, ,

Sandro Abruzzese, Andrà tutto bene. A sinistra del coronavirus

Andrà tutto bene
A sinistra del coronavirus

Tutto si può dire dell’emergenza che stiamo vivendo per via del coronavirus tranne che non sia un’esperienza inedita, in grado di stravolgere il nostro punto di vista sulla realtà, fornendo altre prospettive. Intanto, ridisegnando lo stile di vita delle nostre città e dei paesi, pone la questione dell’essenziale rispetto al superfluo. Mostra cioè il volto della decrescita, un mondo più sobrio e povero, in cui la società diviene nuovamente da ripensare negli spazi e nel tempo secondo un nuovo senso comune dell’umano, tutto da ricostruire, magari all’insegna del lento, profondo, soave langeriano.
Poi l’ampia diffusione del contagio ha spogliato il discorso politico della iniziale sinofobia, lo ha de-etnicizzato, rendendolo pian piano universale. E questa universalità ha a sua volta zittito i vari leader xenofobi italiani, improvvisamente orfani di monotoni argomenti a loro cari per fomentare la paura e la fobia etnica, lasciandoci solo la doppiezza tronfia dell’abborracciato Renzi alla CNN.
Ma stando alla Lega, sul piano nazionale sono disponibili le giravolte di Salvini, passato dal “non si può fermare tutto” al “si fermi chi può”, il filmato di Zaia sui topi mangiati dai cinesi, le performance surrealiste di Sgarbi, sui cui davvero non vale la pena indugiare. Questo, nel silenzio di Berlusconi, è quel che resta della destra italiana. Ma nel frattempo il virus, propagandosi velocemente, rammenta che finalmente il problema non sono più i poveri, i migranti, gli sfruttati, non gli spacciatori nigeriani, non gli zingari o gli accattoni, non i clochard o i meridionali. Non erano loro a rubare il posto all’ospedale, all’asilo, alle case popolari. Anzi, le misure restrittive si abbattono in maniera fortemente disuguale proprio su chi non gode di reti sociali, di ampi spazi e risorse personali. L’emergenza colpisce fortemente chi è più fragile: i detenuti, i centri di accoglienza, le famiglie dei ceti medio-bassi letteralmente stipate in alloggi al limite della claustrofobia.
L’universale del virus, ponendo ovunque il pericolo del contagio, finalmente libera i capri espiatori, i vecchi untori – in precedenza usati per coprire i vizi italici della corruzione, della cattiva gestione dello stato – dal fardello della colpa. Il virus mostra i tagli allo stato sociale costringendoci a scegliere tra chi salvare e chi abbandonare.
Dunque, la pandemia non solo pone la necessità di un forte stato sociale, l’importanza della coordinazione e dell’equilibrio tra le varie parti del paese nel sistema ospedaliero, nell’istruzione, ma ridicolizza trent’anni di politiche neoliberiste bipartisan, nonché buona parte della classe politica nata da Tangentopoli.
Come se non bastasse, poi, con una istantanea obsolescenza non programmata, rende irricevibile e anacronistico qualsiasi progetto di autonomia differenziata in salsa leghista o piddina; e infine riporta l’attenzione sui lavoratori (medici, poliziotti, cassieri, magazzinieri, rider, ecc.), – parola desueta, lo so, – costretti a lavorare ugualmente per non fermare i servizi e l’economia italiana, a rischio della loro salute e di quella dei familiari.
Insomma, un evento del genere invita a ripensare il mondo per una configurazione diversa. Sembra lo shock, la catastrofe messianica benjaminiana, l’accelerazione (o la brusca frenata?) della storia capace di contestare alla radice un sistema tecnocratico e un modello economico per vari e comprovati motivi criticato, ma mai realmente messo in discussione.
A questo punto, rimandando ai problemi sollevati da Agamben nell’intervento (https://ilmanifesto.it/lo-stato-deccezione-provocato-da-unemergenza-immotivata/) del 26 febbraio sul Manifesto, e poi alle puntuali osservazioni del collettivo Wu Ming nel loro Diario virale sulla pervasività del controllo statale sui cittadini, la creazione e l’utilizzo ad arte dello stato emergenziale (https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/03/diario-virale-3/), mi limito a sottolineare che il virus, parlando di questo nostro essere in comune nel mondo, mostra i limiti  del pantano politico italiano-europeo: di ogni discorso di solo impianto localistico, di sola impronta occidentale, o di qualsiasi politica che non sia proiettata in una sfera internazionalista, fatta di popoli e diritti umani inclusivi e estensibili.
