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Come leggono gli Under 25 #13: su Sleep di Amelia Rosselli

foto di © Dino Ignani

“Sleep”: la ricerca, la lingua, l’inferno in Amelia Rosselli

di Maddalena Lotter

Le poesie in inglese di Amelia Rosselli raccolte in Sleep appartengono a un libro privato, rimasto inedito in Italia fino agli anni Ottanta. Credo che nei riguardi di questa strana, vertiginosa, raccolta la domanda da porsi non sia “perché l’inglese?”, visto che è proprio nella sua voce plurilingue che la Rosselli afferma la sua identità di poeta e di messaggera, laddove con plurilinguismo si intende anche uno spaziare in altri linguaggi, ad esempio quello musicale, per una necessità di espressione che lega le arti (in questo caso appunto parola e musica, un legame intenso che proprio in Italia conosce un’indagine profonda già nel Medioevo, passando poi per le innovazioni illuminate dell’opera di Claudio Monteverdi). Il punto, credo, potrebbe essere questo: ci sono cose umane che si dicono “meglio”, con più proprietà, in un linguaggio piuttosto che in un altro? C’è una giustezza nel linguaggio che viene scelto per comunicare l’essere, il resto, il Tutto, laddove per “giusto” intendiamo “esatto”? L’inglese di Amelia Rosselli è consapevolmente foriero di una tradizione, quella anglosassone, che forse con più esattezza di altre ha esplorato nei secoli quello che emerge anche nella poesia di Sleep: “l’amore come sessualità e desiderio, la religiosità (blasfema, ma non per questo meno intensamente sofferta), la propria incontenibile, dissacrante femminilità.” (dalla postfazione di E. Tandello, ed. Garzanti). Infatti come scrivere in italiano significa riconoscere Dante, così scrivere in inglese significa inevitabilmente confrontarsi con Shakespeare, ed è in questo riappropriarsi della tradizione che Rosselli ha cercato amleticamente un suo Io:you might as well think one thing or another / of me; I am not a mercy’s chance, nor do / I want you interpretation, having none / myself to overpower me.” (“tanto vale che tu pensi una cosa o l’altra / di me; non sono alla mercé del caso, né / voglio la tua interpretazione, non avendone alcuna / io stessa a sopraffarmi.” pag. 125). Scrive sempre E. Tandello: “il personaggio della raccolta è infatti una proteiforme, sfuggevole creatura metà arlecchino, metà diavolessa, ‘un erede’ al femminile del fool shakespeariano che, in un tragicomico duello con l’Altro, sia esso amante o Dio, afferma coraggiosamente la propria identità.” Riecheggiano nella voce inglese della poetessa anche i luoghi profondi, sepolcrali dell’inferno miltoniano, in cui si mescolano divinità ctonie a realtà umane: “Hell, loomed out with perfect hands, wrapped / our glare with a fierce shudder of fright into / the night exchanged for a pair of rubies. […]” (“L’inferno, tessuto da mani perfette, avvolse / il nostro sguardo irato con un intenso brivido di paura nella / notte scambiata con un paio di rubini.” pag. 67); la parola “Hell” con cui inizia la lirica ha una forza precisa, perché rievoca la memoria antica di una nota formula: “Better to reign in Hell than serve in Heaven” (J. Milton, Paradise Lost), vicina forse al mondo poetico rosselliano, alla sua luce e al suo buio irrisolto.

“We had lit the world with our calling but
the ever-changing scenes at our window
of our souls cut by three giant trees sword-
shaped drew from us heavy sighs.”

Avevamo illuminato il mondo con la nostra chiamata ma
le mutevoli scene alla nostra finestra
delle nostre anime fese da tre giganteschi alberi a forma di
spada ci strapparono grevi sospiri. […]

(traduzioni di E. Tandello)

