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Su “Testi segreti” di Marguerite Duras. Con un’intervista a Rosella Postorino

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Marguerite Duras, Testi segreti, Trieste, Nonostante edizioni, traduzione di Rosella Postorino, pp. 126, € 15,00

Ferma, intransigente, severa e irriducibile: se si guardano i tanti filmati con le interviste e i racconti che Marguerite Duras ha rilasciato durante gli ultimi anni quindici anni della sua vita si possono forse cogliere alcuni aspetti caratteriali − e formali − molto presenti anche nelle sue opere, dagli anni Settanta in poi, o anche da prima. È tuttavia da quel momento che la sola resistenza ammessa da Duras sarà quella nei confronti della scrittura e del cinema, che molto hanno a che fare con la voce e con la sua “fragilità” o la sua “vitalità”.
Un esempio da cui partire può essere il cortometraggio del 1979, Les mains négatives (da vedere qui, dove sono riportati anche il testo e una breve contestualizzazione), in cui le immagini di Parigi − all’imbrunire, poi all’alba e di prima mattina − fanno da collante fra la voce narrante e la musica di un violino (strumento melodico, come la voce) che stride. Il violino e la voce fuoricampo − così Duras la pretende − sembrano lavorare con l’immagine, condurla; non vi è, dunque, un primato di tipo filmico-narrativo ma un evidente primato vocale-narrativo e musicale, e c’è una scelta: quella di utilizzare la stessa voce dell’autrice, due volte presente. Anche qui, come durante le apparizioni pubbliche, la voce è tenace, e la sua tenacia è spinta dalla forza dell’amore che lei stessa sta narrando: «Tout s’écrase/ Je t’aime plus loin que toi/ J’aimerais quiconque entendra que je crie que je t’aime/ Trente mille ans/ J’appelle/ J’appelle celui qui me répondra/ Je veux t’aimer je t’aime/ Depuis trente mille ans je crie devant la mer le/ Spectre blanc/ Je suis celui qui criait qu’il t’aimait, toi».
L’implacabilità della voce di Duras (autrice) è uno dei nodi presenti anche in Testi segreti, volume ripubblicato quest’anno per i tipi di Nonostante edizioni (nel 1987 usciva per Feltrinelli) e che include anche la prosa La puttana della costa normanna. La traduzione è di Rosella Postorino che firma anche un saggio su Duras, come già aveva fatto per il precedente volume tradotto per la stessa casa editrice, il romanzo del 1958 Moderato cantabile (uscito nello stesso anno per Einaudi, nell”86 per Feltrinelli), e che risponde oggi qui a qualche domanda sulla scrittura dell’autrice francese.

Testi segreti raccoglie tre racconti pubblicati negli anni Ottanta, “intimi e assoluti” (Postorino): L’uomo seduto nel corridoio, L’uomo atlantico (da cui nel 1981 ricava un film) e La malattia della morte. Una costante in questi racconti e testi è il mareCosì accade anche in Moderato cantabile, ambientato in una città bagnata dal mare e attorno a un bar del porto; il mare in Duras acquisisce naturalmente la stessa forza delle altre voci in campo (o fuoricampo), e pare farsi soggetto. Può essere importante dichiararlo da subito perché si tratta di testi che portano avanti un’idea, quella che Llewellyn Brown chiamerebbe “l’emergenza della voce” (qui), un’intenzione che mette in gioco non soltanto dei personaggi limite, ma soprattutto un loro “interagire parlando” (o decidendo di non farlo) percepito da una prospettiva che tenga conto dell’irriducibilità della voce e, talvolta, della perseveranza del e nel silenzio (qui). L’amore fisico, pensato, desiderato, consumato voracemente, lasciato andare poi, fa perno su una narrazione che nella voce sembra “avere luogo” e che talvolta torna al silenzio, al non detto, incessantemente. Questi “testi” − laddove “testo” deve intendersi anche come “trama, tessuto, ordito” − ritornano con insistenza anche nel lavoro filmico, che Duras sta sperimentando in prima persona ma che aveva già fatto capolino anni prima con la resa filmica di alcuni suoi romanzi (Moderato cantabile e Hiroshima mon amour, ad esempio). Un altro volume da affiancare alla lettura dei racconti è La ragazza del cinema (Roma, Del Vecchio editore, 2014) con traduzione di Angelo Molica Franco; qui figurano, infatti, Agatha e l’inedito Il camion. Entrambe queste sceneggiature portano, all’orecchio del lettore, la necessità di focalizzare l’attenzione sul tempo restituito dalla “parola”, così com’è scandita, pronunciata ed esperita dai personaggi; diventa infatti anch’essa protagonista e persistente. Non a caso Postorino, nel saggio sopraccitato, a proposito dei racconti parla di “attori”: i personaggi si muovono, come a teatro, su di un palcoscenico, dentro una “scena”, parola-chiave per dire anche un tempo che si ferma. Così, chi legge, assiste alla fugacità con cui si consumano le passioni di protagonisti senza nome, che si amano nello spazio di qualche pagina, e lì muoiono, spesso due volte. Così, il lettore assiste alla vicenda di Anne Desbaresdes in Moderato cantabile, alla sua “coazione a ripetere”, alla sua “recita pericolosa”. L’amore pare una forza che sbrana: inghiotte l’attesa, fagocita il senso, invade ogni cosa. Viene in mente, guardando molto indietro nella letteratura francese, alla potenza dell’amore che c’è già in Racine, nella dichiarazione della sua Phèdre: «Tu vas ouïr le comble des horreurs./ J’aime… A ce nom fatal, je tremble, je frisonne,/ J’aime…» anche se in Duras quella forza è depotenziata del nome ma potenziata dalla consapevolezza dell’atto, antitetico rispetto a quello di Phèdre. In Duras, tuttavia, tutto è o diventa corpo: come si dice nei titoli d’apertura dell’adattamento del 2010 che Gérard Courant ha fatto de L’Homme Atlantique «peau de sens mais beaucoup de la sensualité d’une voix». Qui si parla di “voce che invade uno spazio incolto” e che si scopre nella sua immanenza e nella sua vulnerabilità, altra cifra cui Duras pare non avere mai rinunciato, anche nella sua stessa vita.

