
Gesualdo Bufalino. Kamarina (Comiso), 1995. Foto di ©Paola Agosti
Memoria e identità nella Sicilia di Gesualdo Bufalino
“Essere o riessere, ecco il problema. La scrittura me lo risolve, mi permette di cibarmi dei miei ieri come le iene si cibano dei cadaveri e così sopravvivere al deserto”.
Gaglianone e L. Tas, Essere o riessere, conversazione con Gesualdo Bufalino, Omicron, Roma, 1996, p. 10.
Gesualdo Bufalino (Comiso, 15 novembre 1920 – Vittoria, 16 giugno 1996) è stato uno degli ultimi grandi umanisti del ‘900. Nel solco della tradizione che va da Verga a Tomasi di Lampedusa, da Fortunato Stefano D’Arrigo a Lucio Piccolo, da Brancati a Sciascia, non è mai tra i primi scrittori siciliani citati, ma merita assolutamente un posto d’onore. La fase d’avvio della sua produzione è caratterizzata da un prolungato esercizio di scrittura sommersa che affonda le radici nel cuore di un’esistenza vista sempre come evanescenza e fuga dalla vita mentre il suo fulcro risiede nell’adolescenza e nella prima giovinezza dell’autore. Una fuga dalla vita, dunque, a cui Bufalino risponde con la ricerca sullo sfondo sempre della Sicilia, in cui il binomio di “stigma-stemma” (la malattia assume qui un carattere positivo, da stigma in stemma che in fondo vogliono dire la stessa cosa, e cioè “segno” ma nel primo caso, il segno è una piaga, mentre nel secondo è un’insegna di nobiltà, come sostiene Romano Luperini in “l’interpretazione e noi”). Il termine, derivante dal latino, indica in origine il marchio a fuoco che nell’antichità veniva impresso sul corpo degli schiavi o dei delinquenti. Nella lingua odierna è sinonimo di “segno caratteristico”, “impronta “, ne deriva anche “stigmate”, che indica per antonomasia i segni impressi alle mani, ai piedi e al costato di Cristo crocifisso. Stigma-stemma in Bufalino è fonte di dissidio feroce per la necessità di stare da un lato nel suo paese e dall’altro il suo non bisogno di uscirne. “…ogni siciliano è, di fatti, una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l’isola tutta è una mischia di lutto e di luce. Dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte. Altrove la morte può forse giustificarsi come l’esito naturale d’ogni processo biologico; qui appare come uno scandalo, un’invidia degli dei”. (Da Studi novecenteschi, Edizioni 45-46 – Pagina 57). Pochi i fatti della sua vita: combatte in Friuli durante la Seconda guerra mondiale, successivamente viene catturato dai tedeschi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, ma riesce a scappare. Terminata la guerra nell’autunno del 1944, si ammala di tisi e viene ricoverato all’ospedale di Scandiano. La degenza diventa un antidoto alla sofferenza fisica e mentale di Bufalino. Lo scantinato dell’ospedale diventa il nascondiglio della biblioteca deI dottor Biancheri, il primario dell’ospedale, che desiderava proteggerla dai pericoli della guerra. Bufalino passa il suo tempo a leggere quei libri con la sua onnivora curiosità intellettuale e ibridazione, “Poiché leggere a me non servi soltanto da risorsa conoscitiva, utile a esplorare, dal fondo del mio pozzo buio, il più che potessi del lontanissimo cielo: significò soprattutto mangiare, saziare una mia fame degli altri e delle loro vite veridiche o immaginarie”. (Da Malpensante, Bompiani, Milano, 1987, sottotitolata “Lunario dell’anno che fu”). Riprende gli studi universitari, interrotti dalla guerra, laureandosi presso la facoltà di lettere e filosofia. Per due anni insegna nell’Istituto Magistrale di Modica. Nel 1951 ottiene il trasferimento all’Istituto Magistrale di Vittoria, poco distante da Comiso, dove insegnerà per altri venticinque anni. La cifra stilistica più apprezzabile negli scritti di Bufalino è dunque una scrittura viva, nutrita di memoria «onnivede, stravede, non vede» (Bufalino-Trecca, Essere, p. 48) e di una profonda indagine sull’identità siciliana, che collega e confronta ma soprattutto affonda nelle radici aeree della terra natia, «patrimonio di memorie, vera mnemoteca e insieme materno cordone ombelicale con l’esistenza» (Bufalino-Trecca, Essere, p. 49) e in un saggio dedicato a Pirandello, Bufalino descrive cosa significa per uno scrittore siciliano essere siciliano: “Per noi siciliani, ripeto, non per voler ridurre il peso europeo e universale dello scrittore, bensì per insinuare che il suo essere europeo e universale risulta inzuppato e come saturato dal suo essere siciliano. Pensate a una corrente marina, alla Corrente deI Golfo, poniamo, la quale attraversa l’Atlantico intero senza perciò cessare d’ esser sé stessa, con una salsedine propria, una temperatura propria; ma che non appare in nulla diversa dal corpo acqueo totale dell’oceano all’ occhio del marinaio che la naviga o dell’albatro che la sorvola. Allo stesso modo la Sicilia sta dentro l’Europa pirandelliana senza distinguersi da essa e tuttavia restando incontaminabile e propria”. (Da Saldi d’autunno di Gesualdo Bufalino, pag.686, Gruppo editoriale Fabbri-Bompiani- Sonzogno, Etas 1990). Così per questa sua prosa, così unica, che, pur