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proSabato: Raffaele Calvanese, Can’t find a better man

foto di ©Emanuela Vh. Bonetti

Can’t find a better man

Avete mai fatto caso a quante persone prima, durante e dopo un concerto passano il tempo cercando di incontrarsi?
Probabilmente perché è questo che fa la musica, fa incontrare persone. L’estate del 2018 era il momento per incontrarsi, con Eddie, con Stone, Mike, Jeff e con tante altre persone che vedevo molto meno di quanto avrei voluto.
Luca, per esempio, doveva vederli già qualche anno fa, all’epoca frequentava una ragazza per cui moriva. Comprò i biglietto per andare a Venezia e pochi giorni dopo lei lo lasciò, lui la prese così male che non ebbe il coraggio di andarci per conto suo. Tra l’altro la stronza si è sposata pochi giorni prima del concerto di Roma, Luca aveva già il biglietto ed ora ben altri problemi. La sua compagna attuale era stata licenziata qualche settimana prima per essere riassunta con un nuovo contratto, perdendo così tutte le ferie maturate. Volevano esserci a tutti i costi, e per farlo toccava fare una vera e propria traversata in auto. Io avevo il biglietto di curva, da solo, mentre Sergio quello del prato. La missione, impossibile, di Sergio era stringere la mano ad Eddie. Era il suo Dio, lo adorava e non perdeva nessun concerto dei Pearl Jam quando erano da queste parti. Era già stato a  Milano ed a Padova e voleva chiudere il cerchio a Roma insieme a noi.  Diceva che era per via della scommessa di stringere la mano a Vedder. Inutile provare a distoglierlo da quell’idea malsana.
Io, dal canto mio, avevo già perso il biglietto una volta, comprarlo con larghissimo anticipo non era stata una grande idea. Poi dopo aver messo casa sottosopra l’avevo ritrovato tra due bottiglie di vino rosso tenute da parte per le occasioni speciali. I Pearl Jam me li aveva fatti scoprire Lorenzo, giocava a calcetto con una maglietta con su scritto “Eddie” invece che il suo nome. La cosa mi incuriosì e così gli chiesi la spiegazione. La risposta furono Ten, Vs., Vitalogy fino ad arrivare a Yeld, il disco che ho amato di più per questioni di età. Lo ascoltavo in continuazione. All’inizio su una cassetta che mi aveva registrato lo stesso Lorenzo, poi sul cd che comprai poco dopo, oggi col vinile che ho preso appena ho avuto un giradischi decente per farlo suonare a dovere.
Con Luca e Sergio alle superiori avevamo provato a mettere su una piccola band, una delle cose più banali per gli adolescenti della nostra età, una storia come se ne ascoltano a migliaia. Poi, proprio come dice la canzone di quell’altro che si fa i selfie su facebook, “Uno su mille ce la fa” e quell’uno non eravamo noi tre, che tenemmo in piedi la band più come passatempo che per andare da qualche parte nella nostra vita. Passavamo i pomeriggi nel garage di Sergio a suonare, fumare e a chiacchierare. Di tanto in tanto veniva ad ascoltarci qualche amico. Avevamo molte canzoni dei Pearl Jam tra le nostre cover, Elderly Woman, Daughter, Nothingman, Better Man. Ero poco esperto con gli assoli e quindi cercavamo di fare quelle più semplici. Negli anni novanta la musica era una questione più personale, da vivere da soli o se andava bene con qualche amico, ascoltando i dischi insieme. Lorenzo abitava nel mio palazzo un paio di piani più su, era di qualche anno più grande di me e ogni giorno aveva un progetto nuovo per svoltare. Quando scoprì che avevo comprato uno dei primi masterizzatori mise in piedi nella mia