
“E io intanto parlo con voi”, è il risultato di una chiacchierata che Anna Maria Curci ed io abbiamo fatto con Anna Maria Carpi; molti sono i temi trattati e gli spunti interessanti, è stato bello e divertente, speriamo che lo sia anche per voi. Grazie. (Gianni Montieri)
*
D: Cara Anna Maria, tu sei nata a Milano, e a Milano vivi. La città è molto cambiata negli ultimi anni: qual è il cambiamento più sensibile, a tuo avviso? E cosa, secondo te, Milano ha perso o cosa non ritrovi più della “tua Milano”?
R: Sono nata a Milano da un’emiliana e da un toscano (figlio di un’elbana e di un irlandese adottato un secolo e mezzo fa da dei Carpi di Lucca). Ho sempre abitato dove abito tuttora, in questa casa del quartiere Magenta che conserva il suo volto borghese di primo ‘900. Qui sono ogni volta rientrata dai miei giovanili soggiorni di studio all’estero e poi dai decenni durante i quali, sia pure pendolando, ho insegnato alle università di Macerata, di Bonn e di Venezia. La “mia Milano”? Sono di fatto solo alcune vie che potrei indicare una per una, tutte entro piazzale Baracca e piazza Cadorna, e la mia via che, parallela ai treni della Stazione Nord, sbocca sui primi alberi del mio amato Parco. La città è cambiata? Lo constato quando vado a piedi da Cairoli a S. Babila, e molto oltre non ho voglia di andare. Salvo delle visite al nuovo centro di Porta Nuova che è mirabile, vedi il grattacielo dell’Unicredit, ma che mi sembra appartenere a un continente del futuro. Già la parola “grattacielo” non suona più attuale.
D: Cosa nasconde e cosa mostra il cuore dei milanesi?
R: Il cuore dei milanesi? Nella città degli affari? Come ben si sa, pochi a Milano sono nativi milanesi, e ora meno che mai. A parte i limitati commerci degli africani, a colpirci oggi è la presenza di quelli che chiamiamo per comodità i “cinesi”. Ma questo è oggi il mondo, e da noi di nativi ora ci sono solo i digitali, uguali ovunque. E altra novità: anche fra sconosciuti non digitali ci si chiama tutti per nome. Il tu, il tu della paura di restare soli?
D: Per il tuo lavoro a Ca’ Foscari hai fatto per molti anni la spola tra Venezia e Milano, luoghi molto diversi tra loro, quanto di queste due città ha influenzato la tua scrittura? E quanto ha contato, invece, il tuo viaggiare?
R: Ho ambientato il mio primo romanzo, Racconto di gioia e di nebbia, a Venezia. Ho molto amato Venezia negli anni ’80 e vi ho comprato casa. Ma se sogno, sogno il nord, l’inverno, il maltempo. Altri miei scenari successivi, dovuti ai miei viaggi, sono: l’Olanda, dove ho avuto una lunga amicizia, Mosca, dove nella mia passione per il russo sono stata più volte, una cittadina inglese dove studiavo la lingua, e Bonn, Berlino, la Germania. Milano ritorna nell’autobiografico Principe scarlatto. Ma la mia scrittura è più fatta di personaggi che di luoghi. E la natura? Qui cito una mia recente poesia: «Non ti fermi a guardare?/ Sì ma per qualche istante,/ è così bello/ che diventa un tormento./La natura!/ Lo so che io non c’entro./ Io non sono natura». Forse per questo le mie modeste donazioni vanno alla difesa del pianeta, dall’Artide agli uccelli al leopardo delle nevi.
D: Veniamo alle poesie, alle tue «piccole arroganti», che cosa ti consentono di raccontare? Quanto conta la capacità di accelerare che consente il verso?
R: La poesia. Pretendere di dire in breve è certo un’arroganza. Ma se riesce, l’effetto supera ogni lungo dire in prosa. Solo che il materiale emotivo dev’essere imbrigliato dalla logica, ossia la logica deve controllare i nessi fra le fuoriuscite. I nessi vengono dal profondo, sono più seri dei momentanei arbitrii, e sono ciò che può poi far dire ai lettori: è quello che sento anch’io.
