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Just Dropped In – Giulio Frangioni x STC Edizioni (Intervista a cura di Simone Beretta)

L’intervista più folle, divertente e pindarica di JDI, ammettiamolo: perché l’editoria si fa anche così, vagabondando, destrutturando tutto. Non c’è introduzione che tenga: lasciamo subito la parola a Giulio Frangioni che ci ha raccontato a cuore e cervello aperti STC Edizioni.

(Il tipo di team creativo con cui, dopo, vorrete uscire a ubriacarvi.
Spoiler: accetteranno).

 


Partiamo dall’inizio. Io vi conosco: ci siamo incontrat3 in un parco, due di voi sedut3 per terra, vi siete alzat3 subito, mi avete offerto una birra, e vi siete presentat3. Vi va di fare lo stesso con chi ci legge? Insomma, chi è STC Edizioni?

Ciao Simo! Ho un ricordo stupendo della sera che ci siamo conosciuti, grazie per avermelo riportato alla mente. Io e Tommaso uscivamo distrutti da una presentazione che ci aveva emozionati ma anche prosciugati. Letteralmente prosciugati: prima della fine io ero corso fuori dalla libreria piegato in due, con la Peroni scolata un secondo prima dell’evento a premermi sulla vescica con la forza del gruppo Mondadori S.p.A., seguita da immediata perdita di sensi. Quando ho riacquistato conoscenza ci trovavamo in un parco ed eri appena spawnato tu, Simo, super interessato, pieno di domande e pronto ad ascoltare — fa sempre piacere quando succede. Poi, se errare è umano, perseverare è STC: il momento successivo avevamo tutti e tre un’altra Peroni in mano e la serata era appena cominciata. L’evento a cui io e Tommaso avevamo partecipato quella sera faceva parte del tour di presentazioni dell’ultimo numero di Turchese, la nostra rivista letteraria e fotografica, che è un po’ come dire che scegliamo i testi più belli che ci vengono inviati e li accostiamo agli scatti dellɜ fotografɜ che secondo noi catturano meglio il senso del racconto, spesso — sempre — portando dei significati in più, letture diverse che sorprendono noi per primɜ. È questo che cerchiamo, questo il modo più istintivo per stringere la mano a chi ci legge e definirci. Siamo qui in cerca di racconti, poesie, libri che ci emozionano, che sanno scoprirsi e scoprirci in modi nuovi e che, perché no, ce la fanno fare addosso pur di non smettere di leggere.

 

Ci raccontate come siete nat3?

Tommaso è nato a Venezia, credo, se Mira non ha un ospedale. Io a Saluzzo (CN), ma l’ospedale ha chiuso subito dopo. Anna non ne ho idea, conoscendola direi in modo turbolento e foscoliano, Alessandro viveur bohemien maledetto già tra le braccia dell’ostetrica. Benedetta e Fabrizio, invece, fatico a immaginarli separati l’uno dall’altra, anche se Fabri è nato un anno dopo di lei. STC è il parto cesareo di tutte e tutti noi, ma anche di altrɜ, di chi non fa più parte del progetto, di chi lo farà. È la figlia un po’ comune e un po’ comunista di tante persone e di tanti anni — ormai sei — in cui si è presa tutte le coccole che poteva e ha fatto bene. All’inizio era un sito su cui pubblicavo i racconti scritti da me, quelli di cui mi vergognavo, che non facevo leggere a nessunə. Adesso è un quartiere, una casa in cui ci riuniamo quasi tutti i giorni — ci viviamo —, una cucina dove Fabrizio dà il meglio di sé ai fornelli, e a noialtrɜ l’appetito non manca.

 

 

Avete pubblicato i vostri primi due titoli: Wilmo, ricorda e Il pop deve ancora venire. Cos’hanno, questi due titoli, di STC?

L’amenità numero uno è che fino a qualche tempo fa la sigla STC stava per Super Tramps Club, il “club dellɜ super vagabondɜ”, ma non si può dire “casa editrice” senza dire “casa”: in questo senso i nostri libri hanno il sapore di un bentornato, quando appendi le chiavi e ti togli le scarpe che fanno male.  L’amenità numero due è che ovviamente le scarpe dolorose te le avevamo prestate noi, così che fosse ancora più bello tornare a casa. L’amenità numero tre è che delle cose che si amano non si può parlare senza cringiarsi, quindi riporterò le parole di Benedetta della redazione, che ha saputo riassumere il concetto meglio di me:

Ci auguriamo che i libri che usciranno avranno sempre un aspetto di “prorompenza”. Crediamo poco alla mera novità/originalità che pare obbligatorio affibbiare ai libri così come crediamo poco all’asservire la letteratura alle tattiche di marketing sfegatato che vanno sui social (infatti siamo perennemente sul lastrico) però insomma, la direzione in cui vogliamo andare è quella di pubblicare storie belle, belle perché brutte, belle perché vere, belle perché folli, come i nostri lettori… e tutto il resto dell’umanità!


Sulla situazione lastrico Benedetta non mente, e a quanto pare la colpa non è solo delle birre, ma ciò che facciamo ci commuove ancora come all’inizio, e per noi è questa la cosa più importante. Il nostro primo libro, Il pop deve ancora venire, è un romanzo a episodi in cui ogni capitolo è un racconto a sé stante, con tanti protagonisti diversi che di volta in volta sono vittime e carnefici l’uno dell’altro, che si sforzano di essere brave persone, inconsapevoli che sotto l’etichetta di brava persona si nascondano le oppressioni più feroci, quelle nascoste alla vista. Così come nascosto è il passato di Wilmo in Wilmo, ricorda, un libro dalla lacrimuccia assicurata su un vecchio ex-bibliotecario, reduce di guerra, che immagina di raccontare la propria vita ai personaggi dei libri che ha amato — se come siamo natɜ non lo ricordo più tanto, almeno so come voglio essere da vecchio. Inutile dirlo, gran parte di questi due romanzi prende piede in una casa, spesso in un atrio.

