, , , , , , , , , , , , , , ,

“Balada incivie, tartufi e arlecchini” di Renzo Favaron. Recensione

baladaincivie

Renzo Favaron, Balada incivie, tartufi e arlecchini, L’Arcolaio, 2015, euro 10,20

Negli ultimi anni la poesia dialettale veneta ha trovato in alcuni autori, spesso ospitati anche sul nostro lit-blog, un’energia letterariamente nuova o rinnovata: tra questi si possono ricordare, ad esempio, Piero Simon Ostan e Andrea Longega. Ma Renzo Favaron (già ospitato qui e qui), a differenza delle voci citate, si esprime in un dialetto veneto che potremmo definire misto, di provenienza varia. Spiega Anna Toscano: «La sua caratteristica poetica è la lingua che è un dialetto non di una città precisa, non di una zona particolare, ma un dialetto intimo. Il suo dialetto è un viaggio, nella poesia e nell’esperienza, con una cifra personale e una voce, appunto, intima. Ed è molto corposo, ricco, raccoglie varie particolarità e varie espressioni; tutto ciò rende la sua poesia una sorta di invocazione alle cose di tutti i giorni, alle piccole e grandi quotidianità che ci legano alla vita, soprattutto quando la si mette spesso in discussione. Vita sentita: i battiti, il polso, sono in ogni poesia. Ma anche vita in presenza della morte» (in Virgole di poesia, prima stagione).
I ricordi e il passato, la forza del conoscere (e del volere e saper conoscere), il dialogo con uno ieri che non c’è più o che c’è in una forma diversa, sono il filo conduttore anche dell’ultima raccolta di Favaron Balada incivie, tartuffi e arlecchini edita dai tipi de L’arcolaio. È fin troppo facile affermare che il dialetto ricarichi la parola della sua intrinseca potenza e tuttavia la poesia di Renzo Favaron “dice tutto” con il dialetto che non è reliquia ma una scelta etica e anche l’unico strumento linguistico in grado di proclamarsi il più fedele possibile ai temi, non ultimo l’unica figura possibile di una memoria con la quale non solo l’autore ma anche il lettore cerca di fare i conti, con la quale pare necessario riconciliarsi.
La tradizione porta all’attenzione personaggi che propongono una criticità culturale ma che non soltanto dentro questa lingua (critica) trovano verità d’esistere. Mi riferisco agli arlecchini e ai tartuffi del titolo (ma anche al “mangiafuoco” – e come si può non pensare a Pinocchio, in questo caso), personaggi che appartengono alla cultura veneta, in questo caso, riordinati in un catalogo che aumenta lo sforzo d’immaginazione del lettore. Ci si cala sì in un universo folkloristico ma si mette in campo altresì molta della letteratura dei secoli passati, che su figure analoghe ha costruito monumenti. Si risveglia così un’appartenenza culturale che si potrebbe definire “sovraregionale”, nel caso dell’Italia, e interculturale dal punto di vista letterario.
La forma lunga del poemetto, infine, è una scelta drastica ma non anacronistica, anzi: di certo potrebbe allontanare anche dall’immediatezza che lo stesso dialetto comporta e di cui si è detto sino a qui. Eppure essa è funzionale alla struttura, alla costruzione del verso. La lunghezza riesce a esprimere la complessità del vivere – che non è solo soggettiva – ma anche a imporre all’autore e al lettore un altro tempo, più lento, che è quello della lettura e dell’elaborazione e della comprensione dell’esperienza. La lentezza “costringe” il lettore a trovare il tempo di prendere il respiro, fermarsi, riflettere e anche rileggere, talvolta. Ed è un’audacia raramente concessa, che afferma la straordinarietà e la bellezza di questa poesia.

