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Dante e l’Olocausto: sul perché Adorno aveva torto

In questi giorni di memoria non solo occasionale ma davvero commossa e trepida (anche per eventi recenti che paiono sgorgati proprio da quel passato), mi è capitato di ripensare per contrasto alla celebre sentenza di Adorno, per il quale scrivere poesia dopo Auschwitz era “un atto di barbarie”, e al limite “impossibile” (Critica della cultura e società, 1949). Uomini e opere, a proposito e a prescindere da Auschwitz, hanno già del tutto smentito questa idea, che lo stesso Adorno in parte ritrattò. Se quindi riprendo una questione abbondantemente dibattuta, e in fin dei conti chiusa (scrivere dopo Auschwitz non solo è possibile e lecito, ma necessario), lo faccio per tentare ancora una volta di capire in che modo il linguaggio si è organizzato attorno a quell’indicibile che è stato l’Olocausto, riuscendo a simbolizzarlo e in qualche modo umanizzarlo. Quel grande poeta del trauma che fu Paul Celan, che con Adorno intrattenne un lungo carteggio, replicò con i suoi versi alla supposta impossibilità della scrittura, trovando proprio in questi una ragione di sopravvivenza (si uccise poi a cinquant’anni, e lì Adorno dovette correggersi: non la poesia è vietata dopo Auschwitz, ma la serenità). La provocazione del filosofo, per quanto coinvolta e dolorosa, rimase insomma una provocazione, con la quale però vale la pena di confrontarsi ancora. C’è infatti qualcos’altro che si accompagna al valore di testimonianza e resistenza della letteratura contro l’orrore, un’evidenza emotiva raramente esplicitata perché in fondo percepita come incongrua e fuori luogo, e cioè il piacere che perfino quei testi possono dare e danno a noi lettori, un godimento connaturato a quella stessa tremenda e nuova consapevolezza. D’altra parte fu già detto tanti secoli fa: “[a]nche di ciò che ci dà pena vedere nella realtà godiamo a contemplare la perfetta riproduzione, come le immagini delle belve più odiose e dei cadaveri. La causa, anche di ciò, è che imparare è un grandissimo piacere non solo per i filosofi ma anche per tutti gli altri” (Aristotele, Poetica, Laterza 2006, trad. di G. Paduano, p. 7). Va da sé che Aristotele non poteva prevedere l’Olocausto, e che un cadavere astratto non vale Auschwitz, così come i morti di tutte le guerre della Storia non pesano sulla nostra coscienza e sul nostro immaginario come i morti nei campi di concentramento. In Auschwitz c’è qualcosa di più, qualcosa che va oltre. E tuttavia quel piacere conoscitivo lo sentiamo anche per la poesia nata dai lager, e senz’altro per la poesia di Celan, proviene infatti “dal senso euforico che deriva dal provare a dare un senso anche all’orrore, a penetrarlo e articolarlo, non cedendogli l’ultima parola” (S. Brugnolo, “Introduzione”, in La scrittura e il mondo. Teorie letterarie del Novecento, Carocci 2016, p. 47). Detto in questi termini, si capisce che il piacere in questione non ha niente di amorale e cinico, arriva bensì dal profondo, da una rivelazione sofferta del mondo e dell’umano.