stanza una centrale operativa per smistare compilation personalizzate a mezza città. Mi portava i suoi dischi, ne aveva centinaia, li comprava senza badare a spese, alcuni li sceglieva per la copertina altri per amore. Quelli dei Pearl jam li aveva tutti, come anche quello dei Mad Season, degli Alice In Chains e dei Guns n Roses. Il rock degli anni 90 per lui non aveva segreti, anche se i Pearl Jam erano qualcosa di diverso, qualcosa di personale. Quel masterizzatore, a ripensarci ora, fu l’inizio del cambiamento del modo di ascoltare musica.
A Roma ci volevo essere per incontrare principalmente Lorenzo. Mi sarei incontrato anche con Luca e Sergio, e con chi sa quante altre persone di certo. Luca aveva un tragitto abbastanza tortuoso davanti a sé. Traversata Caserta Benevento, Benevento Roma e stesso giro al ritorno per andare a prendere Eleonora che usciva dal lavoro un po’ prima per poter esserci anche lei.
Io ero già sul posto, a Roma, lavorando in un Albergo alla reception, il meglio che avevo potuto trovare in città dopo la chiusura della società dove avevo cominciato a lavorare qualche anno prima. Passavo le giornate tra un check-in e un check-out fantasticando di pubblicare il mio libro. Unica magra consolazione dal resto delle schifezze che affrontavo da mattina a sera. Appuntamento sotto l’obelisco intorno alle cinque, così ci eravamo detti con Sergio e Luca.
La giornata comincia presto, panini, birre in fresco, borsa termica, sigarette. Luca in macchina aveva un best of dei Paearl Jam preparato per l’occasione, la sua guida a scatti lasciava presagire un bel viaggio della speranza. L’ansia di non trovare parcheggio e di restare imbottigliati nel traffico del ritorno poi non erano di grande aiuto. Sergio invece sarebbe sceso in treno, avrebbe dormito da me e poi sarebbe tornato a Milano. Appuntamento sotto l’obelisco fuori lo stadio.  Così ci eravamo detti.
C’è stato questo tempo in cui le chitarre elettriche contavano più delle prese per ricaricare i cellulari, anni che sembrano dietro l’angolo e che invece scivolano sempre più giù, sempre più lontani che pensavi di poterli afferrare in qualsiasi momento e invece diventano sempre più sfumati sullo sfondo. Sergio aveva trovato lavoro in un’azienda pubblicitaria, cosa strana a Milano, Luca faceva l’avvocato. I nostri compagni di scuola avevano tutti dei lavori più o meno decenti, erano tutti sposati o con figli, solo noi tre eravamo rimasti ancora a briglia sciolta. Luca avrebbe anche voluto sposarsi ma Eleonora lavorava troppo lontano, poi riusciva a stento a far quadrare i loro impegni per andare a vedere un concerto, figuriamoci progettare seriamente una vita insieme.
Alle cinque sotto l’obelisco c’ero solo io, la solita inutile puntualità. Dopo una ventina di minuti mi squilla il cellulare, era Luca, stava passando fuori lo stadio in cerca di parcheggio.-Salta su al volo che mi accompagni.
Ci spingiamo fino a Ponte Milvio, lo superiamo, ci buttiamo in una traversa secondaria, vediamo delle strisce bianche in mezzo alla carreggiata con alcune auto parcheggiate.
– Lasciala qui.
– Sicuro che non mi fanno la multa?
– Sicura è solo la morte qui a Roma.
Luca si lascia convincere, lasciamo la macchina a dieci minuti di cammino dallo Stadio. Saluto Eleonora che vedo con uno sguardo assente. La sua espressione mi spiazza, Luca mi spiega che a lavoro ha avuto la solita giornata schifosa. Intanto squilla di nuovo il telefono, è Sergio:
– Dove siete?
– Arriviamo, abbiamo appena parcheggiato.

