
L’albero balla rami osceni nel tramonto. Le ombre si allungano, arrischiano carezze. In cielo, dove non c’è altro, serpenti di nuvole strisciano via.
Lola è distesa nel seme acqueo. Dimitri, in piedi accanto a lei, attende tremante. Non molla il trasmit; spera che qualcuno sia ancora là fuori, sulla Terra. Ma è tardi: Lola rivela i ricordi futuri dell’Aurora:
«I corpi cadranno, la pelle sarà invasa, non più confine – parole più forti, parole che strappino – gli arti saranno scelte, opzioni da piegare alla volontà – parole non concetti, Nat, immagini non filosofia – uomo e donna saranno fasi, bruco e farfalla e viceversa – lascia stare queste banalità, dammi l’abisso – sprizzeremo tentacoli con cui baciare il mondo-».
Adrien, ora ti accorgi che qualcosa sta per accadere: tirala fuori dal seme. Dimitri porta il trasmit lampeggiante all’orecchio, si scuote e va da Lola.
Prova a strapparle le radici sideree dal corpo, ma la sibilla continua: «Umani nasceranno dentro uova, sott’acqua tra le mangrovie, cullati da rami anfibi – Nat, basta, ti sta tirando fuori, chiudiamo su voi che andate via – e saranno liberi, scatenati, deformi, paradisi ovunque e inferni splendenti nei corpi – Nat ascoltami! – avanzeranno e coi loro passi calpesteranno le-».
Nat basta! L’auricolare stride e graffia le orecchie di Adrien e Natalya.
«STOP!».
Il cameraman abbassa la macchina. Clarissa infuriata lascia il set.
Natalya salta fuori dal seme acqueo. Con rammarico, tanto il ruolo ancora le sta addosso. Le voci, la voce di Clarissa nella testa che rimbomba e schiocca e ordina. Non la vuole, lei, tutta quella voce. Natalya non ci pensa più, si allontana, scuote dai vestiti polvere e sabbia. I granelli si trovano dove meno te li aspetti, di una sabbia speciale che Clarissa ha voluto dal Marocco. Una sabbia finissima, che a monticelli e dune ha invaso ogni anfratto del set, rischiando continuamente di inceppare i macchinari. La calpestano pure nei bagni, se la portano addosso fino a casa, fino al sonno. Natalya esce.
Clarissa intanto si è allontanata dopo aver sbraitato contro chi, contro di lei, svicolando tra le porte di servizio, lasciando cadere per terra cuffie e auricolari che un’assistente si premura di recuperare. La semina, e si trova sola, in un set lì vicino, allestito in parte. Non c’è nessuno. L’aria è umida. Ci sono acquari senza pesci, macchinari strani, una plancia e dei sedili. Una stanza larga dove rimbombano i suoi passi fino alla sommità dell’hangar. Sembra di stare dentro a un sottomarino.
Poi, ecco, la sente, quasi la raggiunge, ma adesso non vuole saperne e non si volta. La voce di Nat insiste da dietro e vola su per i metri in cui si slancia il casermone.
«Ma non fare la capricciosa, ma dove vai, parlami!»
«Non ho niente da dirti. Io sono la regista e tu un’attrice, che altro vuoi?»
«Secoli di lotte, di sperimentazione, e ti tieni ancora stretta il tuo piccolo ruolo di potere?»
Secoli. Le sembravano respiri. Decide alla fine di voltarsi e guardare la sua attrice. Ecco che arriccia quelle labbra, come fa quando la spara grossa per provocarla. Clarissa lo sa bene, ma quel minimo gesto finisce sempre per farla incazzare, incazzare perché quelle labbra e tutta quella faccia arguta, accattivante, le piace, la strega, la turba: lei, la sua musa. Insieme da quanto? E da quanto che non si parlano davvero? Sente che la sta perdendo. Lo sa, lo teme, ma comunque le risponde, petto in fuori, cattiva. Che se ne vada pure.
«Fa’ quello che ti dico e stai zitta, mi hai già rotto con ‘ste stronzate ibride, ok?»
