Just dropped in – Intervista a Emmanuele Jonathan Pilia x D Editore (a cura di Giorgio Castriota Skanderbegh)

La tentazione del disimpegno politico e sociale incombe sempre su di noi, aiutata da disincanto e propaganda. Il consumo di cultura è appunto questo, un consumo, una commodity, da eventualmente esibire per acquisire punti sociali in questa o quella bolla. D Editore, oggi rappresentata dalle sue menti Emmanuele Jonathan Pillia e Magda Crepas, offre un antidoto al depotenziamento della saggistica, al disinnesco dei temi trattati e del linguaggio usato, e ci tende la mano verso l’esplorazione di argomenti troppo spesso derubricati da media e stampa mainstream a sciocchezze.

 

Emmanuele Jonathan Pilia

 

Per introdurre: che ne dici di raccontarci l’origine del nome “D” e la genesi della casa editrice?

Questa è una domanda a cui rispondiamo in base allo stato d’animo in modi diversi: da “Disagio” a “Dogma”, fino a “Duce”, quando ci sentiamo birichini. Magda Crepas (amministratrice e metà decisionale di D Editore) sospira sempre quando lo dico agli sconosciuti, ma ovviamente è una gag. Scherzi a parte, La “D” di D Editore nasce da de Leyva, il vero nome familiare della famigerata Monaca di Monza, che in vita è stata un personaggio assai diverso da quello che conosciamo tramite Manzoni. Marianna de Leyva è stata una donna davvero affascinante, un’anarcopunk ante-litteram se vogliamo, anche se la storia la ricorda tramite le parole mendaci che impariamo alle superiori.

Contro la logica della mercificazione e del profitto, che imporrebbe un prodotto appetibile a quanti più palati possibile, standardizzato e aggiustato in modo che nessuna “parte” si senta esclusa e giudicata, e quindi possa sborsare soldi, voi pubblicate pamphlet polemici come il recente Ci scalderemo al fuoco delle vostre code di paglia, di Lorenzo Gasparrini. Come descriveresti la tua idea di prodotto culturale, due termini che paiono unirsi in un ossimoro?

Sinceramente, credo che l’editoria generalista abbia finito il suo tempo, o almeno si stia incamminando verso il tramonto: grandi case editrici generaliste ormai vivono di tutto tranne che di cultura. Questo è chiaro vedendo dove sono diretti i loro investimenti: Feltrinelli che acquista il più noto sito di ecommerce editoriale italiano, Mondadori che fa incetta di servizi per la logistica e libreria, Gruppo M che acquista aziende che posseggono software gestionali e che fattura sempre più con le spedizioni. Insomma, l’editoria è una macchina che fattura più di altri settori culturali (anche più del cinema1), ma non coi libri. In questo scenario di apparente indistinzione, dove questi strani parallelepipedi di carta comunemente chiamati “libri” si qualificano in base all’hype generato più che dal contenuto (il caso del fiero generale V*, spinto da critiche e da cinegiornali, ne è un esempio), creare un discorso coerente, fatto assieme a lettrici, lettor@ e lettori, è l’unica strada percorribile. Questo per due motivi:
1) al di là dei numeri, sono le case editrici emergenti e controculturali (detesto il termine indipendente, che ormai ha perso ogni significato) a portare sul piatto idee fresche, nuove, che poi vengono copiate in malo modo dalle major; 2) se si vuole anteporre un discorso culturale alle considerazioni di marketing, è necessaria una certa coerenza. Detto questo, io sono fermamente convinto che i libri siano “prodotti”: bisogna anche uscire dall’idea naive per cui ciò che facciamo è parte di un mondo magico estrapolato da un film di Jean- Pierre Jeunet. Non siamo martiri della cultura, soprattutto di una cultura che è sempre più dipendente dai capricci degli algoritmi o dal tema del momento. In questa situazione, la nostra non è una strategia di sopravvivenza, noi non vogliamo sussurrare delicate facezie in modo flebile. Noi vogliamo urlare, fare casino, rompere finestre. Sappiamo che potremmo prenderci qualche manganellata (cosa che almeno a me personalmente capita di tanto in tanto), ma chiedere il cambiamento di uno stato di cose senza neppure volersi alzare dalla sedia è, nella migliore delle ipotesi, ingenuo. Per cui, la nostra idea di prodotto culturale è quella di definire un’atmosfera, un carattere, uno stato di cose auspicate, e un’ispirazione.

Oggi ancora si bercia contro l’immaginaria dittatura del politicamente corretto e intellettuali di alto rilievo dichiarano auspicabile una letteratura meno impegnata e più, appunto, “letteraria”; può esserci secondo te una letteratura del genere?