Finalmente ci si vede, dopo anni, ognuno in giro perso dentro i fatti suoi, correndo dietro ad una scadenza, ad una partenza, ad una persona. Perché alla fine è questo che fa la musica, fa incontrare le persone. I Pearl Jam li aspettavamo da un sacco di tempo. Erano stati a Roma vent’anni prima ma noi non eravamo ancora pronti, non avevamo rimpianti abbastanza grandi da portarci dietro, non avevamo sonore sconfitte per correre a Roma ed urlare la nostra mediocrità al cielo. Non eravamo ancora persi nelle loro canzoni, siamo arrivati tardi e ora invece eravamo in anticipo per fortuna. Una birra, due, le solite chiacchiere poi ognuno nel suo settore. Sergio aveva il Pit, Luce ed Eleonora la tribuna, io la curva. Ci saremmo rivisti a fine concerto.
Il mio posto era tra le prime file laterali, vedevo il palco da posizione angolata ma ero vicino alle transenne. Noto subito un addetto alla security che pare il sosia di Mitch di BayWatch con la sola differenza che però parlava napoletano. Impediva a chiunque di sostare troppo tempo alla transenna, inoltre non faceva accedere nessuno alla scala che separava un settore dall’altro essendo questa usata come uscita d’emergenza. Non avrei mai creduto che tante persone invece di seguire un concerto andassero a chiedere a quelli della security di poter scavalcare da un settore all’altro, di poter saltare nel prato o cose simili.
Appena il tramonto cominciò a fare capolino ecco Eddie e soci sul palco, l’inizio fu un coltello piantato in pieno petto, Release e Small town, poi i Pink Floyd con l’impressione che sarebbero potuti saltare fuori di nuovo. Subito dopo Even flow, come farsi prendere a morsi dalle chitarre affilatissime e dalla voce sempre graffiante di Eddie, sembrava non finire mai, sembrava poterti colpire ancora e ancora.
Quando ho terminato le superiori ho legato parecchio con Lorenzo. Sua madre era cieca, lui doveva stare molto tempo a casa per aiutarla. Suo padre era morto tempo fa per una brutta malattia e sul lavoro lui aveva preso il suo posto, per questo quando non lavorava aveva una persona che faceva compagnia a sua madre, poi un paio di pomeriggi a settimana potevamo anche uscire. Aveva la macchina quando io ancora non avevo la patente, grazie a lui ho fatto cose che avrebbero richiesto anni di attesa. I miei lo conoscevano e non mi facevano domande. Passavamo i pomeriggi a guardarci i live dei Guns n Roses, ad ascoltare i dischi dei Pearl Jam. Lorenzo conosceva anche Luca e Sergio e spesso anche loro uscivano con noi.
Fuori lo stadio ognuno di noi aveva chiesto una canzone speciale ad Eddie, io aspettavo Better Man, Sergio Daughter, Luca invece voleva a tutti costi Just Breathe. È una canzone speciale, così ripeteva continuamente. Aveva uno sguardo teso Luca, non capivo perché, ma in fondo era sempre stato un tipo ansioso e nessuno ci faceva particolarmente caso.
I Pearl Jam sono stati probabilmente una delle migliori rock band del mondo senza per questo però essrere citati in cima alla lista di qualche classifica, sarà per la faccia pulita o per il fatto che non si sono mai sciolti davvero. Forse la loro storia è stata troppo lineare rispetto a band come i Nirvana. Ma in qualche modo la loro musica più che delle classifiche ha fatto parte della vita delle persone che li amavano, le loro canzoni avevano una dimensione personale. La loro musica è stata un’autostrada che comincia negli anni 90 ed arriva fino ad oggi con tantissime stazioni di servizio a cui se ci fermiamo possiamo incontrare noi stessi e le persone che abbiamo amato insieme a quelle che abbiamo odiato. Ci troviamo la nostra parte reazionaria persa chi sa dove, gli amori andati male e quelli dimostratisi banali.
