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“Tiresia” di Giuliano Mesa: un oracolo poetico e non profetico – di Andrea Accardi

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Testo rimaneggiato della relazione tenuta a Pisa il 20 maggio 2013 in occasione del “Seminario per Francesco Orlando”

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Vorrei proporre qualche riflessione sul Tiresia di Giuliano Mesa, anche se la mia analisi puntuale riguarderà solo la prima parte del poemetto. Quest’opera è costituita da cinque sezioni principali, intitolate secondo i modi antichi della divinazione: ornitomanzia (divinazione attraverso il volo e il canto degli uccelli), piromanzia (attraverso il fuoco), iatromanzia (attraverso i segni della malattia), oniromanzia (attraverso il sogno), necromanzia (attraverso i morti). Mesa ci ha fornito delle note che sciolgono l’oscurità dei versi, rivelando che ogni sezione fa riferimento a un evento drammatico della cronaca contemporanea. Nel nostro caso, cito la nota stessa, si tratta di una tragedia avvenuta nel luglio del 2000, nelle Filippine, quando «la più grande discarica di Manila frana, seppellendo Sitio Pangako («Terra Promessa»), una delle baraccopoli che la circondano, e uccidendo centinaia dei suoi abitanti, che vi sopravvivevano scavando tra i rifiuti». Ecco il testo che ci interessa:

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TIRESIA
oracoli, riflessi

(22 luglio 2000 – 24 gennaio 2001)

“devi tenerti in vita, Tiresia,
è il tuo discapito”

I. ornitomanzia. la discarica. Sitio Pangako.

vedi. vento col volo, dentro, delle folaghe.
vedi che vengono dal mare e non vi tornano,
che fanno stormo con gli storni neri, lungo il fiume.
guarda come si avventano sul cibo,
come lo sbranano, sbranandosi,
piroettando in aria.
senti come gli stride il becco, gli speroni,
che gridano, artigliando, facendo scaravento, in muta,
ascoltane la lunga parata di conquista, il tanfo,
senti che vola su dalla discarica, l’alveo,
dove c’è il rigagnolo del fiume,
l’impasto di macerie,
dove c’è la casa dei dormienti
che sognano di fare muta in ali.
casa dei renitenti, repellenti,
ricovero al rigetto, e nutrimento, a loro,
scaraventati lì chissà da dove,
nel letame, nel loro lete, lenti,
a fare chicchi della terra nuova,
gomitoli di cenci, bipedi scarabei
che volano su in alto, a spicchi,
quando dall’alto arriva un’altra fame.

prova a guardare, prova a coprirti gli occhi.