© Alessandra Trevisan

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Testi segreti. Perché una nuova traduzione si è resa necessaria, dopo quella del 2013 con Moderato Cantabile?

In Italia Marguerite Duras è un’autrice trascurata. Se in Francia è considerata uno dei massimi autori del Novecento, da noi è spesso archiviata con l’insopportabile etichetta di «letteratura femminile». Dunque, il primo motivo per pubblicare nuove traduzioni dei suoi libri, come la casa editrice Nonostante di Trieste sta facendo, è quello di riportare all’attenzione il suo percorso lungo, mobile e sfaccettato di scrittrice originalissima e di intellettuale al centro degli eventi storici del suo tempo (la Resistenza, il Sessantotto, la guerra d’Algeria…), anche per capire se ha qualcosa da dire al nostro, di tempo, e a ogni tempo. A noi pare di sì. Tradurre un testo già pubblicato, corredandolo di un corposo apparato critico, significa ribadire l’importanza di quel testo, che viene (ri)letto, da chi lo traduce e dal pubblico stesso, anche alla luce dell’opera omnia dell’autore (nel suo Paese Duras è diventata un classico, la pubblicazione dei quattro volumi della Pléiade lo dimostra), cosa che ai tempi della prima traduzione magari non era possibile.

Mi sembra che la separazione dei corpi, forte i ciascuno di questi testi, sia anche una separazione da “un” linguaggio per l’autrice: si può tracciarla brevemente nella sua opera? Come l’hai “risolta” da traduttrice?

Come si può essere separati da un linguaggio? Il linguaggio è tutto quello che hai per scrivere, è ciò che rende la tua opera “tua”, appunto, e che contemporaneamente la colloca in un preciso tempo storico e socioculturale. Se però con questa domanda si intende far riferimento alla progressiva rarefazione della scrittura di Duras, al suo allontanamento dai canoni “tradizionali” del romanzo, da una sintassi rotonda, lineare e compiuta, allora sì, il percorso dell’autrice va in questa direzione. Come dico nella mia postfazione a Moderato Cantabile, con questo romanzo del ’58, spartiacque nella sua produzione, Duras diventa “durassiana” a tutti gli effetti. C’è qui, per la prima volta, una vera e propria sovversione del linguaggio, speculare al comportamento sovversivo di Anne Desbaresdes, la protagonista, che infrange le regole della comunità cui appartiene. Dalle costruzioni sintattiche invertite, asimmetriche di Moderato Cantabile si arriverà, libro dopo libro, alla scarnificazione assoluta dei Testi segreti, dove ogni parola ha un suono lapidario, definitivo.
È stato bellissimo tradurre Moderato Cantabile, che lessi per la prima volta a sedici anni, in francese, e che non ho mai smesso di rileggere. Moderato Cantabile si regge su una sorprendente geometria: nella struttura, nelle scelte lessicali, nelle immagini ricorrenti. Una geometria nascosta, sotterranea, che rende elettrizzante il corpo a corpo con il testo, e che invece di vincolare l’opera ne fa esplodere in maniera vertiginosa il significato, come l’allargarsi di cerchi concentrici intorno a un sasso gettato nell’acqua. Nei Testi segreti, pubblicati più di vent’anni dopo, nessuna geometria fa da impalcatura, qualunque struttura sembra venir meno, si è perduto ogni centro di gravità: questo non può che complicare il lavoro di chi traduce, ma lo rende anche molto appassionante.

Il mare è un “eterno ritorno” nelle due opere che hai tradotto, Moderato Cantabile e questi racconti, ma forse anche nell’opera tutta di Duras. Cosa rappresenta simbolicamente, quale valenza ha?

