non ha sbagliato un colpo: la dirigenza, il matrimonio, la paternità. È troppo tempo che non fa qualcosa per cui pentirsi e questo, combinato alla curiosità di scoprire quanto potere ha ancora su Elena, ha reso l’invito irrifiutabile. Sente il bisogno di alleggerire i pensieri, così siede al bancone del bar e ordina un prosecco.
«Lo stesso per me» aggiunge una voce nota alle sue spalle. Riccardo si volta ma fa fatica a guardarla negli occhi. «Ciao, Elena» riesce a pronunciare. «Complimenti per la mostra.»
Elena siede sullo sgabello accanto al suo e solleva la flûte appena servita. «Vuoi brindare con me?»
Alza la coppa senza esitazione. «Alle venti volte in cui mi hai concettualmente ucciso» prova a sorriderle.
«A tutte e venti» annuisce lei, per aggiungere, dopo un generoso sorso di bollicine: «Non credevo che saresti venuto».
Riccardo sente l’insicurezza che l’ha accompagnato nelle ore precedenti sciogliersi in quella affermazione. «Se non mi volevi qui, ti sarebbe bastato non invitarmi».
Elena afferra con la mano il bordo della giacca e lo spinge in basso a coprirsi il fianco, poi butta giù un altro sorso.
All’improvviso, davanti agli occhi dell’ospite svanisce l’artista e sembra tornare l’adolescente impacciata. «A volte agisco in modo poco razionale, tu lo sai meglio di chiunque altro.»
«Mi perseguita»
«E allora diamole quello che cerca»
«Falla entrare»
«Eppure è grazie a quello che è successo quella sera che hai…» allarga le braccia ma non riesce a terminare la frase.
«Nonostante» lo corregge lei. «Tutto questo è possibile nonostante quello che è successo»
Riccardo osserva Elena mentre afferra la pochette, e si alza.
«Non andare via, per favore»
Elena socchiude gli occhi e ripensa alle lenzuola impregnate di sudore, ai bottoni saltati, al vomito sul pavimento di cotto.
«La mattina dopo, mi hai detto la stessa cosa»
Quale dopo? Per lui esisteva solo il prima.
«Mi perseguita»
«E allora diamole quello che cerca»
«Falla entrare»
«Non ricordo» confessa Riccardo.
La donna incrocia le braccia, cerca di rallentare il respiro mentre l’aria le comprime il petto. «Non ricordi niente»
«Non è vero». Lui le si avvicina di un passo, le mani custodite in tasca e la testa bassa; lei pensa che voglia ingannarla, apparire innocuo.
«I ricordi mi hanno accompagnato negli anni. Sono intrusivi, incontrollabili: c’erano quando ho fatto la proposta di matrimonio alla mia fidanzata, quando le ho messo l’anello al dito sull’altare, durante la mia festa per la promozione a dirigente, quando ho pronunciato l’Eterno riposo al funerale di mia madre. A un certo punto,» con l’indice si indica la tempia «mi torni in mente tu».
Il ventre di Elena è pervaso da un senso di vuoto, le gambe sono così molli da farle dubitare che resterà dritta in piedi ancora a lungo. Dall’altro lato della stanza Donatella attira la sua attenzione: è arrivato l’invitato più atteso, un collezionista algerino, ed è tempo per lei di concentrarsi e accoglierlo come si deve.
«Non è il posto giusto per parlarne»
L’altro annuisce.
«Sali le scale alla tua sinistra, troverai una serie di stanze numerate. Aspettami al numero tre».
Davvero le ho chiesto di non andare via la mattina dopo?.
Riccardo si sforza ma non ne serba memoria. L’imbarazzo invece sì, quello lo rammenta spesso e volentieri: quello di vedere Elena arrivare a casa sua, nonostante l’avesse avvertita che stava facendo più tardi del solito con i suoi amici.
«Mi perseguita» si era giustificato con gli amici. «E allora diamole quello che cerca» aveva suggerito Enrico. «Falla entrare» propose Marco tra il serio e il faceto.
