Ancora non resuscita questo Lazaro.
Io vi dico che bisogna rompere questo sepolcro.
[Elio Pagliarani, Epigrammi ferraresi]
Mai un senso così alto di disgusto si era accompagnato ad una percezione così profonda del pericolo. Un pericolo molto poco nobile, rigorosamente spoglio di qualunque possibile tratto di grandiosità drammatica e negativa, piuttosto assimilabile, invece, ad una minaccia obliqua, strisciante, velenosamente paludata in ogni dove, una minaccia fatta di mezze figure, di idee mediocri e riciclate, di colpi assassini. Mai un pericolo politico, sociale e civile era stato al tempo stesso così squallido e così infestante.
E tanto più grave, certo, perché non portato da una forza compatta, frontalmente e nitidamente antagonista, ma disseminato e coltivato sul crinale della frantumazione, dell’instabilità, del caos, del vuoto improvviso, dell’insipienza e dell’aggressività più supponenti e più irresponsabili.

La logica del continuismo e della barbarie
Tante volte si è detto, a ragione, che S. B. rappresenta il “vecchio”, quale prodotto della prima repubblica, protetto ed ingrassato dai suoi peggiori “padrini” (ben oltre il limite del lecito nelle esposizioni bancarie e nella facilitazione dei circuiti televisivi). Ma non è stato detto a sufficienza quello che ad uno sguardo storico e culturale appare come il vero retaggio dell’innominabile caf: la concezione della politica come luogo deputato dell’affarismo, della speculazione, della scalata sociale. Nel pensiero debole dei “forzaitalioti” è punto fermo che i valori, la cultura, la morale umana, l’etica delle scelte, il rigore del progetto, le ragioni del conflitto strategico contino ben poco di fronte alla nuda realtà dei fatti e delle cifre; e questa realtà è sempre quella del più forte, del più furbo o del più disumano in una fatale, perversa coincidenza di ascesa economica e successo elettorale. Siamo indubbiamente nella piena eredità del regime craxiano, già a sua volta promotore, rispetto al passato, di una più arrogante e sfacciata gestione del potere, appositamente ostentata a maggiore riscontro della sua incidenza e delle sue capacità di intimidazione e di ricatto. Ma la nuova equazione politica = affari si presenta in una versione che è ancora più degenerativa del modello recentemente scontanto.
Nella cultura politica del caf ancora resisteva una pur sottile linea di demarcazione tra l’ordine dei comportamenti effettivi e quello delle dichiarazioni formali: le regole del gioco democratico erano sempre più oggetto di un rispetto solo convenzionale e verbalistico, ma non erano esplicitamente sconfessate, e tutto lo sforzo stava nel procurare, in un modo o nell’altro, una parvenza di correttezza e di legalità a ciò che legale e corretto assolutamente non era. Con S. B. anche quella linea si è interamente dissolta. L’esercizio della speculazione e del business è diventato direttamente criterio e programma di governo attraverso un’immediata sovrapposizione di politica ed economia privata, reciprocamente avviluppate in un intreccio senza precedenti. Proprio, tutto all’opposto delle apparenze, la prassi affaristica della “cosa pubblica”, anziché essere estirpata alla radice, è stata ristabilita ed (impropriamente) legalizzata ad una più radicale e doppia figura del “premier-capitalista”, capace di impadronirsi del potere grazie all’aiuto determinante del suo impero economico e poi garantito della possibilità di proteggere e consolidare gli interessi della propria azienda in misura proporzionale al potere politico precedentemente acquisito. E a tal punto questa coincidenza ha improntato l’avvio della cosiddetta Seconda Repubblica che, pur di sopravvivere all’improrogabile crisi, non ha dovuto attendere oltre per precipitare in una sfida forsennata alle istituzioni repubblicane: prima ai magistrati ed alla Costituzione, poi al Capo dello Stato, quindi al libero e sovrano esercizio dell’attività parlamentare.