D: I tuoi testi sono da sempre molto musicali, non ti piace rinunciare alla metrica e non rinunci mai al ritmo, è questa l’unica strada possibile?
R: No, non rinuncio a una certa metrica: le rime hanno un effetto semplificatorio, se vuoi comico, e si può farne a meno. Ma non del ritmo. Da me si fonda su settenario, doppio settenario ed endecasillabo. Molto tradizionale. Certo che non è l’unica strada possibile, io uso anche il verso libero, però il ritmo svolge forse una delle più antiche funzioni della poesia, quella di farci sentire che siamo tutt’uno.
D: Non hai mai fatto mistero di amare Celan e Caproni, potresti dirci brevemente che cosa ti piace della loro poesia?
R: Di Celan amo il freddo e lo slancio metafisico, di Caproni la mano calda e il suo stringere il reale.
D: Uno dei temi ricorrenti nella tua poetica è quello della ricerca degli altri: cercarli e sentirli indispensabili. È ancora forte in te questo sentire?
R: La ricerca degli altri ovvero il desiderio di comunicazione: no, non mi venuto meno. E se fantastico su come vorrei morire, è di un gruppo di amici riuniti a cena che dopo la cena e i reciproci brindisi si suicidano insieme. Sono certa che Dio, se c’è, e io non ho mai smesso di sperarlo, non possa non comprendere chi a un certo punto non regge al male di vivere.
D: Una cosa molto apprezzata della tua scrittura è la capacità di raccontare il mondo, magari, descrivendo la tua scrivania, o quello che vedi dalla finestra di casa; ritieni ancora che si possa raccontare tutto partendo da una piccola cosa, una cosa che si conosca molto bene?
R: Nessuno lo sa ma io per vari anni ho disegnato, disegnato dal vero, a matita e a china, con una spiccata tendenza alla caricatura. Sono una visiva, ma non ero abbastanza cattiva e hanno poi prevalso la simpatia, lo stupore, il desiderio di cui dicevamo. Sì, scrivere è descrivere – e perché si descrive, se non per salvare anche una piccola cosa da cui si è partiti?
D: Negli ultimi tuoi libri, diciamo da Quando avrò tempo in poi, è diventato molto presente un altro tema, anzi, per essere più precisi, una domanda, che potremmo sintetizzare con: Cosa c’è dopo? Per cui non una riflessione sulla morte, ma sulle possibilità, sul fatto che tutto possa esaurirsi con la fine delle nostre vite o meno. Potremmo dire che ti chiedi se tutto questo abbia un senso?
R: Ci sono tanti che a domandargli se si pongano l’interrogativo di “un dopo” rispondono con un netto no. Io è solo quando concludo che sono da buttare che non m’importa più del dopo e nemmeno se ci sia Dio o no, ma nei momenti in cui credo in me stessa mi torna Dio e con Dio il rifiuto della morte. Ciò che mi lascia perplessa è che il perno di tanta meditazione sia il mio io. Come giustificarmi?
D: Quando avrò tempo, dicevamo, e quanto ne sprechiamo?
R: Nella globalizzazione il tempo è diventato un vero dramma. Tutti assillati, tutti sovraccarichi. Proliferare della burocrazia in ogni nostra minima relazione pubblica, mezzi di comunicazione che consentono d’instaurare sempre nuovi fulminei legami virtuali. Io spero sempre in un’improvvisa reazione contro questa smania. Qui è lo spreco. Solo i momenti di solitudine sono fertili, solo questi poi condivisibili – ma sensatamente.
D: Come definiresti il rapporto tra la tua scrittura e le tue letture, in particolare di autrici e autori di lingua tedesca da te frequentati come persone di famiglia, e dunque amati e talvolta, perché no, cordialmente detestati, ma pur sempre ineludibili?
R: Le mie relazioni con autori di lingua tedesca hanno avuto per centro la traduzione. Ho fatto sempre amicizia coi viventi che ho tradotto, tutti poeti, perché traduco solo poesia, ad esempio con Durs Grünbein e Michael Krüger. Adoro Gotffried Benn, ma è morto nel ’56 e peraltro dubito che gli sarei andata a genio e quanto al remoto Kleist l’ho anche odiato, anche a causa dei suoi esaltati apologeti.
