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Versi e vinili #1: Francesco Filia, Parole per la resa

Ci sono raccolte di poesia i cui versi accompagnano gesti, eventi, passi di una vita. Ci sono dischi che dispiegano la loro vocazione a farsi parte della colonna sonora di una vita. Due affermazioni, queste, talmente evidenti da apparire banali. Banale, tuttavia, non è la combinazione, seppure tutta soggettiva e rielaborata da chi riceve e recepisce, di una determinata raccolta di poesia e di un determinato album musicale, l’associazione – da qui il nome di questa rubrica – di “versi e vinili”. La prima puntata della nuova rubrica di Poetarum Silva è dedicata all’incontro tra Parole per la resa, la raccolta più recente di Francesco Filia, e Etica Epica Etnica Pathos, l’album che i CCCP-Fedeli alla linea pubblicarono nel 1990. (Anna Maria Curci)

Versi e vinili #1:
Francesco Filia, Parole per la resa ¦ CCCP, Epica Etica Etnica Pathos

La storia dell’incontro tra Parole per la resa di Francesco Filia e Etica Epica Etnica Pathos nasce da una prima intuizione, che si è manifestata con urgenza, perfino con incontrollata irruenza, e che ha trovato successivamente conferma in letture e ascolti rinnovati. Una prima intuizione che si è imposta come colonna sonora fin dalla prima lettura, una sera, allorché mi sono arresa alla bellezza dolorosa di un libro che aspettavo da tempo, da quando, per la precisione, avevo visto quasi delinearsi lo sviluppo “del cammino e della resa” nella precedente raccolta di Francesco Filia, La zona rossa e nei testi della plaquette L’inizio rimasto, poi divenuti la V sezione di questo volume.
Epica, etica, etnica, pathos, mi sono detta quella sera, con «il canto oltre il destino», dolente eppure tenace, che faceva battere le tempie e premeva sulle corde vocali. Proprio all’album del 1990 che i CCCP-Fedeli alla linea firmarono con Gianni Maroccolo, proprio nelle tracce del vinile che si proponeva di riportare «tutto lo sporco degli anni ’90 con la tecnologia degli anni ’70», proprio in quelle canzoni, i cui autori, nella quasi totalità delle tracce, rispondono ai nomi di Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Gianni Maroccolo e Francesco Magnelli, proprio in quella tappa musicale che fu una fine e fu un inizio e fu una resa e fu una ripartenza ho trovato il legame fortissimo con le singole parole e l’intera architettura di amore, di resa, di strazio e di resistenza della raccolta di Francesco Filia.
Provo allora a entrare nel vivo di questo incontro e a dare una risposta ad alcuni “perché”.
Perché “epica”? Perché il respiro delle «parole per la resa» di Francesco Filia è un respiro ampio, perché esso abbraccia più generazioni, non solo quella alla quale anagraficamente appartiene l’autore, ma anche quella di chi sta scrivendo qui e ora e, dunque, quella degli autori dell’album del 1990. È un respiro che si slancia solido e temerario dalla cosmogonia al minimo sussultare di minuscola vita, che fa i conti con «Lo sgomento per una primordiale cellula/ che duplica se stessa per intero in eterno».
Perché “etica”? Perché “dobbiamo”, sì, «Dobbiamo consegnare le parole per la resa», senza dimenticare amplessi e slanci della nostra adolescenza (penso a Baby blue dell’album) e tentando, appunto, «il canto oltre il destino», «il gesto oltre il destino» (e qui il legame con Campestre dell’album è, se possibile, ancora più evidente). In questo senso vanno esplicitamente i testi che compongono la prima sezione della raccolta, che ha il titolo della raccolta stessa: Parole per la resa.
Perché “etnica”? Perché la poesia di Parole per la resa è ‘satura’ della «gloria del disteso mezzogiorno” e rende quelle «tre del pomeriggio», la greve e gravida controra, la finta indolente, con gli accenti che giungono tanto più veri, quanto più legati da un lato a una tradizione poetica ben definita e vissuta (l’eredità montaliana è manifesta e dichiarata) e dall’altro a una parola poetica ricombinata, ricollocata e ricreata in un tessuto compositivo originale, come avveniva, per esempio, in Aghia Sophia dell’album dei CCCP (dove già quel “Tedio domenicale” dell’attacco lancia una cima alla poesia).
Perché “pathos”? Perché la raccolta è tutta attraversata dal rovello del domandare, del non fermarsi, da «un cavo disperato cercare»; eppure essa è anche, inequivocabilmente, nel segno dell’amore, dell’eros con Carmen – e se volessimo lanciarci, noi famelici e “ipocriti lettori” nell’esplorazione del nome, avremmo pane per i denti: carmen canto Carmelo mistica clausura. Perché, ancora, è poesia che narra di un abbandono sull’orlo dello strapiombo, del fondersi e del perdersi, nel duettare tra «l’azzurro cupo» e «l’immenso che travolge», come fanno, in alternanza, i trenta testi della II sezione, Diario di una vacanza.
La terza delle cinque sezioni, L’ordine, si presenta, ancora una volta, come molteplice portatore di segni – comando, cosmos, gabbia. Si apre con A ≠ B, rievocazione di una «lancinante assenza», come, per molti versi, lo era Depressione caspica dell’album Epica Etica Etnica Pathos.
La poesia di Parole per la resa è – come testimonia nella IV sezione, Memorie del vuoto, la frequenza di verbi come “stridere”, “spezzarsi”, “staccarsi”, “sbriciolarsi”, “scavare”, “implodere”, “amputare”, “divorare”, “spazzare”, “pietrificare” – poesia (mi si perdoni l’autocitazione) dopo la scarnatura. In Disposizioni Erich Fried scrisse di parole che “squartano” il poeta. Francesco Filia non indietreggia di fronte a questo rischio tanto fatale quanto intimamente collegato all’atto poetico. Le sue «parole per la resa» sono tutt’altro che arrendevoli.