 

Ecco, a tal proposito, la collana in cui compaiono i titoli si chiama proprio Atrio e voi la presentate così: c’è qualcosa, nel mondo, che resta fuori da schemi e algoritmi, ci sono dei libri indecisi, si vede, se restare a casa o venire e mettersi così, vicino a una finestra, di profilo, in controluce. Vi chiedo: che ruolo sentite di avere, come editorə, nei confronti di quei libri?

Marco Angelini, l’autore di Wilmo, ricorda (lui è nato all’Ospedale Civico di La Spezia nel 1976, ho controllato sulla bandella), dice spesso che, anche quando si conclude la lettura, un libro non è mai veramente finito. Si esauriscono le pagine, sì, ma i personaggi continuano a tenerci compagnia anche ad anni di distanza, come accade all’anziano protagonista del suo, di romanzo. La cosa che nessunə ti dice mai è che il mestiere dellə editorə consiste per l’80% nello spostare scatoloni e spesso, per qualche motivo, li si sposta sotto la pioggia, o almeno in redazione ci piace raccontarcela così. Stamattina infatti piove. Sto scrivendo le risposte a questa intervista a bordo del regionale Imperia-La Spezia e, mentre mi dirigo a casa di Marco per lasciargli due scatole di libri — oltre a scroccargli il quindicesimo pranzo di questo mese —, non posso fare a meno di pensare che ha ragione lui. Un libro non finisce mai, soprattutto per chi lo pubblica. Su Wilmo, ad esempio, abbiamo lavorato per due anni, e l’impegno non accenna a esaurirsi. Anzi, la parte più faticosa arriva dopo la pubblicazione: non bisogna mollarlo mai, un libro, vanno accuditi, devono crescere dentro di noi, se ne deve parlare, bisogna sempre averne qualche copia dietro ché altrimenti si sentono persi — e noi più di loro: l’amore per i testi che pubblichi cresce con l’età e si invecchia insieme alle parole, sui treni, sotto la pioggia.

 

STC Edizioni non è solo romanzi, ma anche rivista e manifesto. La vostra rivista vagabonda si chiama Turchese ed è ormai al settimo cartaceo, Minifesto invece è alla prima pubblicazione. Che rapporto c’è fra queste tre anime?

Con Turchese è iniziato tutto, ma proprio tutto tutto, da quell’incontro tra racconti e foto che per anni è stato la radice prima della nostra redazione, tripartita come la Gallia in un “team testi / team foto / team grafica” che all’epoca faceva tanto casate di Game of Thrones e invece era Ned – Scuola di sopravvivenza. Con Turchese cerchiamo tanto la sperimentazione linguistica, tanto storie esaltanti, tanto scatti azzeccati quanto quelli stonati. Pubblichiamo nomi autorevoli e completɜ sconosciutɜ, non ci importa dei curriculum né dell’età — uno degli accostamenti storicamente più simbolici di Turchese è stato tra autrice ottantenne e fotografa ventenne, a ripensarci non poteva funzionare meglio. Minifesto invece è dove siamo noi della redazione a scrivere: è il nostro pamphlet politico di protesta, a cadenza impossibile da fissare. Per ora ne è uscito soltanto un numero, Minifesto I – Università, perché di che altro potevamo parlare? Sono 166 pagine di lamentele su carta, illustrate, incazzate, fuori di testa ma diverse da loro su performatività, capitalismomerda, caro-affitti, e sui**di universitari.
Se Atrio, Turchese e Minifesto stanno vicini sugli scaffali delle librerie è perché nelle nostre teste sono inscindibili, da prima ancora che tutto questo iniziasse. Il sapore vuole essere coeso, la lingua unica, l’idea è quella di testi che si tengono per mano, così come l’album ispirato al nostro primo libro, la newsletter, gli eventi.

Vagabond3, siete vagabond3, mi pare di capire. Cioè viaggiate su e giù per l’Italia per presentare i romanzi e Turchese e quant’altro. Quanto è importante, per voi, esserci? Intendo esserci davvero, faccia e corpo, in librerie e locali?

Esserci è essenziale. È tutto ciò che possiamo fare, davvero. In un mondo dove a contare non è tanto il libro quanto il numero, che sia di vendite o di like, noi proponiamo un modello di editoria diverso, che parte dal basso e si fonda sull’incontro, su una cura che è un po’ Battiato un po’ bell hooks. Bisogna smontarli questi schemi, sfondarli questi schermi, e andare oltre, aiutare vecchie libraie a spostare scatole, prendere bus pieni di insetti per spostarsi da una presentazione all’altra. Bisogna ascoltare le storie di chi ti legge, di chi non ti legge, di chi ti offre il pranzo quando arrivi in città per una presentazione. Soprattutto di chi ti offre il pranzo, direi, in definitiva.*

*n.d.A. Marco è venuto a prendermi in stazione e, a quanto pare, anche oggi si mangia male domani.

Programmi per il futuro prossimo? (Oltre vagabondare, s’intende.)

Ripagare il tipografo. [Fabione se stai leggendo giuro che ti ricopro d’oro Fabione lo giuro FABIONE ASCOLTAMI ANDRÀ TUTTO BENE FAB—

***

Grazie, Poetarum, per le belle domande, per l’accoglienza calorosa e per la sbatta di ascoltarci.


Intervista a cura di Simone Beretta


In copertina: artwork by Horacio Quiroz

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