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Le cronache della Leda #16 – Quando passeggio

biennale architettura 2010 - foto gm

 

Le cronache della Leda #16 – Quando passeggio

 

Vado a passeggiare, c’è un piccolo fiume appena fuori dal paese. È lì che vado a passeggiare, poco dopo l’alba, non tutti giorni, ma abbastanza spesso. Vado quando voglio pensarti, figlio, passeggio quando voglio ricordarmi. La luce rosa quella che siamo abituati a vedere nelle fotografie qui non si vede quasi mai, qui le albe hanno un colore che varia dal grigio al bianco. I colori ce li metto io quando ti penso, il silenzio fa il resto. Ti penso in silenzio.

Penso a me madre e alle cose che non ti dico. Le cose che non riesco a dirti. Non ti ho mai detto che mi manchi, tu me lo dici sempre, io ci credo fino a un certo punto. Ti manco come può mancare una madre anziana che vive lontana, qualcosa a cui si pensa con nostalgia, come quando si guardano le foto sbiadite e si accenna un sorriso buttando l’occhio fuori dalla finestra. Sono una presenza che non c’è, una che segue a distanza la vita tua e quella di suo nipote. Esisto nelle vostre vite come un rimbalzo, come una voce fuori campo, un racconto in terza persona. Come i regali che si fanno per Natale. Quello è il mio regalo, voi due che venite per Natale. E anche quelle volte non è completamente gioia, è più qualcosa dopo la gioia, una cosa che somiglia a voi due che andrete verso l’aeroporto. Baci e abbracci.

In queste passeggiate che non sono né lunghe né corte, soltanto necessarie, vedo te da bambino, vedo tuo padre di schiena che ti solleva, vedo me che sto tre passi indietro e rido, vedo tutte le cose possibili. Non fraintendermi, molte cose lo sono state. Il tuo futuro è accaduto, possibile e aperto come l’avevi immaginato. Non è accaduto il nostro, ecco quello che avevo pensato. Una maggiore vicinanza, berci un caffè insieme, andare a prendere tuo figlio a scuola, raccontarlo a mio marito a cena la sera. Passeggio e so che potrebbero sembrarti stupidaggini e, credi a tua madre, lo sono. Eppure ho bisogno di pensarle e di fare finta di dirtele.

Passeggio più o meno per un’ora, l’ora più preziosa, quelle che rende possibile tutte le altre. L’ora di cui non parlo con la Luisa, con la Wanda, con l’Adriana. Non ne parlo nemmeno con l’avvocato, quell’ora è mia soltanto. Ti sento più vicino mentre cammino che quando ci parliamo su Skype. Nelle nostre videochiamate nessuno dei due è sincero, siamo contenti, ma tre quarti delle cose che ci diciamo sono frasi di circostanza. Sono le cose che vanno dette: la salute, il tempo, la scuola del bambino, la cena, i libri. Forse sui libri siamo sinceri, quella è la cosa dove ci siamo sempre trovati. A volte credo che tu mi voglia bene più per i libri che leggo che per altro. Non è una brutta cosa voler bene a qualcuno in base alle letture che fa, ma forse a una madre si dovrebbe voler bene un po’ di più, a caso, senza motivo.

Naturalmente, mentre diventa più chiaro, mi faccio la domanda trappola: «Dove ho sbagliato?» Non c’è risposta e forse non c’è sbaglio. Mi parlo e ti parlo e dico che le cose, forse, sono andate come dovevano andare. Con una donna sola, messa lì a metà tra un cimitero di provincia e gli Stati Uniti d’America. Parlo con le cose, con i miei oggetti, perché così non impazzisco. Tengo ancora il portapenne con la falce e il martello, le foto delle riunioni del partito insieme a quelle di te che giochi in cortile. Ogni tanto dormo con un maglione di tuo padre, no, non ha più il suo odore dopo tutti questi anni, ma in quelle notti mi pare che il tempo mi restituisca qualcosa, come queste passeggiate. Cammino lungo il fiume e compenso. Respiro e ti dico le cose che non ti dirò.

Quando la luce si fa piena mi volto verso il paese, smetto di pensare e di parlarti, figlio, e me ne torno a casa, mi faccio un tè e ricomincio la mia vita con più cose che persone. Un luogo dove i libri e i ricordi la fanno da padrone.

Leda

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©Gianni Montieri

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