[Con Michele Ortore prosegue la rubrica di poesia contemporanea di poeti nati negli anni ’80, cui Poetarum Silva si dedica da mesi allo scopo di tracciare una mappatura delle poetiche attuali, affermando la necessità della presenza di voci giovani e fresche nel panorama contemporaneo.
In ordine sono stati pubblicati Fabio Teti, Greta Rosso, Valentina De Lisi, Chiara Daino, Domenico Ingenito, Simona Menicocci, Carmen Gallo, Francesco Terzago e Tommaso Di Dio, Mariasole Ariot, Luca Minola, Alessandro Giammei, Anna Ruotolo, Roberta D’Aquino, Riccardo Raimondo e Nadia Tamarini. Rientrano in questa rosa di giovani autori anche Giovanni Catalano, Luigi Bosco e Luciano Mazziotta, redattori di questo blog]
*** *** *** ***
Si rincorrevano fra i covoni di sale spezzando
larici imbalsamati in forma di secchi rami
“nelle danze dell’agonia il ricordo ci possiede”
ripeteva inciampando uno dei due nell’ombra
imperfetta del crepuscolo senza sete né fame
erano cricchi da osservare come la disposizione angolare
di uno stormo nei waterlands olandesi quando
il giorno si rovescia in notte con immensa facilità e
la terra sottratta alle onde è una morchia scontrosa
finché almeno anche l’altro fra i due fra i covoni
fra il sale che scompare leccato dal vento
non dice “Siamo i batacchi del mondo,
lottiamo per la libertà senza neanche sapere cos’è,
un concetto inventato almeno finché non
trasfiguri la materia questo fascio di energia raccolto in nome
e lontano vedo un tetto appena accennato,
ma tu non guardarlo, respirare e nominare,
respirare e nominare,
ascoltare la voce che dovunque si produce
in ogni caso”
*
“Emi-“
“Mio essere a che, dimmi,
se più nulla ti resta,
se conosci ogni cosa, parli ancora?”
(Franco Fortini)
Come se la Terra avesse tre emisferi
e i prefissi greci non servissero a nulla,
incontrai di spalle un ricordo,
un mucchio di sassi in forma di spiaggia,
come un respiro non pesano
ma partoriscono in ogni istante
una domanda invisibile.
La garitta della memoria non ha custodi:
la sentinella si è licenziata
ben prima che nascesse Proust,
eppure certi panorami sfocati
non mi appaiono tutti riconducibili
al traffico di contrabbando.
Ho scelto la cartapaglia umida:
bere, esalare, gonfiarsi d’umori,
esperire quasi senza guardare.
Ma poi disfiorare, rinunciare uno a uno,
strappare e strapparsi le palpebre
per non chiudere gli occhi: ascoltarsi,
cercare il punto più alto
per ridersi in faccia, misurare
come un ladro gli scatti della mente,
ghigliottinare illusioni, usare la lente
fino all’indecente.
Ma, se restasse qualcosa:
i prefissi greci non servono a nulla.
*
Mutatis Mutandis
“e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità”
Avevamo lo sguardo distratto dalle foglie
con le punte dei piedi affacciate
sotto il ponte di legno sorridente, verde, un arco.
.
scivolate come un groppo in gola
foglie d’acero e foglie d’erba
nelle mezze verità della memoria,
ad abitare la garitta insormontabile
di fronte al palazzo dei labirinti,
dove una tazzina incrinata di caffè lungo
può incontrarsi con carte da lettere
piene di ali e piene d’aureole
chiedersi ciao come state
che piacere trovarvi qui, anche voi salvate
dall’ordine piatto delle dimenticanze.
Ma no, siete appena arrivata,
direbbe un sopraggiunto calzino,
qui non manca nessuno all’appello,
solo ci s’incontra per caso, a volte sempre
se non di rado, e nessuna relazione stabile,
ma di questo son certo: non manca alcuno,
neanche il miele contro la tosse,
né la piega del raso inamidato,
o il pince-nez di quel ciuffo arruffato.
.
Così, ho un labirinto sopra la testa
pieno dei fili d’Arianna dei miei desideri
a tessere ricordi in forma di risposte,
sono tentativi di regalare un tombolo
alla bellezza dello scorrere,
alla sorella che vorrei ripescare
come un luccio, in quel fiume laggiù,
senza neanche aver chiaro cos’è che distingue,
nei labirinti,
un luccio da un leccio.
*
Polvere di statue (un’Onda)
.
Erano mille petali infiammati:
in ognuno l’espressione di un ricordo,
il socchiuso sguardo delle teche
quando ancora vuote si riempiono di storia
di speranze sfuggenti e inspiegate
e non ancora fossili, code di rettili.
