
(su undici inediti di Damiano Scaramella)
Entrate. Venite a guardare.
La casa è vuota. Il corpo
(…)
Il corpo è qui, nel vuoto. Non c’è rumore. È solo vuoto e silenzio, la nostra casa. Nei versi successivi, qui taciuti, del corpo morto si dà ancora per un attimo un’estrema prova dell’incancellabile lotta che lo ha abitato.
Mentre ogni cosa si depone e ora «restano solo i fantasmi», la poesia di Damiano Scaramella invita alla vita. Di fronte alla prova fisica e psichica della perdita, il poeta ci chiede di parlare con loro, con questi nostri fantasmi, ponendo in evidenza i segni dell’infinito della fine: «è il momento, si ama solo all’ultimo, solo / allo stremo delle cose mancate / o perdute per sempre». Ecco, il bersaglio mancato, l’irrimediabilmente perduto: sono questi i territori in cui va a fissarsi l’impulso vitale ai suoi occhi decisivo.
Lo dice chiaramente, Damiano: «… Nell’ora senza nome il corpo / è un segmento di spazio lunghissimo, infinito. / Tocca da muro a muro tutta la casa…».
La casa, ancora e sempre la casa. Vuoto e silenzio sono lì, ossessivamente presenti, perché la nostra immaginazione si faccia, si compia.
Immagineria: in un articolo datato settembre 2014, Giuseppe Genna definisce così il farsi, il possibile continuare a farsi (questo l’auspicio) di una nuova lingua poetica. «Immagineria potente»: a suo avviso i poeti sono anzitutto e soprattutto dei visionari linguistici. E a proposito di Damiano Scaramella, ci dice che la sua poesia è sorprendente, perché «nutrita all’ombra e alla luce di un’umanità inderogabilmente sofferta». Ha ragione, sì, aveva ragione Genna, in quell’articolo.
(…)
capite bene quale
scelta è stata
e male detta.
Mi viene in mente, allora, un passaggio di Walcott in Oddjob, un bull terrier: «il silenzio dell’amore sepolto più in fondo / è il vero silenzio, / (…) / è il vero amore, è identico, / ed è benedetto, / nel modo più profondo dalla perdita / è benedetto, è benedetto». Dunque, per Damiano, la benedizione penso sia-stia essenzialmente nel dire: poterlo, anzi doverlo dire il male secondo la sua stessa dettatura.
Solo chi ha vissuto davvero un trauma è in grado di scorgere l’orizzonte degli sguardi, di entrare degnamente in quell’orizzonte che comprende il proprio alla luce degli altrui sguardi.
«La poesia è uno specchio ustorio» («e, prima di fissarla negli occhi, bisogna pensarci due volte»), ebbe a dire alcuni anni fa De Angelis in un’intervista. È così. È così per chi scrive, e per chi legge: ci si può bruciare, in se stessi, o in altro, in altri.
Accentando questo rischio, Damiano lascia che venga alla luce l’«infanzia, in un gioco»; la espone, per voi-noi «orfani di luce rigettati». E sentiamo il perdurare di un vuoto antico, pronto a dirci che sempre siete-siamo «venuti a crescere / nella carne che non vi assomiglia, nell’aria / che non vi trattiene».
Ecco, sono poesie, le sue. Hanno la forza di essere tali. Semplicemente sono, esistono. Attraverso lo stile, anzitutto, che è impasto di visione e tecnica.
Un uso sapiente, spesso splendido, dell’enjambement ne scandisce il ritmo. Si avverte subito che il respiro del verso c’è tutto, e nel respiro una modulazione della voce che si snoda in formulazioni perentorie, riferibili tanto al “separato”, al “lontano” (cioè al sacro, o al metafisico, e anche al religioso: «Lasciate venire i bambini, i soli /… »), quanto, al contempo, al campo del giudizio:
(…)
Ma non ricordatelo, non
serbatene storia o falsa
testimonianza. Orfani,
rinnegate.
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