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Una prima osservazione sul ritmo. I primi tre versi sono costituiti da parole accentate sulla prima sillaba, per lo più piane (védi/ vénto/ col vólo/ déntro/ delle fólaghe), e questo ritmo incalzante sembra introdurci di colpo dentro una scena. Di quale scena si tratta? Uno stormo di folaghe arriva da lontano, e si mescola agli storni. Dopo il secondo punto, il quadro diventa più movimentato, gli uccelli si avventano sui rifiuti della discarica, in cerca di cibo. Parafrasando il titolo, nasce una sorta di ornitomachia, cozzano i becchi, gli artigli, l’aria risuona di grida. I suoni aspri e duri (sbranano, stride, speroni, gridano, artigliando, scaravento) rendono conto anche foneticamente di questa situazione. Viene in mente un grande modello novecentesco, Montale, e la sua Voce giunta con le folaghe, contenuta nella Bufera e altro, sezione «Silvae». Lì però le folaghe rimandavano a qualcos’altro, fin dal titolo: la voce che arriva simbolicamente con il loro volo è quella di Clizia («e pur son giunta con le folaghe»), una voce mentale, immaginata, che tuttavia fa risuonare una nota caratteristica dell’ispirazione montaliana. Quale? Il dubbio metafisico, la speranza trascendentale (il poeta si trova davanti alla tomba del proprio padre; Clizia stessa è ormai lontana, e come scomparsa), che non si risolve mai in certezza, né in un senso né in un altro, e che contribuisce in modo decisivo al pathos di questa scrittura. Nulla di tutto questo in Mesa: qui gli uccelli sono pura creaturalità, ci vengono cioè presentati nella loro schiettezza animale, in ogni sua espressione. Ce ne viene mostrata la ferocia, l’aggressività famelica, ma anche gli elementi di bellezza, di eleganza (piroettano in aria, formano una lunga parata di conquista). Il loro volo si spinge fino al luogo in cui compaiono gli uomini, «dove c’è la casa dei dormienti/ che sognano di fare muta in ali». Qui è come se anche il testo, fino a quel momento piuttosto frenetico, si addormentasse, si sospendesse. Questo punto deve segnare una pausa significativa, perché ci introduce nel cuore del dramma, e separa idealmente una prima e una seconda parte. Il sonno di cui si parla mi sembra qualcosa di più di un semplice sonno fisico, allude metaforicamente a una perdita della propria consapevolezza di esseri umani. Non è allora incongruo sentire un’eco rovesciata del sintagma dantesco dell’Ulisse, perché la muta in ali che non riesce (è solo un sogno) li lascia in una condizione di irrimediabile brutalità: si nutrono di ciò che viene gettato («e nutrimento, a loro»), vivono in mezzo allo scarto («nel letame»), nella dimenticanza degli altri uomini, ma anche, come detto, di sé stessi («nel loro lete»). Sono infine paragonati essi stessi a cose buttate («gomitoli di cenci»), ormai ridotti a una cattiva e degradante animalità («bipedi scarabei»). Il riferimento successivo al volo («che volano su in alto») è allora da intendersi in senso antifrastico rispetto alle ali sognate di prima: si riferisce alla salita affannosa, arrancante di questi uomini-scarabeo sulla collina di rifiuti. Mesa descrive così dei gironi infernali contemporanei, svuotati di ogni contenuto teologico: «scaraventati lì chissà da dove», non c’è nessun ordine, nessuna regola. Anche il lessico materico sembra dipendere molto dal modello dantesco e infernale, che media con l’immaginario classico. L’ultimo verso della strofa, «quando dall’alto arriva un’altra fame», può riferirsi alla fame degli uccelli, concorrenti degli uomini nell’appalto dei rifiuti, ma allude anche al crollo stesso della discarica, che finirà come sappiamo per divorarli. Si tratta comunque di una frase che mantiene un carattere vago e minaccioso a prescindere dalla nota esplicativa. A questo punto Mesa salta un rigo e aggiunge un verso in corsivo, come per farlo emergere dalla cronaca lirica dell’evento, conferendogli un valore metatestuale, di commento: ci tornerò tra poco.
Ripartiamo dall’inizio. Il testo comincia con un’esortazione, che crea subito una sorta di complicità emotività col lettore. Nasce una catena di imperativi (vedi, guarda, senti, ascoltane, senti) che si interrompe in quel punto centrale che ho indicato, per poi riprendere nell’ultimo verso in corsivo. Chi è che parla, e a chi? Non è chiaro. Potrebbe essere lo stesso Tiresia, che si rivolge all’ipotetico lettore. Secondo alcuni, sarebbero invece le vittime della Storia che chiedono all’indovino di testimoniare al mondo il loro dramma. Di certo, per capire a fondo questo testo e tutto il poema bisogna rispondere a una domanda più generale: cosa significa oggi per Mesa la metafora incarnata dal personaggio di Tiresia? Ricorro a un altro grande modello novecentesco: T. S. Eliot, e al suo testo più famoso, The Waste Land. Tiresia appare nella terza parte del poema, «The fire sermon», in quanto spettatore dell’incontro un po’ squallido tra una dattilografa e un giovane impiegato pieno di pustole. I due consumano un rapporto sessuale senza desiderarlo particolarmente né l’uno né l’altra, e ad amante partito la donna penserà quasi senza accorgersi: «I’m glad it’s over». Cos’è avvenuto? Tiresia è stato assorbito in quel grande impasto linguistico che costituisce la stoffa di quest’opera, fondata sul continuo corto circuito tra alto e basso. I simboli fondatori dell’immaginario occidentale ci vengono così presentati come ormai irrimediabilmente corrotti, compromessi, inariditi. Da veggente che era, Tiresia è stato dunque degradato a guardone. Non mi pare affatto che Mesa faccia la stessa operazione. Consideriamo