Ruvidi e dolciastri, come la resina sui tronchi,
quei ragazzi abolivano le pause dei giudizi,
i secondi vuoti della razionalità,
l’oggettività sorda.
Conoscevano i selciati del cielo,
se mentre il corteo occupava il ministero
due di loro si amavano sui tetti.
Statistiche e idee, giornali strappati,
giornali fumati.
.
E la polvere delle statue, al suono
di flauti invecchiati per rinascere,
non si ferma, sgrana i nasi simmetrici
e amputa le perfezioni di braccia e gambe,
.
cade nell’acqua e forse piove, lascia
il corpo perfetto ed è nell’aria:
fermatevi, non toccate più il suolo
e nei mille silenzi di un attimo, siate unici
fotografie di voi vivi
fotografie vive, un angolo piegato e Dio dietro,
solo per un attimo, solo se nell’attimo.
*
Dauer im Wechsel
.
Lo senti, lo senti, lo senti, lo senti,
lo senti, il campanello? anzi ripete
la curva della serpentina nel frigo
il rimbalzo semibreve sull’intonaco
del pigiare un grigio pulsantino
come specchio ustorio fino al corridoio
delle menti soltanto predisposte
al domestico sfrigore, al cucinio trasalire ma
cade la parete cade il cateto cade
il quadrato e la radice della stanza,
cade la leggenda suicida e fasulla
delle clavicole stempiate in certi versi
incapaci di parlare, ma non di allogare
nelle gore di un trattino il vomitare
repentino per la vita brulla e se Rilke
disegnava nelle ore il futuro di Dio,
è molto meglio compiacersi d’aver cancellato
il già cancellato disegno passato,
in lode alla maestà presente della clavicola,
con l’alopecia a garantire assoluzioni:
ha la mitra l’ironia, e abacadabra il mondo è sparito
– ahah, vorresti i sèmi almeno per dirlo,
ma Derrida non te li dà – è già tanto che non derida
e non avrai altro dio al di fuori del negare
.
Eppure, se solo chi afferma il silenzio
scegliesse, ogni tanto, il silenzio, sentirebbe
.
cadere sul timpano
la campanella delle corde ritorte alle meccaniche,
il lume della mente nel fondale,
corde in lunghezza d’onda a forza dieci,
la sincronia dei granelli nella schiuma,
i minerali nascosti e le lune lente sopra gli uliveti,
e il bistro a maturare nei faggeti per cerchiarsi
un giorno gli occhi con la mano pencolante sullo specchio
mentre il vero sguardo scivolando
lascia vuoti i bulbi
e attraverso il retro del bianco oculare
cerca nella palta più profonda il riparo
dalla filosofia del calpestio.
.
Nella verticale del chiostro la candela
muta il bianco in atro vapore e poi nuovamente
bianco come il volto immedicato della suora nelle nuvole:
è questa resilienza della vita,
la durata del cambiamento è
il bucaneve, ciò che permane nel cambiare
è il suo gambo così piccolo e impossibile alla capsula,
come quando l’apice spunta dalla formula e insegnando
quanto poco noi sappiamo
ci squaderna incalcolabile
.
________________
Michele Ortore è nato il 1 luglio 1987 a San Benedetto del Tronto. Ha una laurea triennale in Studi Italiani, con una tesi sulla lingua di Leo Longanesi. Le sue poesie sono apparse in diverse antologie; le più recenti: L’ape poeta (Edizioni Artescrittura, 2009), Non abbiate paura (Ursini Edizioni, 2010), Tutti, tranne te! (Liminamentis Editore, 2010). Tre suoi testi sono stati finalisti dell’edizione 2010 del concorso nazionale “Poesia di strada“. Alcune sillogi poetiche sono apparse anche nei lit-blog La poesia e lo spirito, Filosofi per caso, nella rivista Pi greco – Trimestrale di conversazioni poetiche e nella rubrica Pezzi di vetro, curata da Rossella Renzi sul sito di Argo. Due racconti brevi sono stati pubblicati in Inadatti al volo (Giulio Perrone Editore, 2007) e Lontano dal cuore (Terre di Mezzo, 2008). Nel 2007 ha fatto parte della giuria giovani del premio nazionale del documentario Libero Bizzarri, curando una presentazione critica sull’omonimo catalogo. Ha collaborato con Historica – Progetto Babele, Whipart, UT e con il settimanale d’attualità Carta. È stato vicedirettore della rivista indipendente Vespertilla e si occupa di teatro sulle testate Close-up e TeatroTeatro. Dal 2009 è iscritto all’Ordine dei Giornalisti come pubblicista.
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