«Che personaggio vuoi farmi fare? La donna potente, la boss girl, la CEO femminista? E dai, ma che palle! Così scambiamo solo i ruoli e non creiamo nulla. Ok col tuo grottesco inverso, per anni ci abbiamo marciato e andava bene. Ora lasciami fare, lasciami improvvisare. Voglio trasformarla questa Lola, voglio plasmarla, con le macchine, con le creature dell’abisso. Tu me l’hai chiesto! Che ne pensi, dai, che ne pensi di una Lolaliena?»
«Penso che puoi scriverti la tua sceneggiatura e parlare coi produttori se proprio vuoi».
Natalya descrive un arco camminandole davanti e arriva dove il sottomarino, o quel che è, si affaccia su un esterno. Si appoggia a un oblò, un sorriso beffardo le taglia il volto, e scorge in lontananza le rovine di un enorme transatlantico, dall’altro lato la punta dell’albero spoglio che sfonda il tetto del loro set.
«Allora spiegami cosa vorresti da Lola, che dovrei fare, dammi l’intenzione su, come una volta. Faccio la brava».
«Vai a cagare Nat, davvero».
«Proviamo di nuovo: ognunə ai propri posti!»
L’albero balla rami osceni nel tramonto. Le ombre si allungano, arrischiano carezze. In cielo, dove non c’è altro, serpenti di nuvole strisciano via.
Lola è distesa nel seme acqueo. Dimitri, in piedi accanto a lei, attende tremante. Non molla il trasmit; spera che qualcuno sia ancora là fuori, sulla Terra. Ma è tardi: Lola rivela i ricordi futuri dell’Aurora:
«I corpi cadranno e non ci saranno più forme, né dolore, ma un oceano di piacere che sconquasserà le membra – Nat, non ricominciare – che sarà esso stesso corpo finalmente, librato su di un un manto di erotismo. Invasa la pelle, brulicante di chele, artigli, squame: – ti ho detto di no! – scuoiata ondeggerà nel vento. Silente, pacificata. Il conflitto evaporerà nel sesso, nella fusione, nella tensione del desiderio che tende all’assoluto, ma non unico e non statico: l’ascensione erotica, un delirio degli intenti e del piacere che li smuove.»
Adrien, basta, si cambia tutto. Stammi a sentire: Dimitri sta per tradire Lola. Sei sorpreso. Accosti il trasmit all’orecchio. Un messaggio dalla Terra sta per dirti la verità. Tu sai, tu stai per vedere i ricordi futuri di Aurora. Improvvisa!
Dimitri si guarda intorno confuso, le luci fanno vibrare la barriera. Estrae il trasmit dalla tasca, brilla furiosamente. Lo porta all’orecchio mentre la sibilla delira e schiuma fra le membrane protettive del seme acqueo, perla viscida che la chiude intera. Il trasmit parla, rivela ciò che non avrebbe mai creduto, ciò che temeva: Lola è un falso oracolo, ciò che promette è menzogna. Ha ingannato i Cacciatori del Trapasso e si è spacciata come Musa del futuro, vera voce dell’arresto di ogni cosa. A Dimitri resta solo il suo dovere, ciò che lo chiama adesso a smascherare la bugiarda. Quella Lola con cui aveva viaggiato fino a lì, difendendola dalle imboscate, insieme agli altri. Compagni perduti. Tutti morti, tutti stolti, Dimitri in testa. Tutti nel suo inganno. Ma ora basta. Rivolge un ultimo sguardo all’alveare sotterraneo, oltre la barriera, poi guarda di nuovo Lola.
«Si avvicina il Trapasso. L’Ultimo mi ha sussurrato orribili versi. L’Ultimo dice che sono l’ultimo e tu vaneggi: ciò che dici mai verrà».
Lola ride nel seme, anzi, ridacchia, il labbro increspato. La notizia interrompe il suo delirio solo per un istante.
«… così, mossi dalle radici della terra, libreremo rami stellari verso nuove sponde, verso gli anelli di Giove, – Nat, sei fuori, puoi anche smetterla – spazzeremo le nebulose con il nostro potere e ci avvolgeranno come manti
siderei …».
Ora basta, Adrien, spingila dentro il seme acqueo. Continuate a riprendere! Antoine stai su Adrien!
