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Speciale Premio Strega Poesia 2024 – Stefano Dal Bianco, Paradiso

A cura di Annachiara Atzei

 

 

Si muove.
Per come sembra a noi
mentre si muove ride,
prova qualcosa di nostro.
Ma il suo provare è un tentativo
di essere nel vento
un accordo di foglie
un fremito di luci nella luce
e è sereno,
non tenta di salvarsi
né si impone, fa
quello che deve fare
non ha un significato, è solo
solo nel suo chiuso riso,
paradiso.

Stefano Dal Bianco, Paradiso

 

Stefano Dal Bianco

 

In un mondo che ci scaraventa addosso input, segni e significati, la poesia può provocare una crescita del reale ed essere utile alla società solo se ci riguarda tutti. Per farlo, deve provenire da una soggettività salda, che non senta unicamente il bisogno di badare a sé stessa e di definirsi.
Stefano Dal Bianco chiariva questa idea di poesia nei primi anni Duemila, in un breve saggio che oggi possiamo leggere all’interno della sua raccolta più nota, Ritorno a Planaval (LietoColle, 2018), che indaga non solo sulla capacità dell’uomo di scrutare dentro sé stesso, ma anche sulla coscienza di ciò che si fa o si può fare attraverso la scrittura. “Scrivere è più che raccontare”, dice appunto in uno di quei testi, ed è proprio lì che l’assunzione della responsabilità è piena e che lo scarto tra l’oggetto della narrazione e la parola si divarica fino a tradire il ricordo, fino alla completa ricostruzione letteraria dell’esistente. Da allora, l’autore e docente di Poetica e Stilistica all’università di Siena – che esordì nel 1991 con La bella mano – ha attraversato lunghi periodi di silenzio per pubblicare nel 2012 Prove di libertà (Mondadori) e, infine, oltre ai saggi critici, Paradiso (Garzanti), che oggi è candidato al Premio Strega Poesia 2024.
Ciò non deve sembrare strano per un poeta che, per sua stessa ammissione, preferisce vivere la quotidianità e farne esperienza concreta, in costante attesa della disposizione interiore alla scrittura. Per Dal Bianco, infatti, deve sempre esserci una giustificazione del dire poetico: una maturazione personale – che ha a che fare anche con lo scorrere del tempo e con la memoria – dalla quale può e deve derivare un insegnamento per il lettore.
In Paradiso, è il luogo a giustificare la poesia. Qui, gli spazi che l’autore descrive sono le colline senesi intorno a Orgia, il borgo dove lui abita. Il poeta li percorre o, meglio, ne prende possesso e diventa parte integrante di quell’orizzonte, restituendo l’immagine autentica di un territorio preciso e amato. In questo, inserendosi – come si legge nel volume, a cura di Francesco Napoli, Poeti italiani nati negli anni ’60 – nella tradizione letteraria di Zanzotto e dei poeti del Triveneto, quell’ “orlo di mondo” dal quale muove la ricerca di assoluto in poesia e l’idea – cara anche all’autore di Padova – di ri-creare la lingua per ri-generare la comunità.
Il suo non è un versificare d’impeto, artefatto, ma qualcosa che monta dall’interno, elaborato negli anni di assenza dalla scena letteraria durante i quali Dal Bianco si interroga continuamente sul rapporto tra forma della poesia e vita. Ad accompagnarlo nelle sue passeggiate c’è il cane Tito – che tanto ricorda Belbo, il fedele compagno del protagonista de La casa in collina di Cesare Pavese, che insieme a lui va per i boschi fiutando e riconoscendo tane e tracce nascoste e insieme distraendolo dalla vita. Forse, la stessa distrazione professata da Dal Bianco, cioè “l’attenzione massima e contemporanea a tutte le cose”, che è guardare anche il contesto pur se i contorni restano sfocati. I protagonisti di questo diario in versi sono, quindi, l’io narrante, il cane Tito e il paesaggio. Attraverso il proprio sguardo, lo scrittore prova a godere della bellezza dell’ambiente, della perfezione, della protezione che assicura. Fuori dalla cronaca mondana, lontano da ciò che non gli interessa veramente, cerca di andare in fondo al senso delle cose: “Stare a vedere è facoltà di tutti/ ma ricavarne la chiarezza di un messaggio è privilegio/ di chi si lasciasse intontire dal sole/ scardinare dal vento e ritornasse/ su di sé ma senza più visione/ ora che tutto è perduto nel bianco lontano/ e sale, sale da dentro la voce del mondo”. L’essere umano è parte del tutto – sembra dire Dal Bianco – e, come tutto, è destinato a perdersi e a disperdersi. Eppure, questa consapevolezza non spaventa, anzi libera, consente di abbandonare i pesi, regalando un benessere nuovo. Non si tratta, allora, di un semplice guardare, ma di ragionare sullo stare al mondo, fare un altro passo nel cammino della comprensione dell’esistenza e provare finalmente a restituirla attraverso la pagina. E Tito? Qual è il suo ruolo? Cosa aggiunge il suo punto di vista – quasi dal basso – alla descrizione che fa l’autore degli alberi, della luce radente del sole, dell’Amiata e dello scorrere del fiume poco distante da casa? Tito sta nel mondo senza attendere rivelazioni, lo vede nella sua nudità, lo annusa, lo lecca, lo scava. Tramite l’animale, l’uomo apprende perché disapprende, torna ingenuo e puro, pronto ad accogliere in sé significati ulteriori. E, forse, è solo così che, nella veste di poeta, può uscire da sé e proiettare intorno ciò che ha appreso. Scrive Dal Bianco presentando Tito per la prima volta ai lettori come se fosse un figlio: “Andavo per stradine e per sentieri/ con il mio cane Tito stamattina/ e gli tiravo i sassi,/ che è il suo gioco preferito/ (…) Così per così tante volte/ che il mio braccio si stanca e io lo imploro/ di non guardarmi più così,/ di esentarmi dalla fiducia/ che mi inchioda in un ruolo/ tanto difficile da sopportare”: eccoli, animale e umano, uniti in un unico gioco, in una unica esplorazione e in un unico destino.

