9 aprile 1821.
Duecento anni fa, oggi. Nasceva a Parigi Charles Pierre Baudelaire il principe dei nembi, il poeta che si donò al sublime, purché fosse mefitico. Un dandy, lo proclamarono i più colti, un perdigiorno avvezzo a vari vizi, più o meno tutti gli altri, compresa la madre e il rigido patrigno Aupick, sotto l’egida di un Napoleone III. Persone che non ne avrebbero mai compreso il lirismo.
La sua biografia, costellata di aneddoti, condanne, pugnali, amori infamanti, debiti, sordide stanze d’albergo, atroci sofferenze carnali e morali conserva tutta la verità di questo poeta sontuoso e macabro, che nell’anno di grazia 1857 gettò il seme de I fiori del male. E la poesia cambiò per sempre.
Lui non sopravvivrà dieci anni oltre. Ma in quella raccolta c’era tutto di sé e dell’umanità, spleen e ideale, scritti in quel modo, possono bastare sino alla fine dei tempi.
Nacque così la poesia moderna, recitano le antologie. Ma cosa significa “moderna”?
Sostanzialmente nulla, perché da quel momento, più che moderna, la poesia divenne vera. Divenne sangue, divenne vagabondaggio, inno alla bile più nera.
Baudelaire diede alla poesia un odore: i suoi versi esalano ancora oggi qualcosa di carneo e di corrotto, qualcosa di ammaliante, qualcosa che ha a che fare con la morbosità, ma una morbosità romantica. Di certe poesie sembra ancora caldo il letto, umido il bicchiere, vivi gli occhi di un gatto, logori gli abiti di una passante.
D’altra parte fu sincero: ho impastato il fango e ne ho fatto oro.[1]
Quelle liriche raccontavano di amori lesbici, di prostitute, di carni consumate, di una Parigi decadente ma impossibile da abbandonare; qualcosa di velenoso e di spaventosamente salvifico sgorgava dalla sua ispirazione.
Rime perfette le sue, rime che s’erano date alla cruda realtà dell’esistenza. Poesie scritte da un uomo che dentro era dilaniato, ulcerato nel cuore.
Prima (e per sempre) c’era stata la madre, il suo tradimento: Caroline rimasta vedova sposò in seconde nozze l’austero generale Aupick, niente di peggio. Un rapporto quello, fra madre e figlio, consumatosi in laceranti lettere, infinite suppliche, livori, riappacificazioni e infamanti accuse e che non si risolverà mai, neanche sul letto di morte di Baudelaire.
Anzi, ne influenzerà profondamente il rapporto con le donne: ed ecco Jeanne Duval, la venere nera, un’attrice di ultimo ordine, una donna che prosciugherà le forze di Charles Baudelaire, ma che ne alimenterà per quasi vent’anni l’ispirazione. Jeanne era la musa. E una perfetta spettatrice: lo vide consumarsi ed era per lei una lettera che il poeta scrisse poco prima di accoltellarsi (e non era il primo tentativo in fondo). Ma tra assenzio, vino e hashish erano sempre le sue possenti trecce ad avvinghiare il maledetto alla perdizione, all’ozio, all’oblio. All’eternità, che si raggiunge solo morendo.
Vennero altre donne certo, nuove muse, nuove prostitute e con loro anche la sifilide.
Intanto però quell’artista raffinato e melanconico così inviso dalla buona borghesia, continua a scrivere, a creare, a redigere articoli di critica d’arte non privi di pregio: in Francia tradusse per primo E.A. Poe, un’anima a lui affine.
Nessuno era sceso così profondamente nelle viscere di un’epoca, di un’umanità sanguinante per uscirne a sua volta imbrattato, a sua volta dissanguato. Ma nostro fratello. Li ha donati a noi quei fiori maledetti, lo confessa nell’introduzione stessa dell’opera, Au lecteur, una delle più potenti di sempre nella storia della poesia.
Il principe dei nembi, Baudelaire, l’eletto, il poeta-albatro custode di una visione che condanna alla solitudine e allo scherno. Non c’è spazio per una sensibilità del genere, è uno sguardo sul vuoto esistenziale che non tutti posso sostenere.
E finì più o meno così, con un’aureola gettata nel fango. E non senza bellezza, non senza un arcano simbolismo, non senza sacrificio.
Finì com’era iniziata, nel tormento e nella solitudine, dilaniato fatalmente dalla sifilide, stordito dalle droghe utilizzate per lenire l’agonia e la paralisi. Era il 31 agosto 1867.
Sepolto nel cimitero di Montparnasse, intorno all’umile tomba quei fiori maledetti germogliano ancora. Per sempre.
SGUALCITI BACI SU MARMO NERO
Le fronde degli alberi vivi
occultavano l’azzurro del cielo la mattina
attutivano il respiro d’una freschezza non già supina .
V’erano lettere e bocche sgualcite
che non toccai
giacché ricordai il nostro andar oltre la superficie
e la mollezza del ricordo scarnifica il muschio della tua tomba
chi di quei versi ne amò la letteratura
non pianse lacrime di petalo lì all’ombra.
Pietra ancora in preda al terriccio caldo,
quei fiori che rubai tutti
per dedicarli ai ragni, tessitori di sogni
predicatori di una sete che non ci seppe sfamare
e d’una bellezza che avrebbe dovuto nel vento tremare[2]
© Giulia Bocchio
1 C. Baudelaire, Bribes, Baudelaire tutte le poesie, Newton Compton Ed., Roma, 2011, cit. p. 451.
2 Poesia scritta sulla tomba di Baudelaire il 30 giugno 2014 e contenuta nella raccolta Il vento del vanto, Genesi Editrice, Giulia Bocchio, Torino 2015.