Anche per il grande libro di Primo Levi, Se questo è un uomo, non possiamo separare la testimonianza penosa dal capolavoro. Non sbagliava quindi Calvino a ravvisare nell’opera “pagine di autentica potenza narrativa”, evidenziandone così fin da subito gli aspetti letterari e piacevoli. C’è quasi un capitolo intero dedicato a Dante, o meglio alla fatica che il narratore fa per ricordare il canto di Ulisse e recitarlo durante la corvée per il rancio a Jean, studente alsaziano del Kommando Chimico. Di rima in rima, aiutandosi con il francese, percependo come nuove le curve della sintassi dantesca (“…«misi me» non è «je me mis», è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto…”, Einaudi 2014, p. 110), arriva quindi fino in fondo al canto, mentre intorno già si annuncia la zuppa del giorno: a quel mare “sopra noi rinchiuso”, che suona come un rispecchiamento abissale dell’intera storia. Pochi giorni fa un amico e collega scriveva su Facebook proprio di questo accanimento nel ricordare versi quando si è circondati dalla morte e dalla follia del lager, cogliendo credo in pieno la posta in gioco: “[p]erché parlare dell’Ulisse di Dante ad Auschwitz è forse uno dei gesti di resistenza all’assurdo più belli che io abbia mai letto, un gesto di permanenza dell’umano nell’inumano” (Gianluca Crisci, post del 27/01/2018). Questo di fatto fa Levi anche col suo libro, chiamando Dante a garante dell’impresa: parlare dell’orrore con i mezzi della poesia, impedendo quindi all’inumano di avere l’ultima parola. La scelta di Dante come riferimento sembra quasi obbligata: due inferni a confronto, uno letterario e l’altro storico, uno divino e l’altro umano, entrambi caratterizzati da un ordine implacabile. Quello dei tedeschi però, in assenza di teologia e di colpe da scontare, aggiunge alla disumanità i tratti di un’“assurda precisione” (p. 8), una burocrazia che procede spietatamente per inerzia. Levi sottolinea d’altronde, sul finire dell’opera e a campo ormai evacuato per l’arrivo dei russi, l’obbedienza ostinata e ottusa da parte dei nazisti rimasti a regole e ruoli prestabiliti: “[v]erso mezzogiorno un maresciallo delle SS fece il giro delle baracche. Nominò in ognuna un capo-baracca scegliendolo fra i non-ebrei rimasti, e dispose che fosse immediatamente fatto un elenco dei malati, distinti in ebrei e non-ebrei. La cosa pareva chiara. Nessuno si stupì che i tedeschi conservassero fino all’ultimo il loro amore nazionale per le classificazioni” (p. 153). All’altro capo del libro, appena arrivati ad Auschwitz, i prigionieri percepiscono invece l’eternità mostruosa del lager, la circolarità senza tempo di ogni dannazione: “[o]ggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente” (p. 14); “il futuro ci stava davanti grigio e inarticolato, come una barriera invincibile. Per noi, la storia si era fermata” (p. 114). Ma l’inferno della Commedia è molto più di una suggestione generalizzata, guida la scrittura di Levi e compare letteralmente anche al di fuori del capitolo sull’Ulisse: lo stesso titolo dell’opera è in fondo la deriva tragica del fatti non foste. Alla vigilia della deportazione il destino di tutti, compresi i bambini, ci viene detto in una chiusura di periodo che ha tutta la terribilità delle ellissi dantesche: “[i]l commissario italiano dispose dunque che tutti i servizi continuassero a funzionare fino all’annunzio definitivo; la cucina rimase perciò in efficienza, le corvées di pulizia lavorarono come di consueto, e perfino i maestri e i professori della piccola scuola tennero lezione a sera, come ogni giorno. Ma ai bambini quella sera non fu assegnato compito” (p. 7, corsivo mio). Per spiegare la legge del campo, dove tutto è proibito, vengono poi citati altri due versi (“Qui non ha luogo il Santo Volto,/ qui si nuota altrimenti che nel Serchio!”), urlati nel poema da un diavolo beffardo a proposito della pece bollente in cui sono immersi i barattieri. Conosciamo a quel punto la truppa di diavoli guidati da Malacoda, i loro modi scomposti fino al peto di Barbariccia, la zuffa tra Alichino e Calcabrina che finiscono per invischiarsi nella stessa pece dei dannati. Così quando il narratore paragona a questi maldestri sgherri infernali il suo odiato Kapo (“Alex vola gli scalini: ha le scarpe di cuoio perché non è ebreo, è leggero sui piedi come i diavoli di Malebolge”, p. 104), possiamo forse immaginare in lui una segreta e perfino divertita rivalsa.

Questo è dunque Dante dentro il lager, la poesia venuta di fatto in soccorso, non inutilmente. Poi negli anni Levi replicò all’esagerazione di Adorno con l’esagerazione opposta, sostenendo che dopo Auschwitz non si potesse fare più poesia se non su Auschwitz stesso. Di certo la letteratura ha continuato a esistere, talvolta parlando di quello, ed è stato bene così. Casomai per Levi qualcos’altro doveva forse andare in crisi, ma è un’altra complicatissima storia (“Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza”, p. 155). Sul valore della parola rispetto all’orrore, invece, dice meglio di tutti Steinlauf, amico del narratore, suo compagno di prigionia, che si ostina a lavarsi in qualche modo e lo rimprovera di non fare altrettanto. Il raccontarsi e il lavarsi diventano quasi la stessa cosa, un continuo ricondurre l’uomo alla propria umanità. Potrebbe sembrare in altri contesti un paragone un po’ svilente per la scrittura, qui ne costituisce il più formidabile degli elogi: “appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza […] Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca” (p. 33).

© Andrea Accardi

 

 

4 risposte a “Dante e l’Olocausto: sul perché Adorno aveva torto”

  1. Indubbiamente un bel articolo. Adorno sarebbe stato d’accordo. Cita, come quasi sempre, solo una parte del passo da Kulurkritik und Gesellschaft. La citica che si era scatenata in Germania, quasi sempre, citava volutamente solo la parte che facilmente si poteva capire male. Poi, questa critica è stato formulato solo dopo molto tempo, con precisi motivi; 1949, in Germania, nessuno, neanche gli grandi intellettuali del momento, voleva sentire parlare di Auschwitz.Solo Adorno, o quasi, alzò la voce.

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    • Gentile Michael, grazie per la lettura. Quella di Adorno continua a sembrarmi una provocazione un po’ sterile e addirittura retorica (per non dire stupida), e quando anni fa presi il libro per cercare intorno anche altro non lo trovai. Ma lei sembra saperne di più sul dibattito di quegli anni tra gli intellettuali tedeschi, e forse lo sfondo potrebbe in effetti dare senso a quella sentenza, che isolatamente non regge (ma un intellettuale e uno scrittore non dovrebbe prevedere anche gli effetti futuri delle proprie frasi più arrischiate?). Le piacerebbe scrivere un pezzo nel merito per questo sito? Se sì, lo aspettiamo volentieri!

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