La musica dei Pearl Jam si è attaccata ad ognuno di noi ed ha resistito fino ad oggi anche se nel tempo abbiamo cominciato ad ascoltare altro, anche se le chitarre elettriche sono scomparse dietro le tastiere di un sintetizzatore. Eddie Vedder e soci continuano ad urlare dentro di noi anche se spesso non riusciamo ad ascoltarli. A Roma quella musica è tornata ad farsi sentire ed abbiamo urlato anche noi, eravamo tantissimi, da ogni parte del mondo. Perché gruppi come i Pearl Jam fanno incontrare persone lontanissime tra loro, abbattono i confini, annullano le frontiere. Anche questo fa la musica, fa incontrare persone diverse.
Un concerto come quello di Roma è un modo per stare bene in un posto, come l’Italia, dove si stava male, dove tutto intorno era solo odio e risentimento. Un posto dove le persone si sentivano stufe per definizione e per quello giustificavano i loro impulsi peggiori.
Wishlist, la lista dei desideri era infinita. Uno almeno l’avevo realizzato, essere a Roma ad urlare in mezzo ad altre persone sole come me, perché nonostante siano passati tanti anni la musica continua ad essere una questione molto personale, specialmente quella dei Pearl Jam. Canzone dopo canzone più di tutti incontravo me stesso, negli anni che sono passati, al tavolo di un bar con gli amici, in camera mia a strimpellare la chitarra, a scrivere poesie, sotto casa di una mia ex, ubriaco seduto su un marciapiede. Ripenso a quei pomeriggi passati nel garage di Sergio, a quelle giornate in giro in macchina con Lorenzo, ripenso a Stefania che ho amato più di tutte le ragazze che ho avuto, forse perché era la prima, quella che credevo potesse essere per la vita. La musica dei Pearl Jam si è insinuata nelle cuciture delle magliette dei miei amici, nei capelli delle ragazze a cui ho voluto bene, nei tappi delle birre che ho stappato in tutto questo tempo, sui plettri che ho perduto andando in giro a suonare. Rpenso ai miei genitori, alle volte che li ho delusi, alle volte in cui non ho seguito i loro consigli, alle volte in cui ho provato a camminare con le mie gambe e sono caduto. La musica dei Pearl Jam è, in definitiva, la mia vita, se ad ogni canzone è come se avessi davanti agli occhi una fotografia.
Lighting bolt, un fulmine a ciel sereno, se è vero che la band di Seattle non sforna un disco all’altezza del loro nome da un po’ di anni. Poi le cover, poi i racconti di Eddie che prova a parlare in italiano come ogni volte che suonano nel nostro paese. Il ricordo di un viaggio, l’accoglienza, la voglia di tenere aperta la mente ed il cuore. Il nostro cuore fatto già a pezzi che non so se resisterà fino a fine concerto. Il concerto che continua e MItch di Baywatch davanti a me col suo bel da fare cercando di respingere tutti quelli che provano a scavalcare verso il prato. Il seggiolino dove sono costretto cominciava a bruciarmi sotto il culo. Non potevo passare il concerto della vita seduto a tambureggiare sulle ginocchia, era un maledetto spreco di tempo e di vita, ma Mitch non voleva sentire ragioni. Gli americani vicino a me sembravano dei personaggi da karaoke mezzi imbalsamati, non avevano minimamente intenzione di alzarsi nemmeno sotto tortura.
