Le Monde, 22 Agosto 2039
È morto ieri nel suo appartamento di Parigi, all’età di 39 anni, dopo che, così dicono le prime voci, l’impianto alla coscia destra, una protesi in titanio e rubino cui funzione, secondo la descrizione dal vivo, durante l’operazione di invasamento, che ne aveva fornito il defunto stesso quando ancora in vita, era quella di appendino, ovvero di gancio, installato all’incirca dove il femore si avvia contro la rotula, la quale dunque gli sarebbe servita come utensile ausiliare, di cui servirsi durante le sessioni di laboratorio, per quanto altre opinioni abbiano confermato che l’utilità era solo il tocco superficiale di un progetto di sublimazione, di innalzamento e abbellimento di un corpo da modulare come fosse una statua, corpo malleabile, estendibile, indice di una poetica plastica della quale egli aveva fatto il proprio manifesto, se non fosse che quest’ultimo tentativo, che molti tra i suoi critici avevano definito “uno scontato vezzo da maledettismo alieno”, o anche “una tamarrata trap”, gli aveva procurato, stando ai report delle unità mediche, non pochi problemi, dal momento che l’innesto, pratica ancor oggi delicata e rischiosa, può esporre a pericoli di setticemia, oppure di rigetto, o cancrena, o, che è il nostro caso, di carnificazione, per cui la protesi, come può accadere per la ricrescita fallace del tessuto attorno all’unghia, è ricoperta dalle superfici ricrescenti di un corpo che si rivela incapace di riconoscerla come componente autonoma e che, di conseguenza, tenta di inglobarla nel sistema organico, provocando un dolore immane e spesso conducendo al decesso, come nel caso, di cui vi annunciamo la morte, del noto scultore Moussa Tadjo. Sgomenti rimaniamo di fronte a tale avvenimento.

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Volteggiava appeso, non un lembo di pelle tremava, tesa com’era dai cavi e tenuta dai ganci: miracoloso equilibrio di calcoli e speculazioni. Un angelo sembrava, Uriel sospeso a sbeffeggiare la gravità, Gabriele a schernire il ribrezzo della folla, occhi fedeli attaccati alla sua pelle, aspettando, desiderando?, l’evento più naturale: lacerazione. Potevo vedere i cinema nei loro crani: i ganci che abbandonano il corpo, la carne che si schianta al suolo strappata e sanguigna, la polpa sventrata, qualche viscera a vista, da poter poi raccontare, da poter leggere per rivivere, rincuorarsi che la fragilità abbia vinto ancora sull’esperimento di un folle. Tante forze spese per vincere la natura e poi si ha paura, terrore, di fronte all’evidenza del trionfo. La macchina morbida non è più sufficiente. Stelarc: vangelo di una nuova carne. Volava tra equilibri filanti, verso una nuova pelle, tesa oltre i limiti imposti, ma negli occhi del pubblico vedo, ma solo oggi, all’epoca non potevo capire, le avvisaglie di un fallimento. L’orrore rimane, l’orrore di quella viscida, sudata, maculata, pelosa pellaccia, arrossata intorno ai fori in cui i ganci trafiggono i lembi e li tirano al soffitto, al cielo d’acciaio che stava per rompere.
Stelarc immoto, impassibile, un Cristo orizzontale, gli occhi ieratici verso un me neppure ventenne, un Cristo che risorge da sé, pronto a immolarsi e gestare una nuova specie di umani. Un salvatore sì, ma un messia che non vola davvero, non ascende ad alcun padre, né tantomeno a un futuro, un profeta che non sa superarsi, una marionetta giocata dai suoi fili, coi quali non potrà che impiccarsi.
Il nostro peccato, sì, il nostro peccato rimane non aver tradito la pelle in cui siamo nati.