in questo senso l’epigrafe: «devi tenerti in vita, Tiresia/ è il tuo discapito». Come ha giustamente notato Marco Giovenale, possiamo considerarla come il rovesciamento dell’epigrafe che Eliot stesso ha scelto per il suo poema: una citazione dal Satyricon, che ci mostra la Sibilla cumana ormai così decrepita e rattrappita da entrare in un’ampolla. Alla domanda dei bambini, «Sibilla, cosa vuoi?», la risposta è tutt’altro che sibillina: «Voglio morire». Il Tiresia di Mesa riparte da qui: no, Tiresia (o Sibilla, personaggi equivalenti), ti tocca vivere, è la tua condanna. Mesa ci dice in definitiva che una qualche veggenza è ancora possibile, ed è strettamente connessa al tema del dovere («vedi» e «devi» sono anagrammi l’uno dell’altro). Andiamo finalmente all’ultimo verso, quello in corsivo: «Prova a guardare, prova a coprirti gli occhi». Secondo Giovenale, si tratta di due momenti in sequenza: prova a guardare, e dopo che hai visto, prova, se ne hai il coraggio, a non guardare più. Questa interpretazione non mi piace, perché dà un significato moralistico a un testo che non sembra averne (Mesa è anzi molto bravo a evitare toni di quel tipo). Direi piuttosto che questo finale spinge fino in fondo il pedale dell’ossimoro tiresiaco, costituito dalla cecità che vede di più, e lo salda con il tema del dire (come già faceva il sottotitolo «oracoli, riflessi»): la seconda parte del poemetto, Piromanzia, si conclude con un altro verso in corsivo, simmetrico dunque a quello che stiamo considerando, che chiosa così: «tu, se sai dire, dillo, dillo a qualcuno». Evidentemente Mesa si sta riferendo a modi di vedere e di dire che via via siamo andati perdendo, o per meglio dire gettando. Cosa finisce oggi nelle discariche? Ci finiscono i nostri rifiuti, i nostri scarti materiali, il sintomo più evidente dell’eccesso di funzionamento del consumismo, cioè lo spreco (e variante di quello sterile-nocivo che per Francesco Orlando designa ogni rivincita di natura su cultura: questo è uno sterile-nocivo addomesticato, previsto e delimitato dall’uomo stesso). Ci finiscono gli uomini-scarabeo, gli emarginati, e dunque anch’essi gettati via dal mondo. Ma ci finisce, metaforicamente, anche qualcos’altro, ed è di questo che secondo me tutto il libro parla: il senso della tragicità del mondo, e la capacità di parlarne. Risuona insomma una critica implicita alle forme di comunicazione attuali, ipertrofiche e standardizzate, che determinano un rapporto fiduciario e inautentico col mondo; alla catarsi fasulla del sensazionalismo giornalistico, che produce assuefazione, indifferenza, e al limite cinismo. Il tema del quinto testo, Necromanzia, è un avvenimento drammatico e centrale della storia europea (le fosse comuni), e l’ultimo verso prima della fuga in corsivo comincia con un altro imperativo, «Taci»: come se la società del benessere avesse anestetizzato le proprie tragedie, parlandone il più possibile. Tiresia tira a indovinare, ma non tira a indovinare sul futuro, quanto piuttosto sul passato e sul presente, mettendo nuovamente in campo «la negatività inconsolabile e inconciliabile della vita offesa» (Paolo Zublena). Per fare questo, occorre una scelta formale decisa, che potremmo definire, in una sola espressione, la serietà del tutto. Abbiamo già visto che la degradazione degli uomini in scarabei e cenci non è affatto comica, ma appunto tragica. Si aggiunga a questo che l’espressività della scrittura non va mai sopra le righe, non abbiamo mai la sensazione di giochi sonori manieristici, fine a sé stessi. L’aspetto fonico sembra invece inseparabile da un riscatto di senso, assonanze e consonanze restano racchiuse dentro una pertinenza di significato che le giustifica («stormo con gli storni»; «nel letame, nel loro lete, lenti»). Questo non è affatto secondario, considerando che l’uso gratuito dei suoni può costituire spesso un contrappunto straniante rispetto alla materia trattata. Andrea Inglese fa un esempio da Mesa stesso, la ballata numero 11, contenuta in Improvviso e dopo; il tema è quello della tragicità nel mondo in forma di guerra ed eccidi, ma giocato «sul contrasto tra il carattere sublime dell’oggetto e il registro elementare e trivialmente melodico dell’espressione»: «muore il cavallo in guerra, dilaniato/ il fante e il cavaliere,/ il pupo senza la carne equina/ la nonnina». Quest’ultimo testo e il Tiresia sono complementari: lì si canzona (in modo appunto canzonettistico) l’apatia di massa del mondo occidentale; qui si dichiara seriamente la necessità di uscire da quell’apatia. La seconda soluzione non è scontata in un’epoca successiva alle avanguardie, che hanno spesso preferito il pluristilismo, la contaminazione, il controcanto ironico, la proposta del tragico mediata attraverso «la maschera del grottesco» (Paolo Zublena). Qui ritorna invece l’attrazione tra uno stile serio e la serietà del tema, e del personaggio principale. Il Tiresia è dunque questo: una forma solenne per esprimere un enorme represso contemporaneo, quel senso del tragico che è stato sostituito poco a poco dalla sua narrazione martellante e incolore. Ribadisco: il tragico di cui ci parla Mesa avviene nel mondo, fuori della soggettività monadica che sembra essere il nostro destino storico. Si parla molto seriamente dei propri drammi privati, interiori, mentre il racconto dei drammi collettivi viene più facilmente stemperato, o delegato al moralismo e alla retorica ufficiali. Se l’oracolo non può più predire, può però ancora dire, e lo fa proprio attraverso quei modi che sembravano essere stati accantonati. Come un oracolo poetico, appunto.

