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I poeti della domenica #274: Gianmario Lucini, Lettera da un Paese di morti

 

Lettera da un Paese di morti

Voglio concludere di notte
questo lungo viaggio dentro lʼuomo
perché nero è il suo colore e la madre
luna sua unica speranza
sepolta nel cuore di giaguaro.

Scrivo da un Paese Paradiso
spaccato in due dal cemento
segnato dallʼincuria e dal tormento
inflitto a ogni forma di bellezza;

qui dove lʼora suona con la campana e la sirena
e Dio eterizzato sʼaddormenta
dal fetore dei rifiuti a cielo aperto.

Di notte leviamo dai covili
un sordido rancore, dilaga
nel fosco di campagne stralunate
si mescola al veleno delle mafie
allʼarroganza dei forti e alle
legalizzate porcherie dʼun sistema
corrotto dai piedi alla cervice,
duro fino al cuore

e il mattino trova noi tutti un poco
più velenosi di ieri, più scontenti
noi che vogliamo tutto avere senza la fatica dellʼingegno,
maestri dellʼinsipido senza cultura,

noi che non sappiamo più la terra il murmure dellʼacqua,
il profumo del vento sullʼoceano dei prati
siamo un popolo che grufola indeciso nel suo passato e nel futuro
così che scorre il presente e ci ingolfa
in una dialettica improbabile
fra ciò che siamo e che dovremmo essere

e ride il mondo e ci sbeffeggia:
“ecco gli eredi del grande Rinascimento,
il popolo dʼartisti che vive in cicaleccio
mentre muore la sua grande storia
in una sabba di merda e di cemento
svenduto dai corrotti e dai ruffiani;

popolo di pezzenti e teatranti, di ricchi avidi e spietati
popolo indaffarato di scrocconi e lestofanti
piazzaioli imboniti e imbonitori
gente che tutto vuole senza nulla dare
pronta a prostituirsi per unʼesistenza
fatta di niente e “gratta e vinci”.

Non vale dimetterti se ci sei dentro
non vale neppure indignarsi e urlare
chiedendo in piazza il pane e la vendetta
agli dèi della chiacchiera,

non vale dopo gli anni del silenzio
al torpore di promesse invereconde
non vale abbandonare il carro dei perdenti
per dire “non nel mio nome”, dopo
lʼassenso omertoso, il dileggio
per chi ancora osava un pensiero,
per chi pagava lʼignavia del vostro
stolido privato
con il travaglio dʼuna vita schedata;

voi che avete accettato ogni stortura
col mugugno dʼosteria, voi che col voto
avete avvallato ogni ricatto
ogni mafia e illegale potere,
tirando a campare, in attesa
che una briciola cadesse dal desco dei forti
per potervi accapigliare come cani, sgomitare
sognando in cuor vostro vacche grasse
speranze di spreco al di là di ogni spreco ingozzarvi
di ogni inutile oggetto e strasazi
volere ancora e ancora volere

e poi vomitare sul paesaggio
i vostri immani rifiuti, i veleni;

voi che alimentate lʼinflazione e la rapina
della finanza col vostro stesso danaro
voi che corrompete con scarpette e magliette
cibi, bevande, giochi insanguinati
i vostri figli – un mondo
dʼoggetti che grondano sangue
di Paesi lontani, di donne e bambini
falcidiati dalla vostra rapina -, voi
che amate la durezza del cemento
e disprezzate la tenerezza dei marmi antichi,

avete costruito un Paese insopportabile
dal quale si può soltanto evadere.

Per questo invocate morte da ogni cellula
del vostro corpo, da ogni pensiero. Per questo
vi appare nemico ogni essere
un pericolo il possibile,
un azzardo il cambiamento: voi

vi concedete come puttane antiche
e disperate, ad ogni lestofante,
popolo bastardo e inemendabile,
che apri lʼali ad ogni vento fascista
ad ogni duce che ti inchiodi, ad ogni
smania presidenzialista
– perché non sai parlare col nemico, vedere
dentro lʼuomo che ti sta dinnanzi –.

È per questo che la notte ci tormenta
da madre diviene matrigna e la luna
da vergine si fa puttana.

È per questo che il mio
cuore gronda sangue e rimorso
per non aver imbracciato il mitra
arrugginito di mio padre partigiano,
di non esser calato in piazza
puntarvelo contro e dire

“altolà folla di assassini
molecole impazzite del sistema
questo mitra è innocuo ma prometto
che sparerà terribili parole
per farvi tutti morire di vergogna,

voi che soltanto bramate
di tornare al mondo di ieri
dove si viveva senza pensare
dove col furore integralista
dileggiaste lʼarte
perché lʼarte vuole un mondo vero. Io

mai più sarò nuvola in calzoni*
e dunque sbranatemi poiché
al poeta non rimane che lʼinsulto
come estrema parola dʼamore.

Cascata delle Marmore
notte del 6-7 maggio 2013
da: Gianmario Lucini, Hybris. Prefazione di Stefano Guglielmin, CFR Edizioni 2014, pp. 121-124.
* riferimento al titolo del noto poemetto di Vladimir Majakovskij

3 risposte a “I poeti della domenica #274: Gianmario Lucini, Lettera da un Paese di morti”

  1. Concordo con Annamaria e ringrazio ancora una volta gli amici di Poetarum Silva che continuano a fare di questo loro/nostro spazio un luogo di resistenza e di libertà. La voce di Gianmario si rivela di giorno in giorno voce di sapienza e di profezia: immagino quanti appelli avrebbe lanciato in questi mesi per riuscire a stampare libri che accogliessero la scrittura di coloro che non accettano la deriva fascista in corso.

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    • Grazie, Annamaria e Antonio, per i vostri interventi. Sì, la scelta è voluta: accoglienza e riconoscenza senza confini per la scrittura e l’azione sapiente e profetica di Gianmario Lucini. Ogni giorno di più conferma alla mente e al cuore che il suo nome racchiuda e trasmetta tanti significati di vera umanità: amico, poeta che sapeva mettere insieme sete e impegno e indignazione nella “giusta collera”, innamorato della natura e dello studio, operatore di pace,

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