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Silvia Tebaldi – Cerchio d’ombra

Biennale architettura 2010 - foto gianni montieri
Biennale architettura 2010 – foto gianni montieri

SILVIA TEBALDI – Cerchio d’ombra

1.
Sì, ma quel fuoco strano, le storie che emergono dal vuoto – a lampi, a grappoli – e sere tra San Vitale e le Moline, a camminare, a parlare – di voci, di storie – a guardare il canale e dove era nebbia, dove era l’illusione quella rabbia, rabbia e luce, luce come un’alba o come un rosso di Mark Rothko e tutto quel tempo, quella luce, quel fuoco dov’è finito. Finito.
E allora fine della faccenda, basta. Regalare i taccuini ancora vuoti, basta con la scrittura, il mito della piccola Parigi emiliana, il passato prossimo e gli altri, remoti – i più ardui, pare, pieni di eccezioni e non solo grammaticali. E via, camminare. Zitti nel rumore bianco del mondo, nel grande ronzio, guardare gli alberi e camminare, come ora, qui – estrema periferia orientale, la terza domenica del mese, quasi nebbia, quasi sole. Qui nel gran cerchio d’ombra dell’inverno, fuori porta, ora.

2.
A camminarci in mezzo non ti perdi, non più che altrove; piazza a listone, olmi, una chiesa in fondo e attorno case, case a pettine e case in fila, cortili; su un lato della piazza, un portico che sembra un treno. E’ a guardarlo su una mappa – questo villaggio, questo passato prossimo, questo avamposto urbano anni sessanta – che davvero ti perdi: la città che avanzava imperterrita tra i campi e qui case, cortili, un labirinto minore, Bologna come fosse appena nata.
Io, questo posto lo conosco. Ci sarò venuta cento volte, quando scrivevo; c’è sempre poca gente, il posto giusto per domare le idee, le parole, anche solo per camminare. Ma oggi è la terza domenica, quella del mercatino delle pulci – banchi sulla piazza e nel portico, sciarpe e libri, bocce di vetro con le due torri e la neve – e gente, biciclette uscite dalle cantine e dal tempo ed era tardi, per me, per tornare indietro.

3.
Dell’uomo mi colpì la voce; ferma e chiara, qualche accento romano, ma in fondo come un’attesa, come un omissis nel discorso. Per il resto era un tipo sui cinquanta, alto, calvo, forse un tennista o un medico. Vendeva vecchi sci Dynastar, libri, una sacca con racchette, l’edizione 1959 del Dorland’s Pocket Medical Dictionary, con la costola stinta. Con la donna del banco accanto – un banco pieno di tazze, uno specchio incorniciato da rose di ottone – parlava di trasporti.
Trasloco, mi disse l’uomo; con calma, trasloco.

I libri, neanche li guardai. Un coltello di ferro dolce, lo specchio quasi opaco tra le rose di ottone, un calamaio di vetro pervinca; e nello specchio un fondo verde, anzi turchese, e un uomo in tuta bianca in copertina, armato di fucile, e prima ancora del titolo mi colpì l’occhio quel bellissimo Helvetica nero anni settanta, e che il diavolo mi porti se non è lui, l’introvabile, l’errante – l’Eternauta che dà le spalle alla piazza, l’Eternauta dentro uno specchio opaco.

4.
Oesterheld; Breccia; quindici. Per lei son quindici, mi dice l’uomo: cioè niente, ma niente nostalgie. Mi raccomando.
Chissà che vorrà dire, ho pensato. Bel tipo, ma intanto avevo tirato fuori i soldi – che non cambiasse idea, altro che nostalgie – e avrei dovuto capirlo subito che c’era qualcosa, e invece eccomi lì a pagare, a giurare ridendo che io no, mai, niente nostalgie, qualsiasi cosa ciò volesse dire.

5.
Che c’è un intreccio atroce tra la storia dell’Eternauta – l’invasione aliena, la resistenza degli oppressi e la disfatta, il pellegrino del tempo – e quella di Oesterheld, il suo creatore, rapito e ucciso dalla dittatura argentina; uno tra i trentamila spariti nel nulla; che questa è la versione breve del romanzo, quella con le tavole dipinte (e i collage, i mostri, e la neve assassina) da Alberto Breccia nel 1969; più densa, scura, molto più politica; e che questo è il primo Eternauta uscito in volume in Italia, perché sia questa versione che l’altra – più celebre, più lunga, con le tavole di Francisco Solano Lopez – erano comparse qui in Italia su riviste, riviste di fumetti, pochi anni prima, insomma a metà degli anni settanta. Questo, e poco altro, quello che so del libro – di questo albo pubblicato proprio qui a Bologna, addirittura a pochi passi da qui, nel 1979, da un giovane editore che aveva chiamato la sua casa editrice L’isola trovata, nome ormai leggendario. Aveva acquisito i diritti, l’Eternauta stava ormai per uscire – anche la copertina era già pronta – ma gli toccò trovare un altro titolo, perché il nome dell’Eternauta era stato appena comprato da un gruppo editoriale per una rivista ancora non nata – perché i nomi, già allora, si compravano. E il libro che ho in mano adesso – questa brossura turchese, quest’uomo col fucile, questo Helvetica – il libro ebbe titolo Oltre il tempo.