Assolutamente sì, c’è: il politicamente corretto è tutto ciò che rispetta le etichette e le istituzioni, e non va fuori dal selciato. È un dramma culturale e andrebbe inserito nel codice penale, essendo contrario ai principi democratici di una nazione. Ad esempio, politicamente corretto è il comunicato dell’amministratore delegato della RAI, che si lamenta che le parole dei cantanti violano ciò che è corretto secondo la politica: non credo né nelle leggi né nella galera, ma se ci fosse una punizione adatta per il politicamente corretto, qui si dovrebbe applicare il massimo della pena. Siamo portati a credere, come abitanti del contemporaneo, che sia un problema nostro, del nostro tempo, ma in realtà questo è sempre stato presente, in ogni epoca. Se pensiamo che sotto l’Impero Romano, in base ai capricci degli imperatori, potevano essere vietate parole o storie riguardanti fatti sgraditi e persone cadute nella damnatio memorie, o che durante l’Inquisizione del Rinascimento non era neppure permesso leggere alcuni libri… Questo è “politicamente corretto”, non la fantasiosa minaccia che alcune aree (progressiste e reazionarie, all’unisono) paventano di temere. Ma poi, minaccia che viene da qualche organismo di vigilanza? Da quale corpo armato? E qual è l’oggetto della minaccia: avere dei follower in meno? A me sembra che chi detiene il potere stia continuando a dire il suo peggio in ogni circostanza. Se politicamente corretto vuol dire non avere la libertà di insultare i più deboli, gli ultimi, chi è sempre stato calpestato o calpestata, be’, mi privo docilmente di tale libertà. Ma così non è, e lo sappiamo bene tutte e tutti. Ho la fortuna di leggere bene l’inglese, ed è interessante – a proposito di politicamente corretto – vedere cosa è “corretto” affermare nelle sedute della Knesset in questi mesi, dove ministri dichiarano di essere orgogliosamente fascisti e omofobi e che una parte di umanità dovrebbe essere eliminata dalla faccia della terra nel modo più brutale possibile. Politicamente corretto e fare doxing dei pochissimi israeliani e delle pochissime israeliane che dichiarano di non essere d’accordo al 100% con il massacro in atto e politicamente corretto è un ministro che va a citofonare a casa di persone ree di avere cognomi che non suonano italiano per chiedere se i figli spaccino. Se poi, chi detiene posizioni di potere si lamenta delle parole di qualche decina di persone sul web, allora la loro capacità di analisi è davvero deficitaria del contesto in cui viviamo. Detto fuori dai denti, si tratta banalmente di mancanza di educazione di base. I potenti sono semplicemente maleducati, perché l’educazione non gli è mai stata necessaria dato che hanno sempre potuto fare ciò che hanno voluto. Vi è proprio un tratto psicologico comune, descrivibile nel disprezzo verso chi è in difficoltà. Questo è un tratto che emerge dal tipo psicologico liberale, per cui ogni causa di malessere è una colpa, più specificatamente una colpa propria. Si vive in povertà? Colpa tua. Si ha una qualche disabilità? Puoi comunque farcela, guarda questo atleta. Questo è un tratto molto subdolo, perché senz’altro può rientrare nella retorica dell’empowerment (il povero che ce l’ha fatta, la disabile che vince una medaglia, il ragazzo nero del ghetto che ha successo, eccetera) e che spesso ispira delle persone. Ma, d’altro lato, le mortifica anche, perché spinge a convincerti (sì, parlo proprio a te che leggi) che è “colpa tua” se non ce l’hai fatta. E se è colpa tua, io posso usare tutti gli slur che mi vengono in mente, e se me lo vieti… Be’, appartieni al movimento del wokeism, del pensiero debole, e vuoi solo limitare le mie libertà! Detto questo, sono orgoglioso che i nostri libri si possano fregiare dell’etichetta di “politicamente scorretti”, senza per questo sentire il bisogno di togliersi lo sfizio (perché, dopo quanto detto, questo è per conservatori e potenti: uno sfizio) di insultare, offendere, minacciare o violare la dignità di chi già soffre un contesto che gli o le è ostile.

Da Cronofagia — il saggio sul furto capitalista del tempo — a Fallosofia — il saggio che si esplica nel nome —, passando per la magnum opus Libertaria, grande raccolta di scritti anarchici, fino all’imminente Metal Theory, un viaggio nel cuore del “genere musicale dionisiaco per eccellenza”. Ce n’è per tutti i gusti! Come entra nel vostro radar un’opera, un’idea, un campo di analisi?

