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Il demone dell’analogia #31: Talled

«Una strana amicizia, i libri hanno una strana amicizia l’uno per l’altro. Se li chiudiamo nella mente di una persona bene educata (un critico è soltanto questo), lì al chiuso, al caldo, serrati, provano un’allegria, una felicità come noi, esseri umani, non abbiamo mai conosciuto. Scoprono di assomigliarsi l’un l’altro. E ognuno di loro lancia frecce, bagliori di gioia verso gli altri libri che sembrano (e sono e non sono) simili. Così la mente che li raccoglie è gremita di lampi, di analogie, di rapporti, di corti circuiti, che finiscono per traboccare. La buona critica letteraria non è altro che questo: la scoperta della gioia dei libri che si assomigliano». Mario Praz

La Giudecca di Trani (by Dina Carruozzo Nazzaro)
Il demone dell’analogia #31: Talled

In quella stanza con l’Arca Santa, i candelabri, i libri allineati sulle mensole, Boris si sentiva a casa. Lì amava raccogliersi, era la sua fortezza. Aveva pensato spesso che gli sarebbe piaciuto terminare i suoi giorni in una stanza come quella, con un leggio, la menorah a sette braccia e la lampada di Hanukkah a otto braccia su uno scaffale della libreria. Lì aveva il suo rotolo della Torah, uno Shofar e una tunica bianca, una scatola per l’etrog, preziose antichità ebraiche e oggetti rituali d’ogni sorta. Lì perfino gli odori erano diversi: la stanza sapeva di spezie e profumava come il Giardino di Eden. Boris indossò il Tallit e sospirò. Si legò i tefillin attorno al braccio sinistro, e si sentì pieno di vergogna di fronte al Signore dell’Universo. Aveva già guadagnato dieci volte più di quanto gli servisse. Da dove veniva quell’avidità di denaro? Cosa ne avrebbe fatto di quei soldi? Li avrebbe portati con sé nella tomba? Si annodò la cinghia di cuoio intorno alle dita e recitò la meditazione prescritta, concentrandosi sul significato di ogni parola: «Ti destinerò a Me per l’eternità, ti destinerò a Me nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nella misericordia, ti destinerò a Me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore».
Questi sono gli insegnamenti che hanno valore! pensò. Ogni parola illumina l’anima. Il Signore dell’Universo è lo sposo promesso e la comunità di Israele è la sposa, ma invece di rallegrarsi di lui e cercare di compiacerlo, indulge in ogni sorta di follia e trivialità.
Sentì suonare all’ingresso. Sarà il droghiere o il disinfestatore, pensò, e continuò a pregare. Reytze aprì la porta.
«Herr Makaver, c’è Frau Tamar».
Boris domandò stupefatto: «Frieda Tamar?».
«Sì».
Boris rifletté un istante. Frieda avrebbe dovuto telefonargli. Non era mai passata senza chiamare prima. Be’, sarà venuta a dirmi che rifiuta. Voleva restare in buoni rapporti. Magari temeva che suo fratello potesse soffrirne. Boris aggrottò i sopraccigli. Doveva riceverla in tallit e tefillin? Rammentò l’insegnamento talmudico secondo cui non dovevi sospendere la preghiera neppure se un serpente ti si avvinghiava ai piedi. Ma, in senso stretto, la norma valeva solo per le Diciotto Benedizioni, non per i salmi che si recitano prima della preghiera del mattino. Be’, forse è meglio così. Con tallit e tefillin mi vergognerò di meno.
Boris disse a Reytze di far entrare Frau Tamar. No è no, si disse. Se me la sono cavata fino ad ora senza una moglie, tirerò avanti così fino alla fine. Sfiorò i tefillin sulla fronte e sul braccio. Erano i suoi armamenti, la sua corazza. Aveva sentito dire che Frieda Tamar aveva un debole per Jacob Anfang, il pittore. Anfang era più giovane di lui, oltre a tutto. Be’, mi congratulerò con lei. Le dimostrerò che non sono deluso, decise. In ogni caso, è tutto preordinato.
La porta si aprì ed entrò Frieda Tamar. Vedendolo con tallit e tefillin arretrò. «Ah, stava pregando. La prego di scusarmi».
«Avevo appena iniziato, oggi sono in ritardo, mi sono dilungato nella preghiera come un hassid di Kotzt…sono ancora ai salmi di apertura».
«Prosegua, la prego. Aspetterò».
«No, la prego, si accomodi. Ora che è venuta, vorrei sentire che cos’ha da dirmi. Altrimenti non riuscirò a concentrarmi nella preghiera».
Frieda fece un passo avanti: «Sono venuta a dirle che, se mi vuole ancora, sono pronta a diventare sua moglie».
Boris trattenne a stento un grido di gioia. Tese le braccia come per abbracciarla e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Di fronte a lei provò vergogna: una creatura di carne e sangue che esultava più per una donna che per il Creatore dell’Universo. Ma il tallit e i tefillin erano le sue briglie, le cinghie di cuoio i suoi lacci. In quel momento era un soldato, un soldato di Dio, in servizio attivo. Tirò fuori il fazzoletto e si asciugò gli occhi.
«Possa Dio renderla felice come lei ha reso felice me».
«Adesso può darmi del tu».
«Sì».
«Finisci le tue preghiere. La preghiera è più importante. Ti aspetterò nel salon».
«Grazie davvero».

da Ombre sull’Hudson di Isaac B. Singer

 

KADDISH

Non può che durare
a lungo quella nota
sospesa.
Non può che tenere
a lungo quel filo,
di lino, colore argento.
Ricordi e strazio.
Ma non è strazio
anche il violino che
suona e suona, e suona
incurante del desiderio
di non ascoltare più?