© Andrea Accardi

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15 risposte a ““Tiresia” di Giuliano Mesa: un oracolo poetico e non profetico – di Andrea Accardi”

  1. “Ribadisco: il tragico di cui ci parla Mesa avviene nel mondo, fuori della soggettività monadica che sembra essere il nostro destino storico.”, afferma Andrea Accardi e l’analisi che sostiene questa argomentazione, centrale, si nutre di una disamina accurata di ritmi, scelte lessicali e strutture sintattiche, collegamenti interni all’opera di Giuliano Mesa ed esterni, a tracciare affinità e, soprattutto, significative divergenze. Grazie per questa lettura.

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  2. Bellissima la poesia (se bellissima si può dire considerato il tema, sembra quasi come i mi piace su fb alle notizie di lutti o altre tristi notizie) chiusa sublime. A proposito della chiusa il gesto di coprirsi gli occhi oltre a riferirsi alla veggenza che maggiormente si acuisce in quanto non si veda col senso fisico della vista, ma col senso metafisico del vedere oltre questo luogo e tempo, è possibile leggerlo anche come un umanissimo gesto di disperazione, di fronte alla tragedia, richiama infatti il gesto teatrale degli attori delle tragedie greche classiche di nascondere gli occhi nell’incavo del gomito nell’acme della scoperta o comprensione dei fatti orribili, ed è anche un invito, anzi per l’uso del verbo “prova” lo direi quasi una sorta di sfida, alla capacità/incapacità di riuscire a dimenticare. Sembra quasi suggerire anche questo sviluppo del pensiero: prova a coprirti gli occhi cosa potrai vedere se non ancora ciò che ha guardato prima (in squallore, degrado, dolore, disgrazia) che ti resterà impresso negli occhi per sempre. Per dire del resto è necessario essere “impressionati”, per dire, se sai dire, occorre “dovere” ricordare. Molte grazie di questa interessante lettura.

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  3. Geniale la lettura anti-eticizzante del verso finale “prova a guardare, prova a coprirti gli occhi” offerta da Andrea Accardi. La lettura di Giovenale invece, per quanto interessante, soffre di una consequenzialità che rischia di riprodurre l’anestetizzazione alla visione dell’orrore che il testo stesso critica profondamente: il “prova a guardare e-dopo-che-hai-visto prova a non guardare più” fa parte del meccanismo di accettazione dell’inaccettabile, della sua visione normalizzata; nella quale l’oggetto di orrore ri-guardato è oggetto di spettacolo e non materia di confronto e crisi del proprio sentire. La lettura di Andrea, invece, recupera l’ambivalenza del segno, proprio come, del resto, Tiresia è uomo-donna (e sarebbe opportuno confrontare la Tiresia di Mesa con l’esplorazione omoerotica e catamitica del Tiresia di Jouhandeau: http://marcheseditore.com/index.php/catalogo/tiresia-info/), ed è in questa ambivalenza simultanea che il vedere E il non-vedere interagiscono per creare veggenza del presente laddove tutto collabora alla sua invisibilità tramite il circuito della sovraesposizione.
    Complimenti, questo tuo testo è un viatico prezioso.