 

Ma c’è anche un altro “personaggio”, non meno importante dei precedenti, ed è la lingua. La maestria dell’autore e la sua conoscenza della metrica danno l’illusione della naturalezza delle parole, del loro ritmo e del loro suono, che sono come un canto piano, monodico e antico. Eppure, tutto è ponderato e affidabile. Scelto, curato. La lingua è lo strumento del poeta, lo spinge e lo guida nei suoi passi. È con la lingua che il poeta fa i conti per trovare l’essenza della temporalità. Ad essa non può mai essere sordo.
In questo libro, ciò che è detto – il senso – ha lo stesso valore del come viene detto. Ciò non significa predilezione della forma, semmai il contrario: l’abbandono della stessa a favore di un recupero della vera voce, cioè della vera e propria identità. Questo è il grimaldello della condivisione e del potere comunicativo della poesia che ha come fine quello di consentire un contatto umano autentico e duraturo. È così che coraggiosamente si prova a lasciar scivolare via ciò che impensierisce, quasi senza rendersene conto.
Su queste premesse, chi legge è chiamato a entrare in relazione col poeta ma è ispirato anche a fare qualcos’altro: trovare il centro della raccolta e allontanarsene, lasciarlo all’oblio e recuperarlo, oppure edificare intorno a esso una nuova esigenza e una nuova visione. Così, sarà forse raggiunto l’intento dell’autore: aiutare a interrogarsi, accompagnare in direzione del prossimo attraversamento, aprire una finestra di senso sulla realtà.

 


Stefano Dal Bianco vive in provincia di Siena, dove insegna Poetica e stilistica all’università. Si è occupato prevalentemente di Francesco Petrarca, Ludovico Ariosto, Andrea Zanzotto. Ha pubblicato La bella mano (1991), Stanze del gusto cattivo (1991), Ritorno a Planaval (2001, 2018), Prove di libertà (2012). I suoi saggi di poetica sono raccolti in Distratti dal silenzio. Diario di poesia contemporanea (2019).


In copertina: Dario Neri, Visione estiva delle Crete, 1945, olio su compensato, collezione privata

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