***

Sleep come prosecuzione di un (probabile) intento modernista 

di Alessandra Trevisan

Nell’avvicinarsi alle liriche di Sleep di Amelia Rosselli, è necessario tenere un doppio sguardo, di superficie (o tangibile) e che scavi contemporaneamente alla radice, e possa entrare in primo luogo nel terreno della lingua, in quel fecondo plurilinguismo che in Rosselli è peculiare proprio perché triplice (inglese-italiano-francese). Quella di Amelia Rosselli è infatti una poesia che in tutte-le-lingue si frange, una lingua poetica che ‘fa blocco’ pur rompendosi in mille pezzi, e vive di queste continue tensioni che sono endogene. Io credo che di temi e rimandi abbia correttamente parlato Maddalena, ed aggiungerei che la frammentarietà del femminile – sebbene sia sì, una ricorrenza che troviamo in moltissime autrici del Novecento (o che riscontro soprattutto con il mio occhio, forse) – sia a maggior ragione sostenuta da questo linguaggio che si spezza e si ri-aggiusta continuamente, come un vaso che cade a terra e diventa ‘mille cocci’ ma preziosi, che si frantumano con irregolarità proprio per l’accidente della caduta. Alfonso Berardinelli dice che le sue sono ‘formazioni meteoritiche’ e che il suo sperimentalismo è necessità linguistica, con un richiamo infantile spontaneo nei modi – di spezzare il verso, di utilizzare nuovi lemmi – e nei rimandi alla tradizione. Stiamo parlando di un ‘gioco verbale’ – così lo definisce Tandello, che è anche sua traduttrice – molto ‘alto’ e ‘altro’, altro perché la migrazione linguistica è anche connessa ad una migrazione fisica e mentale che riguarda la vita di Rosselli, e altro due volte perché in qualche modo credo che in nessun altro suo scritto sia così palese il rapporto di Rosselli con la musica. Con Sleep siamo tra il 1953 e il 1966.
Parto da un prima però, ossia dal ricordare che tra i modelli qui rintracciabili c’è anche T. S. Eliot in cui l’evidenza formale-poetica è preponderante (lei stessa parla di un uso del verso largo anglosassone come impronta), scavalca qualunque genere di significato: il significante vince e supplisce ad una mancanza, o cerca di trasferire altrove l’attenzione nei confronti di un ‘senso’ del testo. Se c’è in The Waste Land un senso lo si cercherà all’infinito; la forma propriamente detta è significato, il suono anche. Il punto è che la musica vive di questo, cioè della mancanza d’una pretesa di verità e ammette la presentificazione come (unica) forma possibile del comunicare, due aspetti molto peculiari delle poesie inglesi di Rosselli.
Questa poesia trova forza in un molteplice presente, come la musica fa; è una poesia colta che tende all’eterno (cui il poeta aspira da sempre) pur restando ancorara all’immanente, e per questo si può dire che condivida un intento modernista, a mio avviso (l’esuberanza di forma prosegue anche nella Beat Generation). Emblematici potrebbero essere questi versi, per autodefinizione calzanti:

Do come see my poetry
sit for a portrait, it
hangs in dimples, by the
light bay window, and pronounces
no shape of word, but that
you find it imperative.
[…]

*Sleep si trova in edizione Garzanti, 1992 con traduzione di Emanuela Tandello appunto, e nei Quaderni di poesia dell’editore San Marco dei Giustiniani di Genova con traduzione di Antonio Porta.

8 risposte a “Come leggono gli Under 25 #13: su Sleep di Amelia Rosselli”

  1. grazie Anna Maria. La mia ipotesi per una lettura dal punto di vista dell’acustico di Rosselli meriterebbe maggior attenzione. Son certa che prima o poi ne troverà, da parte mia o di qualcun altro.

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  2. grazie Anna Maria. sono rimasta folgorata da Amelia Rosselli, nel senso che dopo averla letta mi si è aperto un universo di domande che raramente un testo letterario mi ha suscitato. Sono affascinata dalla scrittura della Rosselli tanto quanto mi incute terrore. Terrore perché mi fa capire alcune cose che non hanno un nome.

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  3. in appendice a Spleep tradotto da Antonio Porta (San Marco dei Giustiniani) è pubblicata la corrispondenza fra Amelia Rosselli e Antonio Porta con un interessante dialogo sulle scelte della traduzione. Per questa traduzione Amelia Rosselli aveva partecipato alla traduzione di se stessa.

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  4. Seguo la Rosselli da un po’, mi ha stregato con quei suoi occhi di ghiaccio e il viso serpentino. La sua poesia è unica e affascinante: un lavoro preciso sulla prosodia come se le sillabe fossero note musicali, gli scarti psicologici che divengono laspus linguistici e sintattici, la potenza a tratti surrealistica delle immagini e quel senso del dolore che compunge e che, come dice bene Maddalena, rientra in quel cerchio di terrore di cose innominabili. Brave entrambe per gli articoli!

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