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Davide Orecchio, Mio padre la rivoluzione

Davide Orecchio, Mio padre la rivoluzione, minimum fax, 2017

Quando un libro mi conquista è facile che mi resti in testa per settimane, che alcune frasi mi si ricompongano nella mente mentre sto facendo qualunque altra cosa, un po’ come accade con le belle poesie. Stai camminando e ti tornano nitidi e perfetti due versi di Montale, una chiusa di Strand, un attacco di Pagliarani. Se devo scrivere di un libro bello comincio una sorta di rielaborazione involontaria della storia dentro la mia testa: ripenso ad alcuni passaggi, sottolineo mentalmente alcune parole, entro nei dettagli e scelgo le cose da dire. Nel caso di Mio padre la rivoluzione di Davide Orecchio ho passato alcuni giorni a sentire dentro di me il ritmo delle frasi, il suono che fanno le parole andando da una all’altra, rivedendo alcune scene, i volti dei personaggi, le loro storie vere rielaborate nella versione di Orecchio, l’unica che ormai per me contava, e senza penna né carta ho cominciato a scrivere. Il pezzo sui racconti di Davide Orecchio è nato davanti all’Ospedale SS. Giovanni e Paolo di Venezia, mentre passavo del buon tempo. C’era il sole, la gente passeggiava, c’era un mercatino, non troppi turisti; c’erano la mia compagna e i miei cani, era ottobre naturalmente, e balzavano fuori dal canale poco distante, come sputate fuori da un riflesso le storie di Davide Orecchio.

David Foster Wallace riferendosi ai racconti di Barthelme, in particolare, diceva più o meno di avvertire il cambio di marcia, il preciso istante in cui la storia ti prende e si manifesta diversa da un racconto normale, quello scatto lo chiamava “click”. Ho letto tutti i libri di Davide Orecchio e il click l’ho sempre sentito, potrei descrivere il momento in cui l’ho sentito in Città distrutte (Gaffi, 2011) o l’altro indimenticabile in Stati di Grazia (Il Saggiatore, 2014) in Mio padre la rivoluzione il click è arrivato dopo poche frasi, è arrivato a questo punto:

E col suo cenno versatile, onnipotente, l’anno cinquantasei – biancospino figlio del diciassette, nipote dell’anno cinque, postero del  settecent’ottantanove, grande russo di aspetto, il volto una steppa, l’occhio destro il Mar Caspio, l’occhio sinistro il Mar Nero, il naso schietto e acuto come il monte Iremel – apre il cancello, anzi neppure lo apre, lo trapassa, lo è, per esibire un giardino dove sta un vecchio.

Il click e il ritmo di Orecchio, ritmo che da subito ti avvolge, siamo nel primo racconto, e tu non puoi far altro che cominciare a ondeggiare e a fare avanti e indietro nel tempo, siamo nel cinquantasei ma siamo nel diciassette, siamo in tutta la storia come in un sogno, e forse il sogno è l’unica dimensione in cui la storia, la storia della Rivoluzione russa, certo, ma tutta la storia si può e si deve raccontare. Tutto è stato talmente vero che stentiamo ancora a crederci, tutte le lacrime e l’umanità, tutte le morti e gli schemi dei dittatori, i cancelli divelti, i palazzi assaltati, i forconi e il grano, le falci e i martelli, i treni. Le rivoluzioni si fanno con i treni, sui treni, le rivoluzioni sono un treno, e vanno lungo le rotaie, sono fili d’erba e acciaio, sono i bambini e sono le madri, sono gli uomini che non tornano.

A questo mi ha fatto pensare il ritmo di Davide Orecchio già dalle prime pagine, la storia è stata scritta ma Orecchio la racconta, la racconterà, e la grazia, sì, la grazia della sua prosa ci ricorderà che da quella rivoluzione veniamo, da tutte le rivoluzioni che ci hanno preceduto dipendiamo. Ogni donna o uomo che si è liberato, che ha immaginato un futuro migliore lo ha fatto anche per me che riempio il carrello controvoglia al supermercato, o per mia sorella che mi racconta cosa suo figlio ha studiato. Ogni dittatore ha usurpato anche noi, ogni illusione perduta è una rinuncia che grava dalla nascita su di noi.

Questo è il mio treno ed è il treno della rivoluzione, io appartengo alla rivoluzione, il treno corre dove la rivoluzione è in pericolo, da sud a nord, da est a ovest, è come un continuo giro del mondo, io difendo la rivoluzione, con mia sorella abbiamo costruito tre bambole, due le abbiamo vestite di cotone e garza, la terza di canapa, la tata ha cucito i loro vestiti mentre nostra madre aiutava nostro padre nei campi, e insieme controllavano il lavoro dei contadini, ma ora non posso mostrarvi le bambole, c’è la rivoluzione. Sapete, io vengo da un regno di pecore e grano, Janovka è la mia patria di steppe senza limiti, mugicchi sconfinati, sono cresciuto con loro negli oceani d’erba della Russia del sud.