Intanto La band era di nuovo sul palco per il primo bis, Sleeping by myself, l’atmosfera d’improvviso intima, come a dire che stava per succedere qualcosa e infatti subito dopo Eddie partiva con Just Breathe, solo contro tutti, voce e chitarra contro sessantamila anime disperate. Si vide un po’ di casino in tribuna, un sacco di gente che si accalcava in un punto coi cellulari, ma il settore era troppo lontano per capire cosa stesse succedendo, continuammo a cantare, continuammo a cantare tutti insieme a Eddie.
Vedder avrebbe potuto cantare qualsiasi cosa, saremmo stati sempre lì a fare il coro insieme a lui, non c’è storia, non c’è mai stata storia anche se sono passati anni e noi non siamo più quegli degli anni 90. Anche se ora corriamo dietro alle nostre vite troppo distrattamente per renderci conto che non abbiamo nemmeno più tempo per sognare. Lo capisco lì, in quello stadio, tra una canzone e l’altra, tra una foto sbiadita della mia vita e l’altra. I ricordi che salivano a galla come boe sparse alla rinfusa in quel mare apparentemente calmo che era la mia vita allora. Lo stadio illuminato dai nostri cellulari, e tutti insieme a cantare Imagine, forse la nostre solitudini, quelle di più di sessantamila persone non sono così lontane l’una dall’altra, forse non eravamo soli come pensavamo, forse qualcosa di diverso lo si poteva ancora sognare. Di sicuro lo potevamo cantare lì, in quel momento, tutti insieme. Improvvisamente il posto in cui vivevamo ci appariva meno buio, anche se in mezzo a noi molti pensavano che le frontiere fossero giuste, utili, che blindarle fosse necessario, che in fondo le persone potevano anche non incontrarsi. Fu un momento utile per capire, per fare chiarezza sul tempo che passava e che anche se chi ascoltava i Pearl Jam ora è cambiato forse può prendersi qualche minuto per andare a cercare la parte più umana di se stesso in qualche punto della strada fatta insieme a quelle canzoni. Apriamo i porti, apriamo le menti, teniamo aperti i cuori e facciamo caso al tempo che passa, perché giorno dopo giorno cambiamo tutti, e rischiamo di non riconoscere noi stessi agli angoli della strada. Perché la musica fa anche questo, ci fa incontrare noi stessi, persi dentro le nostre vite, dentro gli anni passati, dentro i sogni svaniti e le illusioni fuggite chi sa dove, la musica riavvolge il nastro, anche nell’epoca del digitale, la musica è sempre qualcosa che puoi toccare, anche quando non la vedi. La musica durante Imagine la potevi sentire addosso, come il peso di quegli anni rancorosi, ed ogni tanto si ha solo bisogno di buttare fuori quel rancore e quella rabbia, di guardare il cielo che troppo spesso diamo per scontato.
Da lì in poi non ci furono più argini, il tempo sembrò fermarsi, diventammo immortali, non si può morire mentre si è felici come in quella sera.
Riconosciamo subito l’attacco della chitarra, Daughter, penso immediatamente a Sergio sotto al palco, starà saltando addosso a chiunque nel tentativo di dare il cinque ad Eddie, la curva Nord comincia a sembrare troppo stretta per tutti, Mitch ci guarda in cagnesco come a dire “non ci provate neppure”. Ma la musica va più forte dei timori e della disciplina, come i ricordi, non c’è educazione sentimentale che tenga, bisogna lasciarli andare, come bisogna lasciare andare il passato e le persone, trattenendo solo quello che vale la pena ricordare. Mentre tutto questo viene a galla è il momento di Jeremy, cominciano a scendere persone dalle gradinate e Mitch fatica a tenerli tutti al loro posto, arriva anche un altro della security, provano a tenere sgombra la scalinata d’emergenza mentre tutti in coro urliamo