Le orecchie di Dimitri stridono, i denti digrignano, le nocche schioccano. Allargate le spalle, sembra essersi gonfiato. Si avvicina, imponente, alla sua nemica. Si avventa su di lei e la strattona per le spalle e urla, le urla contro come non ha mai urlato in vita sua: Dimitri, che nella Cellula era conosciuto come il Tenue. Dimitri adesso urla.
«Falsa, falsa, sei solo una falsa! Hai mentito, MI HAI MENTITO!»
«Le vedo ancora, Dimitri, le immagini dell’Aurora, i suoi ricordi futuri, mi parlano – sei finita, Nat, ma chi ti credi di essere – ancora li vedo, loro-».
Ecco che Dimitri le stringe il collo, le ultime parole della sibilla sfuggono sgonfiate, mentre la sua bocca gorgoglia invasa dall’acqua. La tiene sotto, nel seme urna.
«Dimitri».
Lola soffoca. Nat soffoca. Stanno per essere uccise.
«ADRIEN LASCIALA»
Le mani si allentano e con una spinta di petto Nat esce dal seme. Furente, ansimante. Sul set cala un silenzio nervoso. L’acqua che si riversa dal bocciolo, i rauchi colpi di tosse dell’attrice, che punta lo sguardo sulla regista.
Dimitri, ora di nuovo Adrien, perplesso, si guarda intorno e cerca lo sguardo di Clarissa, sul ciglio del set, un piede dentro, tesa verso il seme. Il volto sconvolto, più confusa di lui, guarda fissa verso Nat, ricambia il suo sguardo. Nat salta fuori, stacca le radici, rovescia il liquido, esce dal set. Non guarda più Clarissa.
***
L’albero balla rami osceni nel tramonto. Le ombre si allungano, arrischiano carezze. In cielo, dove non c’è altro, serpenti di nuvole strisciano via.
Natalya è distesa nel seme acqueo. Intorno brillano le celle, l’alveare brulica concitato, lo sciame si riammassa e sparge e poi ritorna. Vola attorno a lei, le fa da velo.
È il Trapasso. Il rosato del suo braccio si spande, accoglie il viscoso mare del seme, le radici sideree si sfibrano. Gli infiniti pori della pelle di Natalya, da invisibili, si vanno allargando ed è come se respirassero: tanti piccoli crateri luminosi, tanti piccoli vasi da cui gemicano piante, verdi liane. Si alza a fatica. Più che alzarsi si radica passo dopo passo, struscia sulla sabbia, riesce a portarsi alla barriera, e guarda oltre, sotto, sopra, altrove. Sa che sta accadendo. L’Aurora è un immenso acquerello, i colori vorticano e si avvolgono, le figure si torcono, sono stelle da cui sprizzano tentacoli, mentre sotto, tra gli astri e la terra, uccelli nell’aria si inseguono, si abbracciano, volteggiano in preda al finimondo.
Natalya sorride, poi ride, piange. Sente il petto invaso, come se avesse ancora un solo petto, come se il suo petto non stesse raggiungendo le dimensioni di una stanza, come se non le si fosse espanso il cuore e gli organi d’intorno vele nell’oceano, come se le ossa, che a schegge e lance escono dai lembi sciolti del suo corpo, non disegnassero una foresta bianca o forse una superficie di cava sotterranea, ricoperta da stalattiti rilucenti di candore.
Una lacrima sgorga, le taglia la guancia, si stacca, attratta dall’albero, lascia il suo volto. Attraversa lo spazio di fronte a sé e genera un fiume sospeso a mezz’aria, un effluvio che va ad unirsi ai rami e insieme ascendono, pensano il cielo e lo dipingono di gorghi sempre più notturni, volute nere, lacrimali, pianto delle lune e delle stelle e di Natalya. Di Natalya che quasi non è più, quasi si perde, cos’era fino a poco prima, cos’era quando nel suo seme se ne stava distesa in ammirazione, prima di scordarsi indietro, prima di mutare, prima di immaginarsi mentre il corpo perde i suoi confini millenari, sempre quelli, sempre incatenati, mai perduti nell’Aurora.
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