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Marco Russo: poesie da “Il dono di avere vene”

 

Un albero fa mi strattonasti
forte alla radice del tronco.
Ora sono salice versato
nell’arte dell’arrendersi.
E sverno a terra, frugo
fra gli indumenti di neve
il meno impietoso verso le forme
filiformi delle vene.

 

Ho fatto il pieno delle assoluzioni
e ora ti confino fra gli inoffensivi,
ti disinnesco da tempesta a solletico.
Non risalirai la bocca dello stomaco
per ritentare la via del torace.
Morirai nella sede dei pugni
dove imperversasti in nugoli di farfalle.
Sotto la luce interdetta dello sterno
ti dibatterai falena e stella cadaverica.

 

Arrivo con le foglie
e la mia terra mi accoglie
con un vento basso che spazza
le soglie delle case.
Dopo le sfuriate dei mesi caldi
ora vedo ripiegarsi le cime,
flettersi sfinito il mio costato
tutto decorato di intenti infranti.

 

Marco Russo, Il dono di avere vene, Controluna, 2018

 

Marco Russo (Sorrento, 1974) insegna Filosofia nei licei. Sue liriche sono apparse sulla rivista «Gradiva» e in antologie di poesia contemporanea. Ha tradotto e curato il romanzo francese del 1605 L’isola degli ermafroditi (2007), e pubblicato la raccolta di versi Qualcosa ha ancora più fame (2013).

2 risposte a “Marco Russo: poesie da “Il dono di avere vene””

  1. Questo bisogno impellente di traslare, emigrare virtualmente nell’arboreo, in questo caso, mi pare sia la direzione di metempsicosi collettiva, ed individuale, verso cui l’occidente è , in maniera coatta ed irrefrenabile, costretto ad orientarsi. Passata l’epoca della generazione dei fiori coi rispettivi santoni indiani, ecco il passaggio inesorabile, per spirito ed economia, verso quell’oriente fitto fitto di persone che ci ingloba perché produce, dunque comanda. Il tutto avviene sotto i nostri occhi, e menti, completamente sbigottiti per la rivoluzionaria, inevitabile contingenza. Il problema è quello di sopravvivere in qualche maniera, ovvero adeguarci silenziosamente per, finalmente, scomparire alla svelta con il massimo del dolore.

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