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  4. Per accreditarsi egregiamente bisogna però che questa lettura sciolga una questione di fondo abbastanza lapalissiana per chi conosce l’etologia dei volatili citati: le folaghe non fanno nulla di tutto quello che viene raccontato da Mesa nei versi 1-10.
    E’ tipica descrizione comportamentale del vivere dei gabbiani nostrani, per niente accostabile invece alle abitudini delle folaghe (vedi la risalita senza ritorno dal mare, la zuffa nelle discariche-non frequentate dalle folaghe-vedi ancora la spiccata competitività osservata verso individui della stessa specie e il mobbing operato verso altri volatili che frequentano le stesse campagne furtive e degradate che liminano sparuti rigagnoli).
    Perché Mesa trasforma le folaghe in gabbiani?
    L’ultimo verso potrebbe venirci in soccorso e (Mesa forse ce lo suggerisce attraverso il ricorso al corsivo) fornirci la chiave di lettura e di ricostruzione del brano: ‘ così è il mondo se lo osservi provando a guardare, provando a chiuderti gli occhi. C’è forse dentro la trasposizione, il conflitto nichilismo -realismo che ha caratterizzato la prima parte dell’opera di Mesa? Può la realtà essere contraffatta semplicemente attraverso l’introduzione di fattori estranei, di vicende provenienti da altri esempi, miscelate in uno scambio di posto tra bipedi scarabei dormienti e i primi volatili nella reticente comunione iterazione della fame?
    Se fosse così addio Montale, addio Clizia, addio Eliot. Resterebbe Giuliano Mesa
    (Gianluca Sansone)

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  5. ma non c’è il rovesciamento, palese, di ogni posizione montaliana? la presenza delle folaghe/gabbiani non ha lo stesso valore dell’upupa ricollocata al suo posto da Montale rispetto a Foscolo? o meglio, Mesa non ‘gioca’ allo stesso modo con il lessico della tradizione attingendo alla tradizione alta a lui più prossima, nella fattispecie Montale?
    se il volo nel ligure ha valenza escatologica, qui in Mesa quel volo che precipita ha valore scatologico: Mesa fa scorrere le acque che lavano le stalle di Augia, a mio avviso, inserendo perciò la lezione di “La bufera e altro” nella successiva di “Satura”, dove più forte è il realismo che in parte segna una sorta di sconfitta di ogni tensione metafisica (come del resto testimonia “Xenia”).

    P.S. Gianluca, ho corretto il tuo commento come indicavi.

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  6. Grazie a tutti per essere entrati nel merito. Sono contento che questi versi di Mesa siano riconosciuti in tutto il loro valore.
    Gianluca, la tua osservazione è ottima da un punto di vista, appunto, etologico, mi chiedo se lo sia anche da un punto di vista poetico. Mi spiego. Anche Montale parlando dell’anguilla le ha sovrapposto tratti ascrivibili piuttosto al salmone. Tu ci fai notare che Mesa fa lo stesso con folaghe e gabbiani. Ma sul piano della ricezione di chi legge, davvero ci cambia qualcosa? Io direi di no, proprio perché non pretendiamo dalla poesia la verità del documentario, ma un’”altra” verità, e appunto queste contraddizioni rispetto alla realtà delle cose possono diventare feconde piuttosto che sterili (possono diventare “paradisi di fecondazione”, addirittura). In questo caso, Fabio l’ha ben sottolineato, c’è intanto un’opposizione rispetto a un grande modello, ed è un’opposizione che coinvolge la sostanza stessa di questa poesia. Aggiungerei che l’uso delle “folaghe” concorre a quell’uso di uno stile alto, che i gabbiani avrebbero garantito molto meno. Escluderei però che questo momentaneo stravolgimento della natura (mi fido di quello che dici, non sono molto esperto…) si colleghi all’ultimo verso. Ciò che va guardato coprendosi gli occhi è senza dubbio la materia bruciante della tragedia umana, che è poi il tema del Tiresia in ogni sua parte. Le folaghe anzi diventano il contraltare utopico di quella tragedia, diventano ali sognate dagli uomini rimasti a terra. Chissà, e qui recupero la tua precisa osservazione, che la libertà incarnata dalle folaghe non consista anche in questo fuoruscire dalle più tradizionali leggi di natura.