Lo scheletro della Centrale Montemartini di Roma mantiene la sua memoria industriale e allo stesso tempo assume una funzione distinta: quella di incontro, di ampi spazi museali espositivi intervallati a piccoli rifugi, come la stanza numero tre. Elena aveva chiesto agli organizzatori della mostra di allestire quella stanza solo per lei. Aveva dato indicazioni precise: il pavimento in cotto, il divano ricoperto da un lenzuolo bianco, il posacenere con sei mozziconi di sigarette spente. Nei primi minuti di solitudine Riccardo cammina osservando ogni angolo, ogni dettaglio gli sembra significativo: il quadro sul divano è l’imitazione del Giudizio Universale nella taverna dei suoi, il piccolo tavolino in ferro battuto dove è appoggiato il posacenere, lo stesso gancio in ferro battuto su cui è appeso un cappottino rosso. Ciò che differenzia la stanza numero tre dalla taverna è la porta d’ingresso: un portoncino in legno dipinto di blu nell’originale, una porta bianca senza mostre in grado di confondersi con la parete in questa palese imitazione.
È caduto in una specie di trappola, ogni minuto di attesa glielo conferma. Si aspetta da un momento all’altro l’ingresso della polizia, o peggio, qualche giornalista pronto a incalzarlo.
La sua reputazione ne sarà distrutta. Questo lo atterrisce e lo eccita allo stesso tempo.
Poi la porta si apre, ed entro solo Elena. Riccardo infila le mani nelle tasche e appoggia la schiena sulla parete di fronte. «Ottima ricostruzione, complimenti. Devi averci pensato molto in questi anni», «Tutti i giorni», «Mi hai sempre dato troppa importanza». La donna assume, a specchio, la posizione dell’interlocutore, spalle al muro, caviglie incrociate. «Al liceo ero in fissa con i manga giapponesi, e tu mi ricordavi quel tipo di bellezza: capelli a caschetto scurissimi, occhi chiari e corpo magrolino. Così ho iniziato a osservarti, seguirti, spiarti chiacchierare durante la ricreazione».
«Perché?» insiste lui.
«Per il mistero che ti apparteneva. Di giorno eri il rappresentante d’istituto adorato da tutti, e di sera…»
«Per qualche sera» precisa lui.
«Per qualche sera, eri il mio…», Elena lo asseconda, ma l’intervento sembra renderla insicura. Così si interrompe.
«Volevi aggiungere “amante”?» azzarda Riccardo.
«Non so cosa dire, non c’è un termine appropriato».
Lui apre le braccia, come a scusarsi di non poterle fornire la parola giusta. Non riesce a trattenere un sorrisetto: la possibilità di offenderla gli regala ancora un’irreprimibile soddisfazione.
Com’è riuscito a rinunciarvi per tutti quegli anni? «So solo che ti metteva in una posizione molto degradante».
Elena ammutolisce, abbassa gli occhi verso il pavimento per poi tornare a osservare l’ospite di sottecchi.
«Mi dispiace di aver interpretato male la tua disponibilità».
Tutt’a un tratto le sembra tornato il ragazzino di un tempo, quello che faceva sembrare tutto speciale: gli incontri dopo la scuola nella cantina putrida della nonna, le mani curiose di esplorare ogni pertugio, la promessa del segreto. Sembrava sempre innocente. Anche quando le chiedeva il permesso di venirle in bocca. «Credevi che fossi disponibile a fare sesso con i tuoi amici?».
Lui raddrizza la schiena, toglie le mani dalle tasche e le appoggia al muro, dietro le natiche. «La situazione è diventata presto irrecuperabile, almeno per un ragazzo di diciassette anni».
La donna inspira profondamente, ripensa alle risorse limitate che aveva lei, agli anni in cui aveva creduto di essere responsabile di tutto ciò che le era successo. Si chiede quanto davvero possa considerarsi più forte, adesso che lui le è di fronte.
Ti sono mai piaciuta?
«Potevi fare sperimentazione sessuale con chiunque volessi. Perché hai scelto una come me?» chiede invece. Lui alza il mento, sembra riprendere vigore. «Che significa “una come me”?», «Lo sai benissimo cosa significa» taglia corto lei.
Riccardo ride, ma amaro; non sembra divertito. «Non posso crederci: ancora non riesci a dirlo?» con una leggera pressione si stacca dalla parete e cammina lentamente in direzione di Elena, le si accosta scuotendo la testa. «Sei un’artista famosa, questo luogo gigantesco è pieno di gente che non vede l’ora di leccarti il culo, eppure non riesci ancora a dirlo». Solleva la mano destra e la agita, come se fosse di supporto alla ricerca di parole adeguate.
«Brutta, grassa, sgraziata, impacciata, un cesso, una busta, un boiler… cosa ti fa più paura?».