Jeremy spoke in class todayyyyyy

Prima che l’onda emotiva di Jeremy sia sopita parte Better Man, non riesco più a trattenermi, vedo Mitch parlare con l’ennesimo che tenta di andare nel settore prato, mi voltano le spalle, anche l’altro della security è distratto, non ci penso due volte e salto sulla transenna, due passi e sono al cancello che ci divide dal prato, è più semplice di quanto pensi, nella confusione generale passo alle spalle di un altro addetto alla sicurezza e sono nel prato accompagnato dal boato di chi ha assistito alla mia invasione di campo. Giusto in tempo per urlare con tutta la forza che ho in corpo

Can’t find a better man
Can’t find a better man

Quell’urlo era per chi mi aveva lasciato andare, per chi non aveva capito chi ero. Quell’urlo era per Lorenzo che è andato via troppo presto, subito dopo sua madre, anche lui troppo giovane come il padre. Perché la musica è questo che fa, fa incontrare le persone e io ero lì per incontrare di nuovo Lorenzo, per ricordarmi la strada fatta insieme e quella fatta da solo, per ricordarmi chi ero e chi volevo diventare. Lorenzo, che mi aveva fatto scoprire i Pearl Jam, che in quelle canzoni aveva trovato un po’ di respiro da tutte le sofferenze che gli aveva dato la vita e che grazie a lui che io volevo essere un uomo migliore, perché in qualche modo più fortunato, in qualche modo in debito con chi mi aveva voluto bene. Better Man era anche, soprattutto, per lui.
L’ultimo bis fu il colpo di grazia, Confortably Numb, per urlare e godere con gli assolo di Mike McReady steso sulla sua chitarra in perfetta simbiosi col suono che voleva emettesse e con noi che ondeggiavamo come un mare aperto, sotto la luna piena che grondava speranze. Due amici davanti a me si abbracciavano e cantavano insieme Black tutta d’un fiato, con gli occhiali da sole, stretti in un abbraccio che doveva ricordare gli anni passati, la loro adolescenza dipinta di nero, che a riguardarla ora sembra volta via alla velocità di quegli anni luce che riesci ad afferrare giusto un attimo, il tempo di un ritornello. Il tempo di incontrare di nuovo la parte migliore di te, quella che ha sognato dietro un disco, magari uno dei Pearl Jam.
Poi vomitati fuori dallo stadio, stremati da più di tre ore di musica e di vita, di nuovo appuntamento all’obelisco mentre Alive era ancora nelle orecchie, pronti a ritornare alle nostre esistenze. Vidi arrivare Luca ed Eleonora, lei aveva un volto raggiante, completamente trasformato rispetto a prima.
Non fece in tempo ad avvicinarsi e a guardarmi che urlò
– Ha chiesto di sposarmi, ci sposiamo.
Fu un momento, nella mia mente il cerchio si chiuse in un attimo. Ecco cos’era quel movimento in tribuna, Luca aveva aspettato la sua canzone per chieder la mano di Eleonora, ecco perché era così nervoso. Non l’aveva detto a nessuno, e sperava di riuscire nel suo intento con la colonna sonora perfetta, Just Breathe. Mentre ci abbracciavamo urlando e ridendo per la notizia ci raggiunse anche Sergio, gli spiegammo la cosa, cominciò ad urlare anche lui, era totalmente sudato e stravolto dal concerto sotto al palco, non era riuscito a dare la mano ad Eddie e sembrava deluso come un bambino a cui si promette un regalo. Ci credeva solo lui che la scommessa potesse vincerla, ma l’entusiasmo del momento lo convinse a rivelarci il vero motivo per cui aveva voluto vederci. Ci disse che si era licenziato, stava per mettersi in proprio provando a fare il grande salto, voleva la benedizione della sua divinità, voleva una pacca sulla spalla da Eddie per cominciare la sua nuova avventura. Messa così la cosa poteva avere anche un senso, insano, come tutte le cose insane nella vita di Sergio, ma ce l’aveva. Sulla strada verso Ponte Milvio passando davanti ad una pizzeria la nostra attenzione venne catturata da un furgoncino nero che accostò quasi venendoci addosso. Scese un tipo trafelato fiondandosi dentro. Sul cruscotto vedemmo un cartello “RIDER PEARL JAM”. Dio santo, era il rider della band che stava prendendo la pizza per Eddie e gli altri. Sentì Sergio afferrarmi la spalla, mi girai e lo fissai negli occhi spiritati.
– Non mi aspettare in piedi.
Mi disse solo questo prima di aprire il portellone laterale del furgone e intrufolarsi dentro. Qualche secondo dopo il tizio del furgone montò di nuovo a bordo poggiando una decina di pizze fumanti di fianco a lui. Vedemmo il furgone sgommare via con Sergio dentro all’insaputa dell’autista.
Accompagnai Luca ed Eleonora alla macchina, ci salutammo abbracciandoci. Eravamo stremati, ognuno felice a modo suo. I Pearl Jam ci avevano accompagnato negli anni migliori della nostra vita e quel concerto per tutti noi non significò solo un ritorno al passato ma fu un modo per rilanciare sul nostro futuro.
Avete mai fatto caso a quante persone durante un concerto passano il tempo cercando di incontrarsi?
Io si, perché alla fine è questo che fa la musica, ci fa incontrare, ci fa abbattere muri, accorcia le distanze, unisce le vite, fissa ricordi e momenti. La musica ci fa rincontrare noi stessi. L’estate in cui andammo a vedere i Pearl Jam il futuro sembrava molto peggio del nostro passato, ma noi eravamo lì per andare avanti, ognuno a modo proprio, ognuno con le sue forze. Io con quelle poche forze rimaste decisi che era il momento di provare a pubblicare quel libro che avevo nel cassetto da un po’, quello che avevo dedicato a Lorenzo.
Qualche giorno dopo ricevetti una fotografia di Sergio, era abbracciato ad Eddie Vedder.

©Raffaele Calvanese

foto di ©Emanuela Vh. Bonetti

3 risposte a “proSabato: Raffaele Calvanese, Can’t find a better man”

  1. Nonostante sia nato nel ‘92 e i Pearl Jam mi accompagnino in ogni mio giorno da qualche anno soltanto, non posso che ritrovarmi in molte delle cose che hai detto. È il racconto di un’esperienza meravigliosa, con tutto quello che ci sta dietro. Grazie per averlo condiviso.

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