***

In diaeto

Se penso a la me storia, no’ penso
in Talian, ma in diaeto.
Se vedo el me paese, lo vedo
in bianco e nero, o no’ lo vedo.
Epur no’ son vecio: solo
o no’ son cressuo o no’ son mai vissuo
al de là del circolo che cô lo se bate
el me parla in diaeto
o no ‘l me parla par gnente.
Ogni tanto, cô tira la tramontana
o sento fare el me nome,
me pare de no’ ‘vere pì fradei e sorele,
de essare solo al mondo.
Alora torno a casa, ciapo on goto,
lo inpenisso e ghe dago da bevare
a le piante, po’ puisso la gabia
del canarin, sbasso le saracinesche
e davanti a lo specio speto che passa l’ora in cui no’ son
ch’el rosso vivo dea sigareta:
batisuòsola de tute le robe che no’ ghe xe pì
a ogni respiro.

*

In dialetto

Se penso alla mia storia non penso
in italiano, ma in dialetto.
Se vedo il mio paese, lo vedo
in bianco e nero, o non lo vedo.
Eppure non sono vecchio: solo
o non sono cresciuto o non sono mai vissuto
al di là di un cerchio che, quando lo si batte,
mi parla in dialetto o non mi parla per niente.
Ogni tanto, quando tira la tramontana
o sento fare il mio nome,
mi pare di non avere più fratelli e sorelle,
di essere solo al mondo.
Allora torno a casa, prendo un bicchiere,
lo riempio e do da bere alle
piante, poi pulisco la gabbia
del canarino, abbasso le saracinesche
e davanti allo specchio aspetto che passi l’ora
in cui non sono che il rosso vivo della sigaretta:
lucciola di tutte le cose che non ci sono più
a ogni respiro.

***

L’eternità xe curta

Te dovarissi vedar
come che se speta ‘na paroa.
On fià se fa finta
de dormir, on fià de lezhare.
Se fuma.
Soratuto no’ se fa gnente.
El giorno no’ xe pì giorno,
cualche òlta ‘riva on raio de sol,
cofà se ‘l fusse ‘na piera.
Gnanca se se sposta.
No’ serve tirar zò el dolor
co’ nantro dolor.
El corpo resta dó òlte segnà.
E forse no’ xe da ti
che deve vegner ‘na paroa.
Dio gà i so tenpi.
Par nu l’eternità xe curta.
Copie de Cristo
a la cuindicesima stassion
no’ crocefisse ma ben o mal
pì sole, descantae.

Cussì se speta.
Anca gnente,
che no’ xe pezho
de scoltar on sòno de lata
in-te on vaso dorà.
Sì, no’ paga mai
doparar ‘na lengua morta.

*

L’eternità è corta

Dovresti vedere
come si aspetta una parola.
Un po’ si fa finta
di dormire, un po’ di leggere.
Si fuma.
Soprattutto non si fa niente.
Il giorno non è più giorno.
Qualche volta giunge un raggio di sole,
come se fosse una pietra.
Neanche ci si sposta.
Non serve diminuire il dolore
con un altro dolore.
Il corpo resta due volte segnato.
E forse non è da te
che deve venire una parola.
Dio ha i suoi tempi.
Per noi l’eternità è corta.
Copie di Cristo
alla quindicesima stazione
non crocefisse ma lasciate
più sole, disincantate.

Così si aspetta.
Anche niente,
che non è peggio
di ascoltare un suono di latta
in un vaso dorato.
Sì, non paga mai
usare una lingua morta.

***

da Ballada incivie

III (Invocassion)

Eh sì, povara Italia, cussì orba e in man
a furboni furbi in tramaci.
Povara Italia, che te sbingoi dai lavari
de Arlechini e Tartufi sfiatà,
chi sito diventà? Vidito miga che te ti-ssì

persa pa’ strada? On fià a la òlta
te te ghè scusìo la facia. Povara Italia
come gheto fato a lassarte inpenire la panzha
e ‘ncora de pì svodare la testa?
Ciapate el tenpo se no’ xe massa tardi.