6.
Che questa storia è un viaggio, per te che inizi a leggerla e insieme leggi e osservi; un viaggio, come tutte le grandi storie disegnate; che lo scorrere del tempo si modifica, che succede qualcosa di strano, tra l’io che legge e l’io che guarda. E a queste macchie all’apparenza informi – mostri, insetti, città, la neve fosforescente – il lettore dà la forma dei suoi incubi; l’ha detto anche l’autore, i critici, non dico nulla di nuovo, io. Io che avrei dovuto capirlo subito, che c’era qualcosa di strano – lo specchio, la rosa, la lama e il labirinto – io che mi siedo qui, su una panchina di piazza Lambrakis come se non ci fosse nessuno e nulla, così come su un’isola, e respiravo e aprivo piano il volume e semplicemente – sì, al passato remoto, come nei racconti di un tempo – semplicemente, vidi.

7.
Non la piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore; non lo schema del mondo, sotto forma di gioco infantile, tracciato con un gesso sul selciato; non la rosa descritta dai mistici, non lo specchio di Alessandro Magno il Bicorne, che rifletteva intero l’universo; né i labirinti di Joyce, nostro padre, né quelli di Stephen King nostro fratello: nulla di questo, eppure che vertigine.

C’era, sulla coperta posteriore, un piccolo segno scuro; come una bruciatura, un forellino innocuo, nessun danno alle carte dentro il libro; intatta l’ultima carta, nel punto coincidente con il foro, il punto in cui l’eternauta si accorge – e si alza in piedi e se ne va, e alle sue spalle il narratore lo chiama, lo segue, ma invano – dalla data del giornale l’eternauta comprende che la sua storia non è ancora accaduta, che tutto deve ancora accadere; mentre sull’altra facciata della carta, in un quadro nero (e rami, e righe, e radici ripetute e ritmiche) il narratore sta in piedi e osserva e dice: “Tutto quello spavento, tutta quella morte… sarà possibile evitarli pubblicando ciò che l’eternauta mi ha raccontato? Sarà possibile?”
Niente di strano, insomma.
Eppure, seduta sulla panchina come su un’isola, nel tempo fermo dei grandi romanzi – sotto le dita quella pagina, in quel punto esatto, scottava.

8.
Sobria, del tutto sobria, malizioso lettore; suonava mezzogiorno al campanile di fronte, nebbia e sole ma più sole che nebbia, e vidi che la pagina era strana. Posticcia, incollata con maestria, a un millimetro dalla piega interna. Carta finale riparata ad arte: nemmeno troppo strano, nei libri antichi; più raro in un fumetto, pensai, e più strano ancora che scottasse, che continuasse a scottare, che non smettesse di scottare. E che fosse – come mi avvidi in un lampo, in una vertigine – manoscritta.

La confrontai con le altre del volume. Lo stesso lettering perfetto, lo stesso stile, la stessa grana fine. Ma scritta a mano, lettore.
Se sia davvero uguale alla pagina caduta, lo ignoro; il finale, i dettagli, tutto sembra uguale. Certo che potrei cercare l’originale, non è certo introvabile, metterli a confronto e levarmi il pensiero.
Ma credimi, lettore, non oso farlo.

9.
E le parti a collage, davvero tali; incollate all’ultima carta con cura assoluta; dipinte su carta di riso, leggerissima. Tenevo il libro in mano, la bruciatura centrale, e infine vidi.
Nessuna epifania, lettore. Vidi quello che c’era da vedere.

10.
Inchiostro.
Vidi scrivere adagio, a inchiostro, un passo in cui un tal professor Stoner guarda oltre la finestra, nella notte gelata del Missouri, e sente l’anima uscire dal suo corpo – la mano che scriveva era grande, una mano da contadino e una stilografica verde e il segno fluiva chiaro, fine, consumando il bianco. Vidi il contenuto di un calamaio convertirsi in un corsivo spezzato e teso (le mani che tagliavano la penna con una lama sottile, la rosa incisa su un anello, la scrittura continua, la pazienza di un ottico o di un orafo), nell’incipit vertiginoso dell’Ethica more geometrico demonstrata. Il grattare incostante della penna, piccole gocce sulla carta opaca e l’ultimo quadro del fumetto, la saga dell’eternauta che termina – no, non la saga, solo questo frammento, ché i cicli epici non hanno inizio né fine – con le parole SERA POSIBLE.

