L’ultimo libro di Giovanni Nadiani (Cassanigo di Cotignola, 1954 – Reda di Faenza, 2016) esce postumo col titolo A ṣgumbiëla per le edizioni Il Ponte Vecchio, a quattro anni dalla scomparsa del poeta. Esce grazie alle cure meticolose dell’amico Loris Rambelli e alla collaborazione di Giuseppe Bellosi, Gianni D’Elia e Renzo Bertaccini. Le poesie qui raccolte rappresentano i “danni collaterali” dell’ultima opera di Nadiani e’ Crech de’ S-ciân (lo Schianto di Ognuno), scritte durante e dopo la stesura del monologo, ma che Nadiani stesso aveva raccolto sotto il titolo ṣgumbiëla, in vista di una possibile pubblicazione.
Già il titolo è una piccola opera d’arte, una di quelle parole del dialetto romagnolo che non hanno un preciso corrispondente nell’italiano, e che quindi ci spinge fin da subito a spiccare un balzo nel mondo del poeta. A ṣgumbiëla è un atteggiamento, una posa, uno stato. Potremmo dire scomposti, riversi, svaccati, “buttati” da qualche parte, in un riposo dimesso e non elegante. Nadiani utilizza questa espressione in riferimento ad un gruppo di donne, le badanti, sdraiate alla rinfusa su di un prato mentre consumano una merenda a base di pane, formaggio e Conad Cola, una reinterpretazione postmoderna de Le Déjeuner sur l’herbe (La colazione sull’erba) di Manet, carica però di quel pizzico di squallore e abbandono propri dei nostri tempi. Perciò fin dalla copertina, di un bel blu intenso, con una figura riversa su di un letto opera di Liliana Tarlombani, ho capito che sarebbe stato uno di quei libri che vorremmo non finissero mai, le cui pagine andassero aumentando ad ogni lettura, ingrossandone il dorso. Perché di Nadiani vorrei leggere ancora molto altro. Il dialetto romagnolo, una lingua che solitamente pare non prendere le cose troppo seriamente, nelle mani del poeta tende proprio alla verità, tracciando così il volto più recente del nostro vivere e dei mutamenti di questa terra. Dove sono finiti il focolare e i giganteschi buoi che pettinano il campo per la semina? Nadiani è tra i pochi scrittori davvero contemporanei, ed è ancora più curioso che abbia scelto per lo più di esprimersi in dialetto; questo porta al principio uno spaesamento, un trauma. La lingua contadina fatta di terra e sudore si ritrova a fare i conti con i manager, le chat, il ketchup e i diabolici co. co. pro. (contratti di collaborazione a progetto); il trauma semantico riflette il trauma più profondo di una perdita nell’anima. La realtà del poeta diventa svogliata, stanca; il «timpurêl a spinduclon» (temporale a penzoloni), «l’asfêlt sfat» (l’asfalto molle), «e’ lansê strach dla tëra» (l’ansimare stanco della terra), sono tutti segni piuttosto chiari di una realtà che appassisce, e il tempo del poeta va a coincidere con il tempo del mondo che finisce, che si secca. Queste poesie, che riprendono lo spirito degli ultimi lavori di Nadiani come Anmarcurd, fanno i conti con quel che resta tra le mani davanti alla fine imminente. Non è un caso che l’asfalto, la strada, tornino spesso in queste ultime poesie; ma è difficile vedervi una consolazione, un senso di viaggio, di partenza. La strada in Nadiani tende a liquefarsi, appare più come un luogo di smarrimento, uno spazio desolato dove gli animali finiscono i loro giorni nella calura estiva. Il poeta vi si aggira come rassegnato, verrebbe da dire in cerca di una comunanza con il destino di cose, animali e uomini, tutti logorati da un tempo disperato e mediocre: «me a m’fines/ da par me/ a caval d’un fös…» (io mi consumo/ da solo/ fra le prode di un fosso…). Allora non esiste consolazione? «a m’amol pr invel…» dice il poeta, si avvia, spicca verso nessun altrove. «Solo chi ha fede in un Aldilà riesce a farla franca, gli altri dovranno angosciarsi per la vanità del tutto» scriveva Nadiani, perché la fede è un dono che aspettiamo di ricevere; allora mi pare di vedere il poeta gettato in questo limbo fatto di erba secca, autostrade deserte e stazioni di servizio, forse davvero in attesa di ricevere quel dono, in attesa di un incontro.
© Valerio Ragazzini