Mario Rigoni Stern, da “Amore di confine”
Associo alla scrittura di Mario Rigoni Stern la parola “familiarità” nella sua più ampia accezione: non solo perché la lettura della sua prosa mi accompagna fin dalla prima adolescenza, ma perché ne traggo, da allora – quando intrapresi il percorso seguendo consigli di persone a me care, familiari in senso stretto e non – fino a oggi e per questo nostro immiserito presente, in complessa prospettiva, l’insegnamento che si riconosce a chi è fondamento della propria formazione. Oggi, a sette anni dalla morte dello scrittore, propongo la lettura di due brani tratti da racconti raccolti nel volume Amore di confine. Storie di guerra e pace, di uomini e animali, di boschi e di piante. (Anna Maria Curci)
Ogni vicenda che abbiamo vissuto è legata ad altri fatti o vicende che, consciamente o inconsciamente, nel trascorrere del tempo si concatenano e si riallacciano a persone e a luoghi. Per i racconti che ho scritto, molte volte impensatamente ricompaiono, o si fanno vive per la prima volta dopo tanto tempo, persone che il caso discopre, e cosí nella memoria rivivi momenti e sensazioni filtrati dagli anni, come se la fame, la fatica, il dolore, il pericolo si fossero depositati sul fondo della bottiglia della vita e il vissuto decantato resta limpido e malinconico, con tenuissimi colori e profumi.
Nell’estate di molti anni fa eravamo accampati in una valle del Trentino, in un grande bosco di larici, e la mia incombenza di graduato di truppa consisteva nel costruire con la mia squadra le latrine per la compagnia una volta alla settimana e di andare con tre muli nei boschi a raccogliere la legna per le cucine. Erano lavori tutt’altro che guerreschi, anzi pacifici, e dopo la campagna sul fronte Occidentale i giorni trascorrevano tra il reale e l’irreale anche perché ero innamorato e molto giovane, e da quelle montagne vedevo le mie montagne.
Ogni sera libera dal servizio di capoposto o di caporale di giornata scendevo al paese che distava una mezz’ora dall’accampamento. Lí c’erano molti villeggianti che andavano spensierati dai campi di tennis agli alberghi, o che ritornavano dalle passeggiate o dalle escursioni; i nostri ufficiali, con le divise tirate in fino, corteggiavano le signore nei caffè all’aperto dove suonavano le orchestrine e non sapevi se era bene salutarli, o male. Qualche volta entravo nella chiesa che era tutta in pietra viva, di stile gotico-alpino; tutt’intorno, tenuto come un giardino, aveva il vecchio cimitero con lapidi bellissime. Dentro la chiesa un cieco suonava l’organo.
Ma la maggior parte delle ore della mia libertà le passavo nella libreria del centro, che era bella e ben fornita, dove, dopo essermi fatto coraggio la prima volta, ero sempre bene accolto dal libraio.
Il signor Mario mi lasciava girare liberamente tra gli scaffali da dove ogni tanto coglievo un libro con tanto riguardo e timidamente mi azzardavo a sfogliare: poesie, romanzi, racconti e storia mi affascinavano come mi affascinavano certi paesaggi e i boschi. O forse piú. Mi immergevo in quelle pagine e non mi rendevo conto del tempo che passava, e quasi sempre era il signor Mario che diceva: «Ehi, caporale, è ora di chiudere!» Ma era anche cosí buono che provava compassione o rispetto e aspettava che la moglie lo chiamasse da sopra: «La cena è pronta in tavola!»Mario Rigoni Stern, da Il vino della vita, in Amore di confine. Storie di guerra e pace, di uomini e animali, di boschi e piante, Einaudi, Torino 1988, pp. 27-28