Non nomi, non autori, non facce né fantasmi di identità. Solo scritture, vidi: scritture nel loro nascere, segni, nient’altro che segni – il punto in cui l’inchiostro incontra la carta, il rumore continuo, grafie diverse e inchiostro, mani e carta – e tutte le scritture vidi nascere, continue, infinite, interminabili: segni, tessuti, tracce, trame nascenti e intelligibili.

11.
Posso sedermi? Ehi, scusi?
Fu una voce legnosa e acuta a riportarmi di qua, da questa parte. Dovevo esser lì seduta da ore: gli occhi sull’ultima carta, le scritture, persa oltre il tempo. La donna che si stava sedendo aveva un basco blu, ricci grigi e una gran voglia di attaccar discorso.
Non mi venne in mente nient’altro che chiederle l’ora. Dodici e cinque, mi fa lei tutta allegra; anche l’orologio del campanile dice dodici e cinque; e il mio vecchio Citizen, e anche il cellulare. Era passato un attimo, un battere di ciglia: come nei sogni, in cui passano ore in un secondo.
Attraversai la piazza come un grido – ma un grido muto, in mezzo a bancarelle e biciclette.
Il medico o tennista era sparito. Al suo posto nessuno, niente, il vuoto.

12.
Molti anni dopo, ormai scrittore importante, l’editore di Oltre il tempo scriverà che quel titolo era stato ben augurante, perché la figura e l’opera di Héctor German Oesterheld erano ormai oltre il tempo. Anche la bozza di quel testo vidi, quella prosa lucente – vidi scriverla in fretta, su carta fine, sulla soglia del tempo che giungeva.

13.
Poi son venuti giorni gelidi – il giro d’ombra, i giorni più corti dell’anno.
Giorni.
Facevo le solite cose, tutto come sempre, ma appena si squarciava il velo delle faccende quotidiane eccola lì, la scrittura. Tutta la scrittura, quel fuoco, quel nero iridescente – come se avessi già letto tutto, la scrittura che nasce e continua a nascere, a formarsi come una tela immensa, come un’altra pelle del mondo. Tutto già scritto e tutto da riscrivere, fare e disfare in eterno.

Una notte, sognai che disegnavo a matita – su un vecchio foglio da spolvero – una fuga di strade e prospettive, che appena disegnate scomparivano. Fuori c’era una coltre di neve ed ero la quindicenne che fui, magra, con tutti i nervi scoperti, capace di stare ore a disegnare; tempi in cui davvero si poteva passare ore a disegnare, o incontrare per la prima volta l’eternauta, o essere un editore a venticinque anni.
Mi svegliai, era mattino presto e la neve c’era davvero. Era caduta nella notte e sul prato dietro casa era intatta, senza segni, senza impronte, un foglio bianco.
Tornai a dormire; la scrittura infinita non tornò. Oppure, come si legge in certi racconti, sopravvenne l’oblio.

Poscritto del 24 febbraio.
La provvista di mele sta finendo; le più appassite le ho tagliate fini, con un coltello che aveva quasi perso il filo, e la torta di mele è quasi cotta. Ho fatto bene a regalare i taccuini vuoti, almeno qualcuno li userà. Non scrivo mai. E’ ancora inverno, ma mentre impastavo la torta ho pensato che la primavera si avvicina e che si potrebbe fare qualcosa, per esempio tirar fuori Oltre il tempo – fuori dal fondo del cassetto in cui l’ho chiuso appena portato a casa, un cassetto remoto e chiuso a chiave, senza più osare aprirlo – metterlo in un sacchetto e portarlo alla Biblioteca Universitaria, far la richiesta, sedermi e confrontarlo con la copia che hanno là . Una copia normale, almeno a giudicare dalla scheda.
Oppure trovare il modo di incontrarci e camminare tra san Vitale e le Moline, e parlare, e guardare il canale come se ardesse un fuoco strano, un vuoto incandescente, una scrittura; noi, fermi e chiari in mezzo al cerchio d’ombra, a parlare oltre il tempo con un editore di ventisei, forse venticinque anni.

Per Luigi Bernardi.
11 gennaio – 22 febbraio 2014.

© Silvia Tebaldi

9 risposte a “Silvia Tebaldi – Cerchio d’ombra”

  1. Di un algore nitido e affascinante, con tutti i suoi neri, i rossi, i bianchi. Apprezzata molto la stoccata dantesca del titolo: richiamo mnesico al gelo immoto delle sue ardue petrose. Brava!

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  2. Ringrazio Silvia Tebaldi per averci regalato questo racconto, una roba che non si può dimenticare

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  3. concordo con i precedenti e una volta di più mi chiedo come mai questa autrice misteriosa, preziosa e rara non si faccia viva un po’ più spesso con i suoi gioielli…

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  4. lucida, profonda e asciutta. talvolta decadente. emilianità mischiata a romanzo metropolitano

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