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  7. potrebbe darsi, mi domando però se il gioco possa essersi spinto fino all’errore madornale
    Riprendo però un dichiarazione dello stesso Mesa a valle dell’uscita di Tiresia:

    “Ad esempio, qui, – stiamo parlando della figurazione del mondo – non si può che limitarsi al come, all’approssimazione dell’exeplum non probante. [Oggi, già addentrati nel secondo millennio, viviamo un conflitto sempre più aspro, e sempre più sanguinoso, tra conoscenza ed esistenza (ed esistenze, degli uomini, tutti). Le cose visibili occultano, i segni occultano. Cosi è ancora tutto da dire.”

    In realtà più che ad Eliot ( in virtù del quale immagino si citi in qualche modo Montale) io sarei per avallare più in generale la lettura che qualche anno fa ne fece Bruno Torregiani ( Giuliano Mesa e il mito di Tiresia) con rimando a Sofocle e a Celan.

    “In apparenza la nostra condizione dovrebbe essere ben diversa. Non vediamo sempre tutto ciò che accade e ovunque? La verità non è scandagliata dalla luce dell’occhio elettronico che è in grado di ridirci tutto, frugando in ogni angolo, ogni istante? Non è così: l’eccesso di luce, la saturazione della vista ci impediscono di vedere. Il poema di Mesa riproietta per noi fotogrammi terribili che avevamo dimenticato e ce li fa vedere come per la prima volta.”

    E’ il passaggio dall’analisi critica di Torregiai che mi porta a ritenere fuori binario la lettura di Giovanile, assieme ovviamente ad alcuni indizi che emergono dall’opera stessa, come appuntoil brano riportato qui in apertura o altri , e in particolare in oniromanzia:

    IV. oniromanzia. παιδος δ’ ομματα νυξ ελαβεν
    concave, ad accogliere, acqua di pioggia,
    fitta, scura di polvere, e piume, albume,
    lucidi, quei filamenti rossi, luci che sono lampi,
    fanno tremare forte, l’acqua, nelle conche,
    che sono mani semichiuse,
    sono molluschi, muschio,
    resina che brilla lucida,
    dura, chiudendo le fessure.
    sai. c’è solo il cavo, l’ìncavo, la conca.
    non hai scavato tu, con le tue mani,
    che tremolano morbide nel sonno, pingui,
    né lui, da cui ricevi luce, e tu non sai
    con quali arnesi, docili,
    si fa la chirurgia.
    con le sue tibie piccole, a condurmi,
    titubante, che sento l’odore del tramonto,
    le luci che si addensano, s’incrostano,
    la stessa resina che cuoce nel tuo sonno,
    gli stessi grumi che si ghiacciano,
    dopo i rasoi, i forcipi, quel lento lampo,
    scuro, che lo inscuriva, muto,
    immobile, portandolo con sé.

    la luce, questa luce, non sarà mai la tua.( corsivo)

    4
    c’è questa oscurità,
    questo livore,
    la patina, si dice,
    la resina, l’ossido,
    infine –
    infine l’ombra che ricopre l’ombra?
    sarà così davvero?

    5
    le parti,
    quante sono,
    per quante volte
    ognuna
    non ritorna
    le partenze,
    il ripartirsi,
    tu che rimani,
    tu che non rimani,
    quante,
    ancora quante,
    per sapere,
    non voler più sapere

    Mesa chiarisce di volta in volta, attraverso l’artificio di quell’ultimo verso staccato ed in corsivo, la funzione e la visione del suo Tiresia, così diversa da quella di Eliot, così modernista e dissacrante, in cui l’occhio trasferisce immagini che possono essere rovesciate e rilette in altro modo, attraverso l’intendimento della parola.

    Ma anche questa non è che una delle molteplici letture possibili, che non esclude l’altra né tutte le altre possibili.
    Solo che a tutti gli effetti alle discariche di manila volano i gabbiani, non le folaghe.

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  8. ma chi se ne frega se sono gabbiani, Gianluca?!

    “vedi. vento col volo, dentro, dei gabbiani”? ma ti prego! che orrore di verso sarebbe stato?
    e dove sarebbe finita tutta la valenza fonica? ma soprattutto dove sarebbe finita un’immagine che evoca ben altre immagini, come, azzardo, un “volo di folaghe” portate dal vento come una “folata d’aria fetida” proveniente dalla discarica?