Sono dodici i racconti di questo libro, sono tutti molto diversi tra loro, ma tutti tengono insieme fantasia e potenza degli archivi. La documentazione di cui si è avvalso Orecchio è sterminata proprio come la Russia, così come pare non avere fine la sua capacità di tessere una trama che si nutra di fatti storici e che li reinventi facendone narrativa pura. Passiamo dalla prima persona alla terza, dal tempo verbale passato a quello presente, il prima e dopo vanno sempre insieme, è il passo delle rivoluzioni. Troveremo un racconto fatto solo di citazioni, uno in cui parla Trockij, che sarà sempre presente. Trockij che è stato il treno, i binario, il ferroviere, che non dormiva mai, che andava ovunque, che  parlava con tutti, che li tirava per la giacca. Trockij in tutti i racconti. E Lenin, naturalmente adulto e bambino; e Stalin, e Hitler. Verrà un racconto che proprio come un locomotore farà avanti e indietro tra Mosca e Berlino, dove con arguzia, capacità di riflessione, pazienza e ironia, Orecchio dirà del tedesco e dirà del russo, e dirà del popolo di come ciò che sembra in un modo diventa in un altro, che la fascinazione può nascondere, che l’oppressione avvolge piano piano, dirà di come si possa sovrapporre l’uno all’altro con la prosa con la fantasia, di come però la storia non la si possa inventare. Ecco perché dobbiamo ricordarci che questi sono racconti, e ce lo ricorda lo scrittore romano, citando le fonti, spiegando – dove è necessario – in fondo ai racconti – le ragioni delle scelte, o come scriveva Carver “da dove vengono le storie”.

E le storie sono sempre uomini e donne, sono i bambini. La storia è Togliatti, la storia è un giornalista siciliano,la storia sono libri inventati sopra manuali esistiti, la storia è Gianni Rodari, così com’èra, dolce com’èra, curioso com’era, che viaggia sul Volga, che ha il problema della fantasia, scrive Orecchio.

Ma il poeta Rodari, che non sa imbrigliare le deviazioni della sua fantasia, candidamente si chiede: «a proposito, non manca chi dice e scrive in italiano “la Volga”, al femminile», e ricorda che «in effetti la famosa canzone russa dice “madre Volga”, non “padre Volga”», ma «e meglio che noi diciamo “il Volga”, al maschile, come del resto diciamo “il Piave”, per colpa di un’altra famosa canzone in cui “il Piave mormoro”, mentre tutti sanno – anzi, non lo sa nessuno – che sulle sue rive si dice “la Piave”»; dunque che sia il Volga, consiglia Gianni Rodari e chiude il suo primo pensiero non leninista.

Rodari dunque, e altri poeti, e bambini che raccontano, e racconti in forma di lettere, e libri veri citati e libri inventati, e Marx ed Engles, e sconosciuti, nomi dal suono russo, nomi da steppa. C’è Bob Dylan, che qui è Zimmer Man e trova dei volumi, ed è la storia russa che gli arma la chitarra, che gli indirizza la vita. E di nuovo la musica, a questo ci riporta la narrativa di Davide Orecchio.

Mi pare di poter affermare che la scrittura di Davide Orecchio già così fuori dal comune nei libri precedenti, soprattutto in Stati di grazia, che uno dei libri italiani che amo di più, in Mio padre la rivoluzione si compia maggiormente, mostrandoci nuovi modi per farci appassionare alla storia, mille modi per poterla raccontare, ricordandoci però che i fatti sono fatti, le cronache sono cronache e non possono essere modificate; si può stare su un confine, in perfetto equilibrio, tra finzione e realtà, tra memoria e invenzione. Si può generare una nuova commozione sopra una commozione più grande, già avvenuta. Si possono mostrare le macerie sotto una luce diversa. Si può, attraverso un nuovo racconto, mostrare un vecchio errore. Si può insegnare, di nuovo, che ogni rivoluzione è una storia d’amore. Tutto questo lo si può fare con la penna affondata nella scienza, con l’inchiostro magico che solo i grandi scrittori hanno.

[…] voi volete la pace?; e noi urlammo che la vogliamo. Ma non potremo mai averla, la pace, con questo governo, incalza il bambino Lenin e ci spiega Per terminare la guerra occorre che termini il capitale, e l’imperialismo con lui, vedete noi dobbiamo passare alla seconda fase della rivoluzione, capite noi dobbiamo prendere il potere dalla borghesia, poi faremo la pace, allora compagni faremo cosi?; e noi rispondemmo che faremo cosi.

 

© Gianni Montieri

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