Ciapate cura de ti se ti-ssì
‘ncora bona de vardarte. La sentito miga
sta ganba che scaìna, ste costoe
che dopo la péle se sta magnando anca i ossi?
E el sienzhio de sti tosi ai cuai i pari

gà portà via la vozhe, cofà agnei sacrificà
in nome de ‘na fede senzha Dio?
Lo seto se esiste ‘ncora sto vecio co’ le piaghe
o na fame da lupo de ‘na caressa?
Me par che Dio no’ sia uguae par tuti

se me vien da dirte: dal dito al fato
te podarissi vedare le stele e dopo gnente altro
che el scuro pì scuro.
Ma se no’ te vol perdare el dì pì belo,
povara Italia, tien gli oci verti par tuto:

a la boca inpenìa de mosche, a le stanpee
e al muso co’ gli oci a mandorla,
che no’ i iè cofà ‘na luse che orba da ‘na vetrina,
ma ai cuai gnanca ti te pol far de manco.
Su, sveiate, ciapate cura de ti.

Ciapate el tenpo pa’ salvarte la facia,
pa’ no’ deventare cofà on baston tuto gropi
che no’ xe mai pronto
a inarcarse in-te ‘l soriso e in-te ‘l pianto.
……………………….

*

III (Invocazione)

Eh sì, Povera Italia, così cieca e in mano
a furboni furbi in tresche.
Povera Italia, che ciondoli dalle labbra
di Arlecchini e Tartufi sfiatati,
chi sei diventata? Non vedi che ti sei

persa per strada? Un po’ alla volta
ti sei scucita la faccia. Povera Italia,
come hai fatto a lasciarti riempire la pancia
e ancor di più svuotare la testa?
Prenditi il tempo se non è troppo tardi.

Prenditi cura di te se sei
ancora capace di guardarti. Non senti
questa gamba che si trascina,
queste costole che dopo la pelle
si sono mangiate anche le ossa?

E il silenzio di questa gioventù
a cui i padri hanno portato via
anche la voce, come agnello sacrificato
in nome di una fede senza Dio?
Lo sai se esiste ancora

questo vecchio con le piaghe
o una fame da lupo di una carezza?
Mi pare che Dio non sia uguale per tutti
se mi viene da dirti: da un attimo all’altro
potresti vedere le stelle e poi niente

più che il buio più buio.
Ma se non vuoi perdere
il giorno più bello, povera Italia,
tieni gli occhi aperti per tutto:
alla bocca piena di mosche, alle stampelle

e al volto con gli occhi a mandorla,
che non sono come una luce
che acceca da una vetrina,
ma a cui nemmeno tu puoi fare a meno.
Su, svegliati, prenditi cura di te.

Prenditi il tempo per salvarti la faccia,
per non essere come un bastone
nodoso che non è mai pronto
a inarcarsi nel sorriso e nel pianto.
……………………….

5 risposte a ““Balada incivie, tartufi e arlecchini” di Renzo Favaron. Recensione”

  1. C’è quell’ abbraccio tra malinconia e goliardia che si salda in modo egregio solo con i dialetti (tutti) e con le lingue inventate (dai geni come Gadda, non tutti). Almeno così mi pare.
    Una gioia leggerle.

    "Mi piace"

    • Grazie Elisabetta. Vieni da pensare siano “sentimenti” di un altro tempo, tenuti in vita con la forza del linguaggio. E non è poco.

      Piace a 1 persona

      • Grazie mille, cara Alessandra. La tua recensione è bella e apprezzabile. Questo palcoscenico, per il dialetto veneto, è cosa massima! Ho pubblicato il tuo scritto anche su Arcolaio notizie! Un abbraccio!

        "Mi piace"

  2. Voglio ringraziare Alessandra e tutta la compagnia di Poetarum Silva. Niente a che vedere con i “tartufi” della mia raccolta. Anzi, da seguire per l’intelligenza, la genuina attenzione e la coerenza.

    Piace a 1 persona