E si tendono mani, bambine.
Perché è del bimbo
la spontanea elevazione.
Plurale e collettiva.
Si tendono mani
verso ciuffi d’erba di ricordi
mentre la cantilena sostiene.
Energie d’insieme.
Linfe vitali.
Dieci anime,
per innalzare un Nome.
Dieci Iod per dieci Iod
per nominare e santificare
lo sguardo
arrossato di chi ricorda.

Sono dieci mani sulle spalle.
Affaticate.
E carezze e sguardi ritrosi
e volti stretti,
in quella serie infinita
di elevazioni, congiunte
dalla stanghetta santa della Vav.

Ricorda l’altro e l’Altro.
Dieci anime a sostegno di un cuore
che lacrima stille di perdita
su un suolo fertile, sapendo
che nulla sarà più lo stesso.

Dieci anime che planano
sui volti delle acque
di lacrime mal trattenute
e ricordano nel pianto
la capacità di trasformare
lame fredde in
Lamed di trasmissione.

Kaddish.
La parola sacra, che dice il bene.
Dieci anime cantilenano e si chinano
a sostegno, a supporto,
a elevazione di un cuore
che deve trovare
la sua nuova forma.
Un cuore nuovo
che possa contenere
tutte le benedizioni
che gli sono donate.

Sotto il Talled di un padre
il mondo si fa
piccolo, caldo, intenso,
i respiri sono forti,
l’umanità si manifesta
nei corpi e negli aneliti.

Fuori dal Talled, ci vogliono
dieci anime
per innalzare un Nome,
dieci su dieci milioni di anime
per innalzarne un Altro.

Sia benedetto il tuo Nome,
sia santificato il tuo Nome,
sia elevato il tuo Nome.
E ora, che il violino
tace, sia la mia voce
spezzata
a dire quel nome,
piccolo.

di Sergio Daniele Donati, dal blog Le Parole di Fedro (25/03/20)

 

Ormai, se voleva riavermi per qualche minuto in suo dominio – fisico, intendiamoci, soltanto fisico! –, a mio padre non restava che attendere la benedizione solenne, quando tutti i figli sarebbero stati raccolti sotto i taletòd paterni come sotto altrettante tende. Ed ecco, infine (lo scaccino Carpanetti era già andato in giro con la sua pertica, accendendo ad uno ad uno i trenta candelabri d’argento e di bronzo dorato della sinagoga: la sala sfolgorava di luci, ecco, trepidamente attesa, la voce del dottor Levi, per solito così incolore, assumere di colpo il tono profetico adatto al momento supremo e finale della berahà.
«Jevarehehà Adonài veishmerèha…» attaccava solennemente il rebbino, curvo, quasi prostrato, sulla tevà, dopo essersi ricoperto la torreggiante berretta bianca col talèd.
«Su, ragazzi,» faceva allora mio padre allegro e sbrigativo, schioccando le dita. «Venite qua sotto!»
Vero è che anche in quella circostanza l’evasione era sempre possibile. Il papà aveva un bel pigiare le dure mani sportive sulle nostre collottole, le mie in particolare. Sebbene vasto come una tovaglia, il talèd del nonno Raffaello, del quale si serviva, era troppo liso e bucherellato per garantirgli la clausura ermetica dei suoi sogni. E infatti, attraverso i buchi e gli strappi prodotti dagli anni nella tela fragile fragile, che odorava di vecchio e di rinchiuso, non era difficile, almeno a me, osservare il professor Ermanno mentre lì accanto, le mani imposte sui bruni capelli di Alberto e su quelli fini, biondi, leggeri di Micòl, scesa a precipizio dal matroneo, pronunciava anche lui una dopo l’altra, tenendo dietro al dottor Levi, le parole della berahà. Sopra le nostre teste mio padre, che dell’ebraico conosceva non più di una ventina di vocaboli, i soliti della conversazione familiare – e d’altronde non si sarebbe mai piegato –, taceva. Immaginavo l’espressione improvvisamente imbarazzata del suo viso, i suoi occhi, tra sardonici e intimiditi, levati verso i modesti stucchi del soffitto o verso il matroneo. Ma intanto, da dove ero, guardavo di sotto in su, con stupore e invidia sempre nuovi, il volto rugoso e arguto del professor Ermanno in quel momento come trasfigurato, guardavo i suoi occhi che dietro le lenti avrei detti pieni di lacrime.  La sua voce era esile e cantilenante, intonatissima; la sua pronuncia ebraica, raddoppiando di frequente le consonanti, e con le zeta, le esse e le acca molto più toscane che ferraresi, si sentiva filtrata attraverso la duplice distinzione della cultura e del ceto…
Lo guardavo. Su di lui, per tutto il tempo che durava la benedizione, Alberto e Micòl non smettevano di esplorare anche essi fra gli spiragli della loro tenda. E mi sorridevano, e mi ammiccavano, ambedue curiosamente invitanti: specie Micòl.

da Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani

4 risposte a “Il demone dell’analogia #31: Talled”

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