Il nuovo potere come attacco alla cultura e svuotamento della parola
Continuità e deterioramento, dunque: termini complementari di una parabola che appare ancora più netta dalle proporzioni dello scarto culturale direttamente implicato dall’ampiezza del travestimento compiuto. È a tutti evidente che ormai da tempo la scena pubblica italiana è occupata da personaggi che non sarebbero mai riusciti ad ingombrare il campo di un paese realmente civile e democratico. Se è potuto avvenire che un provocatore come Ferrara fosse nominato ministro del governo e avesse licenza di dispensare contumelie ed insolenze ai suoi avversari politici ed istituzionali o che un untorello rumoroso come Sgarbi – prima sodale del caf e di Cossiga e ora zelante scherano del più ricco padrone – potesse acquistare tanto spazio da esercitare una quotidiana opera di disinformazione degli italiani, beffandosi della verità e della legge al ripetuto grido “diciannovista” di Giudici assassini, ciò non è soltanto dipeso dalla rinnovata scoperta dell’anima trasformista del nostro paese o da quella proliferante tendenza di “rifiuto della politica” che, in modi diversificati, tante fasce della società italiana hanno vissuto come reazione estrema a decenni di corruzione e di malgoverno. La ragione essenziale va invece vista in un vertiginoso fenomeno di sfacelo etico e culturale che ha aggredito in primo luogo il terreno della parola e del discorso. Bisogna riflettere su un dato: in nessun altro periodo della storia recente il linguaggio ha conosciuto un grado così alto di espansione e mai al tempo stesso ha visto deprimersi a tal punto il livello della sua efficacia dialogica e conoscitiva.
Delle cause non è certo colpevole S. B., ma dell’acutissima ripercussione dei loro effetti – e dei risvolti strumentali e antidemocratici che vi si sono accompagnati – indubbiamente sì.
La subcultura di Mediaset altro non è stato finora che culto e speculazione del denaro, della merce e della pubblicità, coestesi dall’ambito del mercato a quello dell’informazione e (poi) della politica. Essa è esistita solo nella misura in cui ha cercato di sottomettere la coscienza di larghi strati della cittadinanza ad un’accettazione incondizionata dei suoi falsi valori, opportunamente truccati e mitizzati: rincorsa alla fama, successo spettacolare, ricerca del business, arricchimento immediato, carrierismo sociale. In nessun caso poteva servirle una parola capace di creare problemi, insinuare dubbi, fomentare critiche, domande, riflessioni. Anzi, una parola del genere le era, per natura, nemica.
Quanto, invece, tornava a suo vantaggio era una comunicazione verbale precipuamente interessata ad indurre il fruitore verso una ricezione acritica, irriflessa, regressiva. Serviva al suo predominio la messa in moto di un meccanismo subliminare in cui l’occasionalità delle spinte emotive e pulsionali del soggetti facesse aggio su qualsiasi margine di profondità e di pensiero. E così è avvenuto.
A trionfare e a diffondersi è stata una forma di discorso priva di qualità e di spessore, subalterna delle finalità pubblicitarie del suo apparire, orfana del senso interrogativo e dialogico del proprio ruolo e della propria esistenza. Quando poi non è bastato il supporto fisiologico dell’immagine, la sua natura è stata ulteriormente violentata ed è malamente degenerata, a seconda dei casi, in strumento di falsificazioni e di omissis, di diffamazioni e di insulti, di travestimenti e di minacce, di promesse irresponsabili e di sogni a basso prezzo. Con l’inevitabile supplemento (esteticamente e moralmente) indecorose che tutti abbiamo dinanzi agli occhi.
Ricordate la lunga farsa delle ritrattazioni quotidiane di S. B. (quando non passava giorno della sua presidenza ch’egli non negasse quello che aveva letteralmente detto il giorno prima) o la sua marchiana inadempienza delle promesse elettorali, tanto prodigamente elargite sulle spalle degli altri, pur di carpire le leve del comando: quell’ipocrita e stereotipato sorriso che annunciava giulebbe di “un milione di nuovi posti di lavoro”, poi smentito e capovolto dalla misera realtà dei “quattrocentomila disoccupati in più”? Ricordate le infide accuse di sovversivismo e di golpe mosse a Scalfaro e ai giudici (e abbondantemente comprovate da radio e televisione, e poi attribuite, per disperato bisogno di autogiustificazione, alle deformazioni e ai travisamenti della stampa scritta e parlata? Sono episodi sufficienti a mostrare fino a che punto sia stato mortificato e svenduto il ruolo della parola e quindi lo statuto stesso della sua legittimazione culturale: e non tanto per l’arroganza e la volgarità e la falsità premeditata dei contenuti di cui è stata fatta latrice, ma soprattutto per la dequalificazione a cui è stata forzatamente prostrata la funzione del suo impiego: neppure più garanzia minima di intesa e di certezza, ma luogo di volubilità ed arbitrio, oggetto di autorinnegamento ed autotradimento.