© Anna Maria Curci

* * *

Intorno alla natura delle cose non diremo parola
di troppo, dimoreremo nelle radici
di un ulivo secolare, nella terra penetrata e madre
nel fruscio verde-matto di questa stagione.
Ci ritroveranno nel silenzio di un frutto
caduto. Il cerchio dei giorni macina limpido olio
e morchia.

 

*
Dobbiamo consegnare le parole della resa.
È l’ultimo compito rimastoci, nessun
testamento, ma un relitto di carta
lasciato marcire nell’acqua buia
di queste ore. Vederlo sprofondare
l’inchiostro diluirsi, slabbrarsi le parole
macchia informe sul bianco del tempo.

 

*
Tornano spellati e avvolti in un’aura di sale e luce
(prede si dibattono nella rete a tracolla ancora vive)
fantasmi nelle tenebre imminenti delle otto di sera
nei loro occhi una gioia feroce, l’adolescenza,
la certezza dei giorni futuri, uno sterminio.

 

*
VI – L’immenso che ci travolge

Eco – notte – la spiaggia ghiaia e ciottoli
solcano, netti, la pelle. La schiena inarca
il desiderio che ci abita, attende
tra costellazioni e il vortice
di un cielo lontano e adesso sappiamo
che questo contare e ricontare le stelle,
misurarle con le dita a sestante, un gioco non è.
Il gonfiarsi cupo delle onde. L’enorme
abbraccio degli abissi. La vita
primordiale che li abita, noi due lì giù
annegati obliati avvinghiati, cibo
per l’eterno. Il buio abita
il mare, il firmamento oltre le stelle, il solo,
il vero, l’unico buio. La voragine del cielo.
La furia cobalto di questa marea. L’immenso che ci travolge.

 

*
Ricominciamo da questa sottrazione
di gesti, da una carezza accennata,
dall’odore di resina, dalla lontananza
di due visi che si sfiorano. L’ombra
che ci separa è la giustizia richiesta
la sentenza che ci rende veri, finiti
fissati in una goccia d’ambra.

 

*
Si sbriciola tra le mani
un intero giorno un’intera storia
di orari imparati a memoria e ustioni.
Con lo sguardo amputato dal suo orizzonte
osservo la lesione della terra che si apre,
che si spacca che corre
verso un punto remoto, verso un vuoto
che divora ogni cosa e se stesso.

 

Francesco Filia, Parole per la resa, CartaCanta editore 2017

CCCP – Epica Etica Etnica Pathos

2 risposte a “Versi e vinili #1: Francesco Filia, Parole per la resa”

  1. […] Corollario di questo quasi neoleopardiano oscillare fra resa a restituzione, questa stanza e l’immenso, l’abisso e la sinderesi, è l’impiego di verbi come “stridere”, “spezzarsi”, “staccarsi”, “sbriciolarsi”, “scavare”, “implodere”, “amputare”, “divorare”, “spazzare”, “pietrificare”. Sono verbi che toccano il nodo essenziale dello status ambiguo del poeta, delineandolo con ruvidezza, sia nell’impasto fonico dissonante e aspro, sia nel senso, correlato al semantema dello squartamento, ed evocano, com altri hanno già avuto modo di rilevare, il tema della parola dilaniante, di cui alle Lebensschatten di Erich Fried (Ein Dichter/ist einer/den Worte/noch halbwegs/zusammenfügen//wenn er Glück hat /Wenn er Unglück hat/reißen die Worte/ihn auseinander “Un poeta / è uno / che le parole / grosso modo / assemblano / se ha fortuna / Se è sfortunato / le parole / lo squartano”). […]

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