Per lunghi chiaroscuri secoli – chiaroscure le giornate in laboratorio, passate a rimuginare, imitare, tradire l’insegnamento di Stelarc – la mimesis fu l’umana condanna, il fardello del nostro cammino – cammino infelice -, l’estenuante ricerca del nostro passaggio su questo pianeta. La Terra, fragile Terra, il corpo madre da cui sono vomitati i corpi filiali, tutti egualmente fragili e instabili. Imperfezione e Impurità. Cornucopia di metastasi e difetti. In questo mio breve soggiorno non ho assistito ad altro: errori/orrori da poterne compilare una teratologia universale. L’umano devìa, se lasciato al governo di sé o di questa sua madre bastarda: la natura. Il sistema va rifatto. Il corpo scolpito daccapo. Ecco, allora, si dirà: L’uomo deve scolpire sé stesso, inserire – immettere (le sculture di Picasso sono immagine, esempio, termine) – in sé tutti i materiali che lo possano spingere oltre i limiti biologici – limiti di tempo, materia, sciogliere la dimensionalità in cui siamo infissi. Spazio e tempo: gli assi su cui siamo crocifissi: infrangerli, farsi oltre, eternarsi. Il tempo sarà l’ultima materia da scolpire, usare e plasmare – sopravvivere alla morte, perpetuarsi in qualche modo che sia degno di gloria. A sufficienza esplorato il campo dei possibili, già tastati e tirati i lembi della pelle altrui. Scardinare la storia dell’arte moderna: pittura-fotografia, mente-corpo, concetto-forma, esistenza-performanza. E infrangere i margini fra arte e vita: indifferenza fra le due, la prima riempia il destino della seconda e la compia, ne ultimi il progetto.
Ma che la vita non divenga opera d’arte scialba, decadente, buona per le mostre: il corpo vivente: nuova tela, nuova argilla.
Osservavo Parigi nell’opaco riquadro dei vetri, che tagliava la parete poco sopra il tavolo da lavoro, alla ricerca di un’ispirazione, un’idea per uscire dalla recente impasse, quando Farbut mi toccò lievemente la spalla, Com’è andato l’incontro di ieri? chiese, premuroso, sapeva delle difficoltà, del silenzio degli scalpelli miei. Era stato lui a instradarmi verso quel gruppo: i transumanisti di Mirabola. Lui che non ne faceva parte, solitario com’era, ma che spesso assisteva con simpatia alle loro scorribande intellettuali, sapeva dei manifesti con cui avevano riempito la città, loro succursale parigina. Erano di stanza in Italia, ma il più di loro veniva da ogni polo del globo e del globo ambivano cambiare il volto. Mi sembra, risposi, che di arte si parli poco, o per niente, sembra quasi non gli interessi alcun esito estetico e che vedano gli innesti e le protesi solo come oggetti tecnici da aggiungere a quelli già adoperati dagli umani: gli occidentali così focalizzati sul migliorarsi, sul salvarsi la vita, ma quando mai hanno dovuto lottare per la propria pelle? Tecnici dell’anestetica li definirei, spauriti rifuggono certe parole, possibili distrazioni dal loro fine meccanico, parole dolci quali arte e politica, e si rinchiudono tra scienza e teoria, come se si potesse esistere senza. Ma i concetti, alcuni almeno, pensai tra me e me, non mi hanno lasciato sordo, tutt’altro. Cambiare la pelle, innocente o colpevole, per cambiare l’umano. La stessa pelle che Farbut aveva toccato e ancora sfiorava, portando alla luce un ricordo, innumerevoli ricordi: supporti fisici che prendono il sopravvento sui pensieri e riportano tentativi compiuti, innesti falliti e rigetti. Brividi che corrono liberi, sensazioni che soffocherò? E se l’estetica che perseguo fosse solo anestesia? Dove sarà la tua mano, Farbut? I ricettori mi diranno, qualcosa ti tocca, qualcuno ti parla, eppure non so se ne avrò coscienza, se il mio concetto non sarà troppo lontano da te e dal tuo sfiorarmi, incitarmi verso quel fine. In fondo, cosa ne sappiamo? I ricettori, nuovi supporti, sapranno ricordare come sto vivendo ora? Tutto ciò mi mancherà? Un tocco avvertito, simulato e ricreato, dovrà rimembrarmi vecchi anfratti di vita, altri tocchi, caldi e morbidi istanti. Arderà la mia pelle nel sole? No, arderà d’altro e oltre, no, che non ricada da dove si elevò, no, che non torni al punto di partenza. Lascia stare l’oltre, quelli che vogliono issarsi e fuggire: tu pensa al qui e all’ora, alla bellezza dell’istante, istante nuovo da inventare, bellezza altra da immaginare, immediata, immanente: la pelle, dolce nuova pelle. Moussa, a che pensi? Moussa, che sarai? da dove vieni? Vorrei saperti tenere qui, qui nella tua forma, o forse seguirti lì, lì dove corre la tua mano. La prende, la porta a sé, e nel letto affondarono i ricordi.
L’uomo deve fare di sé una forma inedita, inedito sto per divenire, a qualcosa di inedito state per assistere: osservate, increduli, la mia inimitabile scultura fisiologica. La piccola galleria si va pienando, non conosco nessuno, nessuno di loro verrà, non hanno saputo capire. Bevo un altro bicchiere di vino e scambio amichevoli parole, fingendo distacco e compostezza, ma dentro tremo. Giovani critici mi circondano e domandano simboli, metafore, allegorie.