calandosi nella cultura del proprio territorio d’origine, tocca tematiche universali, Bufalino ha superato il proprio localismo, come dimostrano i prestigiosi riconoscimenti del “Campiello” prima e del premio “Strega”, dopo (1988). Muore il 14 giugno del 1996 a seguito di un incidente stradale tra Comiso e Vittoria. All’amministrazione comunale, l’autore di ”Diceria dell’untore” ha lasciato anche il suo archivio, che contiene manoscritti di romanzi, di saggi, ma anche poesie e lettere. Così nell’ex mercato ittico di Comiso, (U Còmmisu in siciliano) sorge La biblioteca privata di Gesualdo Bufalino diventata proprietà del Comune di Comiso, suo paese natale, custode dei tremila libri dello scrittore. “Era un paesotto popoloso [ … ] ma non triste. A giudicare dalle case dipinte di blu meteIene, ciascuna delle quali sui grami usci inalberava a comice un’odorosa pergola di gelsomino. Scurissime le facce, ma allegre di sapone recente. [ … ] E già uscivano per la prima messa le ragazze, [ … ] camminavano come signore, distribuendo a destra e a manca la tenera mafia degli occhi. È l’umile fondale del vicolo da cui sbocciavano, fra gabbie di galline e zacchere sparse, piuttosto che mortificare l’alterigia del passo, pareva conferire un di più di gloria e di teatro alla scena. [ … ] (G. Bufalino, Comiso ieri, immagini di vita signorile e rurale, Sellerio editore, 1978, Palermo, p. 3). Il romanzo Diceria dell’ untore, pensato e abbozzato verso il ‘50, scritto nel ’71 covato dalla giovinezza con dedizione e silenzio, e poi subito bestseller nel 1981. L’autore scrisse il testo sette volte e lo modificò ripetutamente nei 30 anni della sua genesi tra il 1950 e l’anno della sua pubblicazione. Il labor limae attuato potenzia il linguaggio figurato, leitmotiv della scrittura bufaliniana e trova conferma nei suoi aforismi nella raccolta Il Malpensante: “Rileggere ciò che è scritto cinquanta volte ogni giorno, non fosse che per cambiarvi una parola, come si cambia un fiore in un vaso”. È importante perciò non incorrere nell’errore di confondere le date di scrittura di Diceria con quelle di stampa, dato che Gesualdo Bufalino entra tardi ufficialmente nello scenario della letteratura italiana nel 1981, all’età di sessant’anni, sollecitato da Sciascia per telefono. Elvira Sellerio fece una scommessa perché era certa che avesse un manoscritto nel cassetto, dice Bufalino in un’intervista dell’85 di Sergio Palumbo. Certamente l’esordio tardivo e la reticenza a considerare la sua opera come definitiva hanno destato nel clima letterario dell’epoca tanta curiosità e Bufalino stesso in Saldi d’autunno, 242, così spiega: “La mia riluttanza alla stampa [… ] nasce da una discrezione nativa, [ … ] per me un’opera può solo dirsi veramente viva se, e finché è inedita, mobile, trasmutabile ad libitum come la vita. Un’altra ragione sta nel clima letterario dell’epoca: Bufalino stesso, in una sua intervista, attesta di aver scritto il suo romanzo “stretto fra due cadaveri freddi: la salma deI Neorealismo e il feto dell’Avanguardia”. «Diceria» evoca, nel parlato spiccio, un’insinuazione di scarsa credibilità, come di uno sproloquio mormorato all’orecchio. ‘Untore’, di ascendenza manzoniana, è termine più complesso e fa l’effetto di un libro sorprendentemente antico. Un’opera che nasce già con la premessa di farsi incontentabile e preziosa e che cresce quasi fuori di un tempo precisabile. Il romanzo, strutturato nelle forme tradizionali del memoriale autobiografico, presenta un carattere lirico-autobiografico, una sorta di riflessione esistenziale sui grandi temi della morte stigma-stemma, della malattia e dell’amore, svolta attraverso una serie di evidenti richiami alla letteratura decadente (si pensi a La montagna Incantata di Thomas Mann o a Moby Dick di Melville, anche se lo scrittore, tuttavia, dichiara in un’intervista di non essersi ispirato all’opera di Mann). “Non è la Montagna incantata che mi ha incantato. L’ho letta nel 1943, non ero ancora ammalato, non ho sentito allora una consonanza di temi. Il Mann che mi è più vicino è quello di Morte a Venezia e certe immagini del Dottor Faustus, mentre escludo nel modo più totale una derivazione tra la Montagna e Diceria”. (61 F. Santini, La mia Sicilia è un museo d’ombre e io vivo in un buco nero, in «Tuttolibri», 11 luglio 1981). Scrittore in presenza di un dio che non c’è, grande sperimentatore, soprattutto sul piano del linguaggio e della ricerca linguistica nella scelta lirica e musicale della scrittura, si allontana anche rispetto alla tendenza dell’estremismo di molti narratori contemporanei (Gadda, Consolo, D’Arrigo e Pizzuto) e coraggiosamente non ha seguito la strada degli scrittori che in quegli stessi anni cominciavano a optare per una lingua di tono medio con forme semplici e accessibili al grande pubblico, mentre lui cercava di contrastare l’ossificazione del mondo, una visione anche della letteratura che molto spesso sembrava scadere nella banalità, nel tono grigio. (altro…)
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