La pandemia pone la questione di enormi passioni sopite, di utopie concrete, per troppo tempo messe da parte per la cupezza e il livore, per l’egoismo, l’indifferenza, le menzogne ereditate da questo trentennio. Ma se, in questo processo di elaborazione e risposta globale al virus, le destre europee svelano i tratti della loro inquietante natura, di solito nascosta dalla pavidità e dalla confusione del mondo progressista, il discorso del premier britannico Johnson, per fare un esempio, non solo risulta incredibilmente primonovecentesco, fondato su una concezione dello stato quasi machiavellica, frutto di una missione di dominio del mondo che sacrifica il ruolo del popolo per la grandezza della nazione; nondimeno riesce a negare il fatto che in uno stato democratico non esiste altro destino che il popolo, verrebbe da dire con Jean-Luc Nancy.
E il destino di un popolo è il popolo stesso nella sua continuità e nella costruzione di senso dell’esistenza. In democrazia non si tratta di destini imperiali, bensì di essere insieme agli altri come popolo, e non certo come moltitudini atomizzate da lasciare a se stesse.
Ebbene, il virus dirime anche questo: smaschera e costringe a scegliere tra due strade: la potenza delle nazioni, basata su una competizione internazionale senza freni né regole, che d’altronde ha caratterizzato il ‘900; la condivisione del globo a partire dal riconoscimento degli altri, dunque una nuova produzione di senso che investa la condivisione di questo spazio comune.
Il virus ha abbattuto le frontiere che i “sovranisti”, gli etnocentristi, ma anche l’imbarazzante finto progressismo rappresentato finora dal centro-sinistra a guida Pd, inventano di continuo basandosi su una versione dello stato nazionale superata dalla realtà pluralistica odierna. Così facendo, però, la pandemia reclama un nuovo nomos della terra: la ridiscussione di limiti, misure, confini, simboli, modelli. È, come dice Marco Revelli in un articolo per il Manifesto dell’11 marzo, (https://volerelaluna.it/controcanto/2020/03/11/in-medio-stat-virus/) “una visione del mondo da rovesciare”.
Il vero pericolo politico e sociale, deve essere chiaro, è quel mondo che nega la coesistenza all’altro e che si chiama e si è sempre chiamato, anche se larvato, truccato, rinominato, semplicemente Fascismo. Con esso, si negano non delle opinioni, ma un fatto: il diritto di co-esistere, proprio mentre l’integrazione e interconnessione globale degli esseri viventi realizzata da un modello tecnologico-economico, si riversa con violenza sul piano sociale, ecologico, e quindi di nuovo politico.
Ecco perché la versione neoliberista e sovranista di Boris Johnson, al di là del pragmatismo nichilista, non deve sorprendere: esprime sì uno stile britannico, ma anche il cortocircuito di uno stato che tutela l’interesse capitalista, sacrificando il bene comune, ovvero il suo stesso popolo.
L’auspicio finale è che lo slogan “Andrà tutto bene”, adoperato sui social come atto di resistenza e ottimismo dalla società civile italiana, non significhi che torneremo alla nostra cara disinformazione pubblica, o a distruggere ecosistemi, ad alzare muri e speronare navi gremite di disperati nel Mediterraneo per poi gioire della loro morte, che torneremo al razzismo diffuso, alle politiche di distruzione dello stato sociale, alla de-umanizzazione di poveri e diversi. Passato il virus, occorre un mondo realmente umano. Altrimenti non avremo imparato nulla dall’universale del virus. L’auspicio, insomma, è che vada e “andrà tutto bene”, per noi, ma anche per il resto del mondo.

© Sandro Abruzzese

5 risposte a “Sandro Abruzzese, Andrà tutto bene. A sinistra del coronavirus”

  1. “Altrimenti non avremo imparato nulla dall’universale del virus.”

    … e invece temo andrà proprio così. La storia non insegna un bel niente!

    (a parte questo, bel post.)

    "Mi piace"