Insistono affinché gli dica qualcosa di rivelante da usare nei loro articoli. No, qui è tutta lettera, significante equivale a significato: è ciò che vedrete. Tra tutto quel che il rigoglio planetario ci ha fornito, materia dei nostri possibili, ho scelto il rubino, materiale vermiglio, sangue imperituro, carne racchiusa e gemmata, sorta dalla terra e pronta ad essere incastonata nel mio corpo. Farbut ha preparato tutto: attrezzi, oggetti di scena, poca la differenza. Nessun confine tra mostra, spettacolo ed esperimento. “Corpo adamantino” sta per cominciare, ma loro, gli spettatori, domandano ancora, chiedono, supplici alla fonte, quale sia il fine, quale il ragionamento, ed io, benevolo, prossimo all’estasi: Se l’uomo saprà estetizzare la propria biologia, rispondo e attendo, godendo d’un infinito attimo d’esitazione, allora sarà essere vivente ed essere eterno, postumo a sé stesso, nel medesimo istante. Incurante, parole che ho scritto altrove, le dico senza bisogno di pensarle, si dicono da sole, parlano per me e già le dimentico. Quel che conta è la performance. Le mie mani ancora temono, tremano di palpitazioni gioiose, spaventate e curiose di fronte alla bellezza di un corpo che inizia a rinnovarsi. Compito dell’uomo è purificare il suo corpo, e oggi sto principiando. Il rubino che ospiterò sarà parte di me, saprà propagarsi, come virus infettarmi e, all’inverso, farà sì che io ne divenga parte, e così la materia inerte, la madre, sarà uroboro col figlio, materia vivente. Corpo madre e figlio di sé stesso, anelante una forma che definiamo adamantina e post-biologica, poiché estetica. Farbut all’orecchio mi chiede se sono pronto. Domanda silenzio agli astanti, calano le luci e solo un faro rimane a farmi da iride attorno. Porge al pubblico dei bastoncini d’incenso, da spezzare al momento opportuno per diffonderne il profumo nell’aria. Illuminato sono pronto, disteso sulla poltrona, la gamba riposta nel macchinario a cui abbiamo tanto lavorato: i rubini come spilli pronti a divenirmi, incarnarci.
Prima l’anestetizzante, un torpore che rilassa, che propizia il passaggio, le mani finalmente chete, domate, ipnotizzate, il corpo inerme e pronto ad accogliere: ogni poro un portale, la mia cute la pelle del mondo. Farbut mi stringe la mano e avvia il macchinario.
Sono pronto, più non tremo, quasi in sogno mi avvio, mentre le lame mi intagliano e scavano le carni. Lo spettacolo è troppo per alcuni, sconvolti dal teatro anatomico scappano in fondo. Un pistone spinge il rubino all’interno, lo fa emergere, svettare avvolto da un esiguo strato di pelle, un eterno cuore d’ambra rossa a rinverdire il mio corpo. Ondata di dolore mi sconvolge: anestesia non basta – sbagliati i calcoli – acufene sfonda il cervello – urlo straziato. Farbut fa per spegnere tutto, calare il sipario, ma il pubblico capisce: sanno che non glielo permetterò, le facce stravolte sanno che questo è l’imprevisto, l’orrore fuori dai piani, fuori dalle brochure. Altri ancora rifuggono al fondo, sempre più in fondo, pochi vogliono vedere come finirà, se finirò. Ma io voglio vederlo, voglio vivere questa fine che ho scelto. Rubino lama traditrice, eppure felice l’accolgo. Farbut piange, non ha le forze di staccare la spina. Pochi spasmi gli bloccano la mano, e ultimo mi trafigge il pensiero, una frase: E se anche dovessimo morire, il nostro corpo vivrà come statua, gli soffio in volto.
MONTAG x Poetarum Silva
Montag è un collettivo letterario attivo tra Roma e Torino.
Nasce in pandemia con l’idea di scrivere un romanzo a sei mani, con una scrittura simultanea a distanza che sfrutta le piattaforme digitali e si ispira all’improvvisazione jazz. Suoi racconti sono comparsi su Marvin, retabloid, Neutopia, Quaerere e Salmace. Sempre per Marvin ha pubblicato un saggio sulla scrittura collettiva, per L’Indiscreto ha curato la traduzione del manifesto del Dark Mountain Project e ha scritto il libretto di Amber Mold, composizione musicale di Luca Guidarini. Montag è rappresentato da Oblique studio.Il racconto che avete appena letto è stato pubblicato per la prima volta su Neutopia.