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  9. Beh, Fabio, il fatto è che non è centrato il punto, e il punto è che Montale non c’entra niente.
    Chi se ne frega dei gabbiani, siamo d’accordo, pessimo verso sarebbe:
    “vedi. vento col volo, dentro, dei gabbiani”?

    ma non è per questo che dobbiamo costruire ponti che avvicino a Satura.
    “Le cose visibili occultano, i segni occultano. Cosi è ancora tutto da dire.”
    Lo dichiara il poeta, con questo allontanandosi dal tardo Montale.

    Se poi al Montale ci devi arrivare solo perché c’è il confronto con Eliot, allora è un cerchio, la critica letteraria, che non tenderà ad allargarsi mai.

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  10. No, Montale non è citato in virtù di Eliot, e non si tratta nemmeno della solita somma di fonti (Montale più Eliot più c più d = Mesa), che avrebbe poco senso. I due confronti erano piuttosto contrastivi, per cercare di mostrare meglio due aspetti della poesia di Mesa: l’assenza di un orizzonte metafisico (che in Montale è almeno presunto); un rapporto riattualizzante con una tradizione alta (che in Eliot è abbassata, con effetti drammatici).
    Naturalmente Sandro Penna non c’entra nulla, e infatti nessuno l’aveva nominato.

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  11. Non ho mai letto Mesa in modo organico, ma solo attraverso passaggi ricostruiti, recensioni, letture critiche sui quaderni e su Tiresia. L’idea che mi sono fatto è che Tiresia sia un poema completamente ascrivibile al duemila, che sia forse ( lo diranno tra cent’anni riguardando indietro) il primo passo mosso dalla poesia italiana in un impianto nuovo, finalmente diverso dal tappeto del novecento entro cui ancora tutto si muove.
    Quei primi versi non raccontano un errore, ma aprono una strada al trattato che Mesa attraverso Tiresia scioglierà più avanti: non è vero ciò che dico, ma ciò che ti dico diventa vero. Vero per effetto della morte della propensione, vero per effetto dell’annullamento dello spirito critico, vero per effetto della realtà poliedrica del nostro nuovo tempo che lascia convivere tutte le forme di verità senza escluderne nessuna.

    ‘prova a guardare, prova a coprirti gli occhi’

    Ho sempre inteso in questo modo questo verso, non mi ha mai convinto la lettura appagante per i più ‘ prova a dire se hai il coraggio di richiuderli’.

    quanto alla costruzione del pensiero di Mesa, è universalmente riconosciuto come un modernista, e i primi passi li muove nell’ambito della neoavanguardia, con Spatola.
    Mesa ha per questo tutte le caratteristiche per gettare un ponte verso un nuovo modo di fare poesia che escluda il nichilismo dell’ultimo montale. Se solo lo guardassimo sotto una luce diversa, se solo leggessimo ciò che scrive.Ma come al solito io mi limito a leggere. E non avanzo altro.

    ( La citazione di Penna era relativa alla presunta influenza che lo stesso avrebbe esercitato su Montale, un simpatico ricorso per proprietà transitiva nella ricerca di arretrare il tempo poetico come attraverso la poesia retrocedendo di montale arretra la vita stessa)

    E’ stato un piacere come sempre, mi dispiace solo dover utilizzare questo account e non iol mio, ma non capisco il perché. GS

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  12. Gianluca, se non replico alla “citazione di Penna relativa a madama dorè” è perché mi sono rotto le palle. e credo che questo sia il primo e ultimo commento in cui sbotto sonoramente.

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  13. Fabio, ma di che parli? Ma diavolo di una polemica inutile. Vuoi che Tiresia sia da mettere in parallelo con voce giunta con le folaghe? Fai pure. Io affermo un fatto evidente e tu replichi che per una questione fonetica il gabbiano deve diventare una folaga. Bene, dillo al gabbiano, non a me. Caxxi suoi, non miei.
    E qui chiudo io perché non è possibile ogni volta non argomentare ma dare tutto per scontato, doversi ridurre alla banale querelle. Ho introdotto almeno due spunti diversi, due ipotesi di lettura che potevano ampliare il ragionamento. E se questo è rompere le palle allora son problemi tuoi. Abbi pazienza, la pazienza di tutti ha un limite.

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