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Davide Zizza, Ruah

Davide Zizza, Ruah. Prefazione di Enrico Testa
Edizioni Ensemble 2016

 

Ruah, psyché, respiro e alito, soffio vitale, Atem e Hauch: in principio, bereshit, era il soffio. Quello spirito «che aleggiava sulle acque» è percepito, raccolto e trasmesso da Davide Zizza in Ruah, e giunge, così, ai sensi destati alla parola.
«In principio fu il verso»: la solennità dello slancio, l’ardire del paragone offrono il braccio, nello stesso componimento dall’inizio tanto affermativo da sembrare perentorio, alla volontà di farsi da parte «per fare spazio», alla decisione di ritirarsi per vivere nel soffio divino.
Ruah, come ricorda Enrico Testa nella prefazione, è parola ebraica che racchiude più significati: soffio, vento, respiro, spirito. È spirito, aggiungo in riferimento alla raccolta di Davide Zizza,  che induce a cantare lodi anche nel tempo del dolore, e del dolore straziante, a cogliere il respiro e, come scriveva Paul Celan, anche la Atemwende, la svolta del respiro: «Dichtung: das kann eine Atemwende bedeuten» – così Celan, vale a dire: «Poesia: questo può significare una svolta del respiro».
Sul legame profondo tra respiro e poesia interviene, già dall’epigrafe e sempre dall’area di lingua tedesca, Rilke dei Sonetti a Orfeo: Respiro, tu invisibile poesia! (Atmen, du unsichtbares Gedicht!), a rendere ancora più chiara l’apertura a più costellazioni, a più dimensioni, a più universi disegnati da parole-luoghi (dal testo del componimento rilkiano di cui è riportato il primo verso: “spazio del mondo”, “contrappeso” “onda unica”, “mare crescente”, “venti”, “aria”. “curvatura e foglio delle parole”).
Cercare e ricostruire la parola (proprio come fa chi legge la Torah, qui evocata sin dal titolo della raccolta; ricostruire, quindi, come chi sempre interpreta), è impresa che può sfiancare, spezzare il respiro, annullarlo, perfino, in apnee nelle quali si affronta il rischio fatale, vale a dire che esso ricada nell’afasia, oppure nella mendacità o , ancora, nella totale insufficienza della parola del poeta-interprete.
E dunque, dopo In Principio e Ruah, è La chute, la terza delle cinque sezioni della raccolta (le altre due portano rispettivamente i nomi Calda stagione e Metapoetica), a farsi incontro a chi legge. La caduta – non solo cacciata dall’Eden, ma discesa agli inferi – diventa qui, tuttavia, occasione di scoperta, di conquista di una ‘visione dal basso’ che si pone come complementare alla tensione verso l’infinito.
Nonostante il rischio fatale, che si corre con consapevolezza e non con insensata temerarietà, c’è una tenacia della ricerca che non si ferma dinanzi ai battenti del mistero. Chi legge percepisce il frutto di questa provata tenacia.
Respiro e pausa e svolta si manifestano, con particolare risalto, nell’arte spirituale per eccellenza, la musica, che in Ruah oltrepassa ampiamente, in diversi componimenti, il semplice ruolo di sfondo e di cornice (La musica del BereshitChopin, l’insetto e Einstein; Pasqua; Winter Sunday). La musica detta il ritmo, invece, suggerisce la cadenza, imprime ‘il’ soffio della creazione e, allo stesso tempo, orchestra la testimonianza di fedeltà a un altro mistero, quello dell’umano: «Non svelare l’umano, accennalo./ Non tradire l’umano, accarezzalo./ Affascinalo. Amalo.» (Fascinazione).

© Anna Maria Curci

 

«In principio fu il verso»,
il respiro creatore, il ritirarsi di Dio
alle sponde dell’infinito.
Farsi da parte per fare spazio.
Così se ti osservo e respiro il tuo nome,
così senza prendere spazio
mi ritiro per vivere nel tuo soffio.

 

La musica del Bereshit

Prima fu silenzio. Il tempo non scandiva nessun ragtime umano.
Non c’era la nota che dava l’attacco per il concerto.

C’era solo un principio senza violino. Senza pianoforte.
Senza shofar. Era solo un caotico silenzio: di morte.

Poi un soffio. Un lungo soffio portò l’amore.
Una lunga nota profumata portò l’ordine e la chiara geometria.