Come hai ben notato, nonostante la differenza tematica, c’è un fil-rouge che unisce ciò che facciamo. Intanto, alla base di questo filo c’è una curiosità quasi molesta verso ciò che sta cambiando il mondo, o che lo ha cambiato, verso le teorie più bislacche e malsane, ma che sono il grimaldello che il nostro tempo usa per scardinare alcuni chiavistelli. Secondo poi, è il tono di voce: siamo una casa editrice ruvida, diagonale, tagliente, non siamo a nostro agio in sale da thé vittoriane ben decorate e ci sentiamo fortemente a disagio verso il tentativo tutto anglosassone di edulcorare la realtà tramite immensi sforzi accademici che vanno poi a finire con lo sterilizzare il dibattito. Terzo, l’orizzonte di pensiero libertario, che è il motore ideologico che ci spinge. Abbiamo un codice deontologico interno che ci spinge verso talune direzioni e non altre, e questo spero che emerga dai titoli, dal tono di voce e dai contenuti dei nostri libri. Questo spesso ci spinge anche a perdere occasioni, ma il tesoro più importante che abbiamo è la fiducia di chi ci legge, e quello è ciò che dobbiamo rispettare…

Vuoi lasciarci con qualche succosa novità? Qualche indizio su prossime pubblicazioni? Magari qualcosa che fa rima con Ned Kandinskij…?

Con estremo piacere! Una l’hai anticipata tu: stiamo per ridare e dare alle stampe l’intero catalogo del lavoro di Ted Kaczynski, l’uomo che si è a lungo fregiato (seriamente: se ne è fatto gran vanto) del titolo di persona più ricercata d’America. Sebbene molto del suo lavoro sia stato già tradotto, non eravamo soddisfatti né dall’assenza di un quadro critico sul personaggio, né dall’accoglienza generale stessa che il personaggio, che purtroppo deriva molto da una vecchissima traduzione semiamatoriale girata sul finire degli anni ‘90. Non vogliamo mentire a noi stessi: Ted Kaczynski è stato un personaggio problematico, anche politicamente, e non possiamo dire di condividere al 100% il suo pensiero, Epperò, è stato l’ultimo grande anarchico a uscire dalle logiche dell’accademia e per questo a garantirsi una libertà che oggi difficilmente si può esprimere, soprattutto su uno specifico tema, che è poi quello che più ci interessava, ossia quello della violenza. Oggi la società è nel suo complesso decisamente pacificata. Solo lo Stato ha il monopolio dell’applicazione della violenza. Ogni altra applicazione, è punibile. Questo ha disinnescato la capacità di cambiare il mondo dei movimenti libertari, qualsiasi essi siano (dai sindacati ai collettivi anarco e transfemministi, dai gruppi di ecologisti radicali a quelli per la liberazione degli animali) che per ogni passo fatto fuori dal selciato di questo monopolio. Anche il più piccolo. Pensiamo alle conseguenze penali dei ragazzi e delle ragazze di Ultima Generazione, alle manganellate che ci stiamo prendendo a ogni manifestazione in solidarietà del popolo palestinese, alle cariche che ogni lavoratore scioperante ha subito fuori dalle fabbriche in cui lavora. E la lista sarebbe lunga, ma qui il punto a cui voglio arrivare è che Kaczynski, nel suo manifesto, ci dice questo: la violenza politica è uno strumento di cui dobbiamo urgentemente riappropriarci. E lo dobbiamo fare il prima possibile. Quello di Kaczynski è un sussurro che proviene da una piccola catapecchia autocostruita, eppure ha avuto l’energia di scuotere il mondo. Leggere Kaczynski senza un quadro critico però è fuorviante: la sua penna è spesso criptica anche per il lettore o la lettrice in inglese, e inoltre lui nel tempo ha cambiato idea su alcuni dettagli molte volte. Per questo, oltre al nostro quadro critico, abbiamo arricchito il testo con saggi inediti dello stesso autore, note apportate fino al 2022, e documenti mai tradotti. Soprattutto abbiamo voluto mettere dei paletti sulle parti di quel testo che ritenevamo irricevibili (ad esempio, la lettura di Kaczynski è assolutamente anti-intersezionale). L’anticipazione che vorrei fare qui è però un’altra: Kaczynski ha scritto moltissimo, una quantità difficilmente quantificabile di materiale testuale. Stiamo cercando di portare in Italia quel materiale inedito. Sarà quindi una collana, in cui cercheremo di tradurre le cose più significative del suo lavoro. Vi parlerei anche dell’anarcofemminista ucraina Irina Zherebkina e del suo Diario di guerra, del prossimo fumetto cinico e bastardo di quel combinaguai di Claudio Marinaccio o della prossima raccolta orrorifica e sanguinolenta di Paolo di Orazio, ma rischio di annoiare chi ci sta leggendo…

 

Just dropped in
Intervista a cura di
Giorgio Castriota Skanderbegh


Per approfondire:

 

1 Editoria in Italia, i dati 2023: i libri superano tv e videogiochi, di Miriam Carretto


 

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