Duras diceva che se c’era una cosa che sapeva fare bene era guardare il mare, che nessuno sapeva farlo come lei. Nei suoi testi, il mare è spesso una metafora erotica. In Moderato Cantabile, il faggio davanti alla finestra di Madame Desbaresdes, ingabbiata nella sua lussuosa casa alla fine del Boulevard de la Mer, impedisce la vista del mare: per vederlo, lei non può che uscire di casa, liberarsi dalla gabbia, correre il pericolo di una passione amorosa con Chauvin. Nei Testi segreti, il mare è onnipresente. È l’«immensità» che la voce narrante vede e gli amanti no, isolati come sono dal loro desiderio, ne L’uomo seduto nel corridoio. È quel che la voce narrante de L’uomo atlantico chiede al protagonista di guardare, qualcosa che lui non ha mai visto, eppure per la voce narrante lui e il mare sono «un tutt’uno». Infine, è nel mare che l’uomo de La malattia della morte vuole gettare il corpo della donna dalle notti pagate. Nero e mosso, il mare è l’unico rumore che si sente nella camera, mentre la donna dorme – offrendo il suo corpo alla possibilità di essere presa, o uccisa, proprio come Anne – e l’uomo piange di non saper godere di quel corpo. C’è un parallelo evidente tra il colore del mare e la forma scura sul letto, tra il colore del mare e la «notte nera» tra le gambe di lei, così come tra l’oscillare delle onde e le lenzuola bianche, «lunghe scie di spuma», in cui si muove la donna.
Il mare, la foresta, la musica, le grida degli uccelli, le grida umane, il sonno, le lacrime: tutto ciò che è primitivo, incontrollabile, tutto ciò che ha una forza travolgente ritorna di continuo nelle opere di Duras. La natura esercita una forza di attrazione – minacciosa e irresistibile – sui personaggi, e la violenza esplode al di fuori – anzi prima – di ogni possibile moralità.

La scrittura di Duras pare quasi assoggettata alla voce, nel senso di resa “soggetto” della e nella scrittura. Forse, in questo, gioca un ruolo fondamentale, almeno nell’ultimo periodo della sua vita, l’avvicinarsi alla sperimentazione cinematografica, all’immagine, al visivo filmico, a me pare talvolta in termini di contrapposizione ma anche – più spesso – di amplificazione del vissuto. Che importanza ha la voce secondo te nei testi che hai tradotto?

I Testi segreti sono stati tutti pubbli­cati negli anni Ottanta (ma L’uomo seduto nel corri­doio è stato scritto per la prima volta nel 1962), dopo una lunga pausa dalla scrittura, nella quale Duras si è dedicata al cinema. Il suo cinema – che rompe con qualunque modo tradizionale di girare – ha avuto una grande influenza su questi testi, dove la voce narrante è sempre un occhio che vede, è o imita lo sguardo dietro la macchina da presa. La voce narrante “dirige” i personaggi, come fossero attori con i quali sembra costruire una storia che si sviluppa nel momento stesso in cui la si scrive. La voce narrante è Duras stessa.
Se L’uomo atlantico è la trascrizione del monologo che la voce off pronuncia nel film, uscito l’anno prima del libro (1981), ne L’uomo seduto nel corridoio e ne La malattia della morte, che Duras non gira mai (La malattia della morte lo ha girato Peter Handke nel 1985), l’effetto è comunque identico. La voce narrante è una specie di voyeuse che guarda per noi: «tutto ciò che sappiamo degli amanti è visto come da una cinepresa, che non può penetrare la superficie dei corpi, ma che registrandone le posture e i movimenti, nello spazio e nei confronti del corpo vicino, nonché le voci, tradi­sce l’enormità emotiva di quanto sta accadendo», ho scritto nella mia postfazione. Chiunque abbia visto il cinema di Duras conosce il potere fascinatorio della sua voce e quindi legge i Testi segreti come se fossero recitati da quella stessa voce, come se Duras fosse lì: onnipresente. La sua presenza è ingombrante, ma è forse anche ciò che rende la lettura di questi testi commovente.

© Rosella Postorino

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2 risposte a “Su “Testi segreti” di Marguerite Duras. Con un’intervista a Rosella Postorino”

  1. Quando dici nel finale che in Duras “tutto diventa corpo” seconde me indichi proprio la chiave di accesso alla sua opera. Io conosco bene “Le ravissement de Lol V. Stein”, e anche lì il dramma è l’impossibilità di simbolizzare, di uscire dal corpo, dall’immanenza della voce. Se “Phèdre” (ottimo parallelismo) racconta alla lettera l’incesto, la Duras per tutta la vita ha invece circoscritto l’impossibile simbolico che dall’incesto deriva.
    Bellissimo contributo, e coraggioso.

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    • Grazie mille Andrea: ci ho provato. Questo tuo commento mi dà modo di spingermi oltre, in un campo d’indagine che desidero affrontare prossimamente. Spero potremo confrontarci su Duras, presto.

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