D: Mi affascina il rincorrersi di poesia e prosa nella tua scrittura e le confessioni, contenute soprattutto ne Il principe scarlatto, circa l’aspirazione all’opera in prosa, quasi una fantastica “opera al nero”, alla quale si affianca la poesia, avvertito come presenza minore ancorché costante, una sorta di ‘gatto domestico’. L’impressione è quella di tensione e dinamismo in continuo divenire: è così per te?
R: Ho scritto poesia già nell’adolescenza ma, essendo convinta che per chi scrive la vera prova fosse la narrativa, per anni ho speso il mio tempo, e lo rimpiango, in una quantità di incipit senza soluzione. Molto tempo ho speso fino al 2002 anche a tenere un diario, sono migliaia di pagine, ma questo non lo rimpiango. Dopo il ’90 ha vinto comunque la poesia. Non è una sorta di gatto di casa, è, credo, la mia vera vocazione, consona al mio “non saper inventare”. Un non saper inventare che a volte ha trovato sfogo nella brevità del racconto. Alcuni dei racconti sono stati poi pubblicati in due piccole raccolte, vedi Il mio nome era un altro. Bambini dell’Est e Uomini, ultimo atto.
D: Tra i tuoi romanzi qual è quello che hai più amato?
R: Fra i miei romanzi credo che il più valido sia il quarto, Un inquieto batter d’ali. Vita di Kleist. Avevo un immenso materiale, l’inventare si è concentrato nel trasformare in dialoghi i suoi scritti minori e le sue tragiche lettere, e qui mi è parso di capire che invece dei romanzi avrei forse potuto scrivere qualcosa per il teatro, e da ultimo l’ho fatto: una breve pièce, il titolo un suo disperato detto: «Io voglio, io devo entrare, e fosse di traverso» (H.v.K.).
D: Ti si vede molto spesso ai reading, anche di giovani autori, la tua curiosità è ammirevole, così come la capacità di ascolto. Vale ancora la pena uscire di casa, prendere un tram e andare ad ascoltare le poesie di uno sconosciuto?
R: Per me è sommamente interessante vedere cosa scrivono gli altri e giusto i più giovani. Non gli si appropria più che mai il detto di Kleist?
D: Il tuo ultimo libro, E io che intanto parlo, raccoglie una parte sostanziosa della tua opera poetica. Cosa significa raccogliere tutto, riordinare, trovare un nome nuovo a cose di un altro tempo: in sintesi, com’è guardarsi indietro?
R: Selezionare e ordinare materiali degli anni passati in vista di un complessivo, come ho fatto due volte con le poesie, per un’edizione tedesca e per l’edizione Marcos E io che intanto parlo (titolo ironico), non è un lavoro indolore: sono dubbi continui sulla forma, sull’immagine di sé, sul ne vale la pena. E parecchi testi a me cari delle mie cinque raccolte ne sono comunque rimasti fuori.
D: E tu intanto parli ancora? Ci dici a cosa stai lavorando?
R: A cosa sto lavorando? Qualche nuova poesia, e nello scorso autunno ho scritto un racconto satirico, Dietro le tende écru, 100 pagine, su due tipi come noi. Ho rubato il titolo alla Guardia bianca del sommo Bulgakov: come difenderci dai “rossi”, dal bolscevismo della globalizzazione?
*
Intervista a cura di Gianni Montieri e Anna Maria Curci, ringraziamo moltissimo Anna Maria Carpi.
Nota: per approfondimenti su Anna Maria Carpi si rimanda al nostro archivio: Poetarum/Carpi o al sito dell’autrice: AnnaMariaCarpiOrg
2 risposte a “Anna Maria Carpi, E intanto parlo con voi”
[…] Sorgente: Anna Maria Carpi, E intanto parlo con voi […]
"Mi piace""Mi piace"
[…] Poetarum/Carpi/Intervista […]
"Mi piace""Mi piace"