Nella vergogna di constatare la ragione altrui, Elena sente una pace che la sconvolge. «Quasi tutto, ma ci sto lavorando». Riccardo sgrana gli occhi, ora è lui che ha bisogno di abbassare lo sguardo. Con la mano si massaggia la tempia. «Posso baciarti?» si gira lentamente verso di lei.
La storia si ripete. Così come in passato, Elena sceglie le domande innocue, e Riccardo quelle pericolose. Tuttavia, ora, lei ha per la prima volta la consapevolezza che la sua risposta conterà. E così si avvicina a lui di un passo. «Sì».
Riccardo prende il volto della donna tra le mani, con i pollici le accarezza le guance prima di cercare le sue labbra. La bacia con calma, attende che sia lei a schiudere le labbra, poi cerca la sua
lingua.
Elena si sorprende della reazione intensa che le suscita ritrovare il sapore della sua saliva, come quello di un cibo famigliare, di quelli che accompagnano in luoghi persi della memoria.
Riccardo avvicina il bacino al suo ventre, le fa sentire che è eccitato, col corpo comunica ciò che a voce non oserebbe dire. Poi le solleva la gonna con la mano, non ha fretta di arrivare, si trattiene sulle cosce, le stringe, infine arriva alla fica. «Mi vuoi?» chiede. La donna si sofferma a percepire il calore che sente tra le gambe, il vuoto allo stomaco e la pressione alla gola. Nella faringe sente premere le mille risposte giuste: non adesso, non ancora, non più, non qui. Non ho mai voluto.
Non ho mai voluto che smettessi.
E nella scelta finale stringe all’osso la sua volontà: «No».
L’uomo allora interrompe qualsiasi azione, per qualche secondo persino il respiro. Si scosta appena per osservare il suo viso, nella speranza di trovare qualche segno di incertezza.
Ma lei non ne ha alcuno.
«Cosa vuoi?» le chiede.
Elena se l’è domandato un’infinità di volte, e mai come ora ha chiaro il suo desiderio: vorrebbe che Riccardo si autodenunciasse per il reato che ha commesso nei suoi confronti, e che ne accettasse le conseguenze.
«Vai alla Polizia, e racconta cosa hai fatto».
Riccardo resta immobile, trattiene di nuovo il respiro. Poi prende a muoversi per la stanza, percorrendola da lato a lato. «Perché non lo fai tu? Perché non ci denunci?»
Elena scuote la testa. «Mi hai chiesto cosa voglio, e ti ho risposto: vorrei che lo facessi tu».
Riccardo strofina le mani sui pantaloni, sono sudate. «Ti rendi conto di cosa mi stai chiedendo? Non si tratta solo di me, ho delle responsabilità verso la mia famiglia.»
Ne Il massacro di Riccardo, c’è il riflesso, prodotto da uno specchio verticale senza cornice appoggiato a un muro di cemento grezzo, da cui una Elena nuda, su uno sfondo blu e con la macchina fotografica appesa al collo, guarda dritta in camera. E ora, con la stessa intenzione di guardare avanti, ribadisce la sua volontà.
«Hai delle responsabilità anche nei miei confronti».
L’interlocutore non commenta, la guarda negli occhi, le palpebre sbattono più velocemente e la pupilla si dilata. Balbetta qualcosa di incomprensibile, il suono della sua voce è alterato.
Alla donna sembra di riconoscere un paio di termini: «Scusa, anche per me è stato…» ma non ci metterebbe la mano sul fuoco.
Riccardo distoglie lo sguardo, in cerca della porta d’uscita. Anche Elena si volta verso quel passaggio bianco latte, che sembra confondersi con la parete. Ha la sensazione che anche un’altra soglia, dentro di lei, si sia chiusa. Una soglia di latte. Ed ecco che i vari pezzi prendono la forma del suo nuovo progetto.
Sorride a Riccardo, ma lui non se ne accorge, così preso dalla frenesia di abbandonare la stanza, e non può sentirla attraverso la porta bianca, tornata ermeticamente chiusa.
«Addio».
Melania Mieli è lo pseudonimo di una blogger e scrittrice italiana nata nel 1983. Il suo sito, http://www.melaniamieli.com, è uno spazio di confronto con artiste e artisti indipendenti, dove sono approfondite tematiche inerenti alla letteratura contemporanea, alla sessualità e ai femminismi.
In copertina: Susanna e i Vecchioni (part.), Artemisia Gentileschi

