L’arte di cadere di Raffaela Fazio (Biblioteca dei Leoni, 2015)
Prefazione di Paolo Ruffilli
Nel mettersi dentro il percorso di un canzoniere d’amore, anche solo come lettore, conviene non dimenticare alcune precauzioni. Prima tra tutte, l’etimologia della parola “amore”, che deriva da una radice mediterranea molto interessante: “Ham”, trascrizione onomatopeica del mettere in bocca e dell’ingoiare. Perché presso tutti i popoli mediterranei c’era, e ancora si conserva in alcune zone, l’usanza di indicare la straordinarietà di una cosa, di una persona, di un luogo con il gesto del portare cibo alla bocca. Insomma, qualcosa che ha tali qualità da desiderare di essere tutt’uno con lei.
Del resto, una componente cannibalesca bisogna metterla in conto (anche in questo libro: “Pezzetto per pezzetto/ ti ho subito mangiato”, “E tutto ti contengo al centro/ del mio aprirmi”…). Come diceva Lacan, l’amore significa l’unione con l’oggetto d’amore, la sua deglutizione, il suo assorbimento. Ma l’equilibrio è instabile nell’amore, e gli amanti non combattono quasi mai ad armi pari. Talvolta l’uno si sente disatteso e non adeguatamente corrisposto dall’altro (“Allora perché incalzo premo/ aggiusto il tiro dalla casamatta/ t’aizzo contro il sospetto/ mentre ti mostro il fianco/ che non mi ami/ (che non ti amo)/ e alla fine/ magari ti convinco?”). Spesso l’uno eclissa l’altro, così che quello posto in ombra è tormentato dal desiderio di rivalsa o addirittura di fuggire, per poter essere libero di crescere. Ecco la ragione del sottilissimo margine tra l’amore e l’odio, attestata dalla letteratura di tutti i tempi e paesi, ben prima che la psicoanalisi arrivasse ad affermare che, tra la domanda e il transfert, l’amore non è il contrario dell’odio ma trova nell’odio la sua struttura radicale.
Non è un caso, dunque, che il linguaggio sapienziale faccia ricorso alla terminologia delle armi e della guerra, con fasi di tregua e non belligeranza, per farsi intendere sui temi dell’amore e, anche in queste pagine, leggiamo: “Io e te che in guerra/ lucenti ci amiamo/ ora torniamo/ a due paci lontane./ Lasciamo il letto/ assolato e sfatto/ come un assoluto che invano/ cercherebbe un confine/ come un dire infinito/ che si ritira dal detto.” E non è un caso neppure che il mito greco affidi l’argomento al piccolo e irresponsabile Cupido, che scaglia frecce come capita colpendo a morte e, quel che è peggio, spaiando quelli che già erano uniti magari indissolubilmente. Capriccio e crudeltà, violenza e furore, fuga e durezza, insomma, l’esaltazione e la pazzia convivono accanto alle dolcezze dell’amore.
Si sa, l’amore “si fa”, ma ancora di più “si dice”, mentre lo si sogna in attesa di farlo o lo si ricorda sperando di ripeterlo o lo si nomina all’inseguimento di un’identità. Dell’amore e della sua fenomenologia, dei suoi riti, dei suoi simboli, delle sue morti e delle sue rinascite, i poeti sono sempre stati interpreti privilegiati. È il genio della specie che si traveste nei fantasmi del nostro delirio passionale, secondo Schopenhauer. È la nostra incontenibile aspirazione al sublime e all’assoluto, nella più aperta dedizione di sé, afferma Kierkegaard. È un fatto esclusivamente fisico, per gli uni, e una straordinaria avventura spirituale, per gli altri. In ogni caso, è la costante per eccellenza della vita, di tutti i viventi. (altro…)