Il canto degli alberi e dei campi allietò il cuore.
Cominciò ad esistere dal nulla lo spartito. Il decagramma.

Tutto fu. Nella musica della Creazione.

 

Alla voce epifania

Rappresa la memoria come una macchia,
il ricordo avanza nel corridoio,
ipotalamo sotterraneo
che dal meridiano
raggiunge il soggiorno, la lampada, gli odori –
assembramento familiare
che la mente riconosce;
rileggo Rilke, la sua orfica sostanza
si sovrappone al silente
ossimoro di un giorno piovasco;
l’udito accompagna la percezione,
nell’angolo del dagherrotipo
gli occhi intercettano il vuoto.

La memoria è una lenta fuga,
parafrasi del tempo
alla voce epifania in lettera minuscola.

 

Fascinazione

Definisci – e hai già spezzato le ali.
Lascia che sia il velo, la patina
che giunge dal non-luogo:
l’occhio intuisce proprio quando non vede.
Non indagare la mente, il cuore,
il tempo, i giorni; lascia gli oracoli,
non sta a noi dirli – la poesia
non è scuola di scienziati.
Non svelare l’umano, accennalo.
Non tradire l’umano, accarezzalo.
Affascinalo. Amalo.

4 risposte a “Davide Zizza, Ruah”

  1. Trovo particolarmente riuscito questo componimento di Davide Zizza. L’esito estetico finale, passandolo per il mio gusto estetico, è assai alto sul piano linguistico-emotivo, frutto innegabile di:
    – un consapevole lavoro sulla forma-poesia;
    – una efficace rarefazione di aggettivi, trappole mortali dei poeti;
    – un sapiente impiego dei distici;
    – una frammentazione dei versi in cui tuttavia, con l’adozione dei punti fermi, ciascuno di essi possiede una propria autonoma compiutezza.

    Questo poeta sposta la poesia verso nuovi paradigmi estetici, verso nuove basi ontologiche.
    gino rago

    Davide Zizza
    La musica del Bereshit

    Prima fu silenzio. Il tempo non scandiva nessun ragtime umano.
    Non c’era la nota che dava l’attacco per il concerto.

    C’era solo un principio senza violino. Senza pianoforte.
    Senza shofar. Era solo un caotico silenzio: di morte.

    Poi un soffio. Un lungo soffio portò l’amore.
    Una lunga nota profumata portò l’ordine e la chiara geometria.

    Il canto degli alberi e dei campi allietò il cuore.
    Cominciò ad esistere dal nulla lo spartito. Il decagramma.

    Tutto fu. Nella musica della Creazione.

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  2. Gino Rago
    Il silenzio nei versi di Davide Zizza, tra Mandel’stam e Kafka

    E’ un verso folgorante l’attacco de La musica di Bereshit di Davide Zizza:

    “Prima fu silenzio”

    E in me colloco perciò questo poeta accanto sia al Franz Kafka dell’apoftegma:

    ” Le sirene hanno un’arma ancora più terribile del canto: il loro silenzio ”

    sia all’Osip Mandel’stam di

    Silentium

    “Lei non è dal suo mare ancora nata,
    lei è musica ed insieme parola;

    è il legame che mai si potrà sciogliere
    fra tutto ciò che vive nel creato[…]

    […]
    Acquistino le mie labbra, recuperino
    la mutezza lontana, primordiale,

    simile a una nota di cristallo
    che vibra, fin dal suo nascere, pura!”

    Il silenzio per Mandel’stam, per Kafka, per Zizza come una sorta di ‘brodo uterino’ che anticipa la poesia, che esiste prima della poesia, poesia che è un suono di parola futura.
    Il poeta porta al mondo questa parola, già tutta presente nel brodo uterino del silenzio primordiale, della mutezza primordiale. E la parola del poeta si fa, se è poesia, una pura nota di cristallo che vibra già mandelstamianamente fin dal suo nascere…

    Prima fu il silenzio in Davide Zizza è già una ferma dichiarazione di poetica, una intenzione d’arte che il poeta di Crotone, ed è questa la sua cifra che attrae, sa tradurre in versi.

    (Gino Rago)

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    • Gentilissimo Gino, molte grazie per gli alti accostamenti che, davvero, non so se li merito. In particolare sento molto vicino il tema del silenzio pre-poetico a cui fai riferimento.
      Grazie ancora per la lettura

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