E ben si capisce allora che proprio i portatori più accaniti di quest’uso distorto del linguaggio, già al soldo di Mediaset, siano stati prescelti e riciclati delle forze della conservazione, per assicurare una continuità mascherata con la Prima Repubblica e prodigarsi a salvarne anima e sostanza nel mutamento delle sole forme. Riabilitati, valorizzati, sospinti, adeguatamente imbeccati, e “programmati”, accresciuti di rango e di stipendio, essi sono stati finalmente investiti anche di cariche formalmente rappresentative, che hanno avuto il solo scopo di conferire maggiore autorità ed influenza a quell’esercizio giornaliero d’imbarbarimento civile ed intellettuale da loro così organicamente reso alla propaganda del nuovo regime ed alla dissimulazione della sua reale identità.
Ma la parola, si sa, è sempre allegoria di altro: lo è – persino a prescindere dall’intenzionalità di chi la usa – materialmente e storicamente, per quello che rappresenta e per quello che nascconde. Ed, appunto, per effetto della più elementare lettura allegorica, non si può fare a meno di rilevare (in linea con quanto detto finora) un ultimo dato inquietante.
Quando la gestione del discorso individuale ed intersoggettivo perde la capacità di produrre idee e conoscenza e scade ad un puro consumo visivo di immagini e (finti) miti, le sue risorse di vita finiscono per esaurirsi in un comportamento autistico e dimostrativo: non solo non valgono ad incrementare informazioni e significati già conosciuti, ma si limitano a propagare e replicare all’infinito sempre lo stesso messaggio, estraneo e preesistente alla dialettica del confronto: un rapporto di forze fin dall’inizio dato, riconosciuto ed imposto come modello vincente. Siamo in presenza di una coartazione strisciante che ricorda troppo da vicino il soffocamento della parola stessa sotto i regimi totalitari. Il disprezzo della cultura, l’assenza di approfondimento, la vanificazione dello scambio (e delle responsabilità morali che vi sono connesse) ne rappresentano solo gli aspetti più evidenti. Ad aggravarli, fa riscontro un armamentario di risposte e di giustificazioni che tendono a chiudere ogni reciprocità di comunicazione e di discorso, prima ancora che si dia l’occasione del suo manifestarsi. Da un lato la dinamica persuasiva degli argomenti è soppiantata dalla più irrazionale (farsesca) mitologia dell’individuo e dei suoi attributi di potenza e di autorità; dall’altro il continuo ossessivo richiamo alla prova di forza della pregressa vittoria elettorale ed alla sua investitura assiomatica di superiorità e di predominio vuole porsi come la “ragione delle ragioni”, come il vero fattore dirimente di ogni opposizione e di ogn contrasto.
Ancora una volta si riproduce una perfetta concomitanza tra forme e contenuti. Sia per come funziona, sia per ciò che dice, la logica dell’uso verbale e comunicativo promulgato da S. B. si ispira ad un’ideologia adialettica ed integralista, assai finitima con tutte quelle ideologie del Novecento che hanno puntualmente demandato all’arma del plebiscito il compito di rovesciare le istituzioni e di manomettere le regole della libertà. Del resto con quelle ideologie si rivelano insidiosamente implicate altre analogie: la ricerca del monopolio e del controllo dell’informazione, il tentativo di ridurre al silenzio l’opposizione e di pretenderne l’asservimento totale, la volontà di alimentare, attraverso l’uso selvaggio e spesso squadristico del video, la crescita dell’odio sociale, risvegliando i peggiori istinti del senso comune e liberandone, in funzione di una “guerra tra poveri”, frustazioni e risentimenti di tutte le risme.
Ce n’è quanto basta per lanciare l’allarme e tenere alta la guardia. Il pericolo, fino a qualche anno fa imminente, è diventato realtà e – come ci dicono mille segnali – vi siamo già drammaticamente dentro. Ben oltre i confini del ceto intellettuale, si ripropone a tutti con inaudita attualità l’inconciliabile aut aut tra cultura e barbarie.
[continua… – fine parte 1]

2 risposte a “Verso il punto estremo del conflitto civile e culturale”
Ottimo articolo, davvero. L’insulto alla parola e la sua riduzione a puro strumento offensivo, la sua banalizzazione, il suo impoverimento, la sua mistificazione, la sua sovversione sono stati tutti elementi presenti sin dall’iniziod dell’avvento del venditore di spazzole, fattosi capitalista riciclando capitali. Se posso permettermi, una così completa e acuta trattazione meriterebbe qualche esempio pratico in più, un po’ di sangue e muscoli su una struttura ossea discorsiva perfetta. Attendo con ansia la seconda parte. Grazie, Eleonora.
"Mi piace""Mi piace"
Eleonora, ti dò il benvenuto ringraziandoti per questo articolo, ansiosa di leggerne la seconda parte…
ci volevi tra noi! decisamente.
n.c.
"Mi piace""Mi piace"