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Invito alla (ri)lettura: Nazim Hikmet

La poesia di Nazim Hikmet (Salonicco, 20/11/1902 [ma 1901] – Mosca, 3 giugno 1963) ruota attorno al mito del nòstos; da esso discendono tutti i temi principali che a loro volta confluiscono e decantano nel grande tema dell’amore (il che spiega la scelta del titolo dell’antologia italiana uscita immediatamente dopo la morte del poeta per la curatela di Joyce Lussu).
È in sostanza un cerchio compiuto quello disegnato dall’intera produzione del poeta turco.
All’interno di questo cerchio ritroviamo i suoi orizzonti geografici che negli anni di prigionia e di esilio diventano orizzonti di una fuga impedita e poi autocensurata (il mare, il Bosforo, Istambul, la Turchia tutta non di rado indicata come “il paese”); ritroviamo il tu delle molteplici allocuzioni rivolte all’amata; un tu che andrebbe distinto nelle tre figure femminili che hanno caratterizzato la tormentata vita sentimentale di Hikmet, e che malgrado ciò spesso pare indistinto in una sorta di continuum che giunge a confondersi con l’amata patria, come in questa poesia del 1948:

Benvenuta, donna mia, benvenuta!

certo sei stanca
come potrò lavarti i piedi
non ho acqua di rose né catino d’argento

certo avrai sete
non ho una bevanda fresca da offrirti

certo avrai fame
e io non posso apparecchiare
una tavola con lino candido

la mia stanza è povera e prigioniera
come il nostro paese.

Benvenuta, donna mia, benvenuta!

hai posato il piede nella mia cella
e il cemento è divenuto prato

hai riso
e rose hanno fiorito le sbarre

hai pianto
e perle sono rotolate sulle mie palme

ricca come il mio cuore
cara come la libertà
è adesso questa prigione.

Benvenuta, mia donna, benvenuta!

Sicché il tema dell’amore si distende tanto nella poesia ovviamente erotica quanto in quella più propriamente politica, dai forti connotati engagé come vuole una certa prassi novecentesca nella quale il poeta si riconosce nella voce “utile” (parola cara a Nazim Hikmet) al popolo. E a sprigionare tutta questa forza è la lontananza, o per dire meglio il male della lontananza, la nostalgia: all’inizio forse cercata per poi essere successivamente subita («Sei la mia schiavitù sei la mia libertà/ sei la mia carne che brucia/ come la nuda carne delle notti d’estate/ se la mia patria/ tu, coi riflessi verdi dei tuoi occhi/ tu, alta e vittoriosa/ sei la mia nostalgia/ di saperti inaccessibile/ nel momento stesso/ in cui ti afferro»).
Le vicissitudini biografiche di Nazim Hikmet si riversano perciò interamente nei suoi versi, non vengono nemmeno celate dalla lingua e dallo stile che non ricercano elitarismi di sorta, bensì si concedono a una quotidianità che rivive dell’oralità della tradizione ottomana e prima ancora arabo-persiana. In questo alveo culturale egli innesta però la modernità della versificazione libera catapultando la poesia turca nella modernità.
Nel compiere questo balzo è evidente la lezione dei poeti futuristi russi conosciuti negli anni del primo soggiorno moscovita (Majakovskij sopra tutti). Gli anni che vanno dal 1921 al 1928 sono quelli caratterizzati da una formazione forgiata sull’ideologia socialista da non intendersi però allineata all’ortodossia di partito (e in effetti quando rientrerà a Mosca dopo il lungo periodo di carcere subito in Turchia, sarà molto critico nei confronti dello stalinismo).
In Italia Nazim Hikmet verrà conosciuto dai più immediatamente dopo la morte, avvenuta nel giugno del 1963. Sarà Mondadori (ne era direttore editoriale all’epoca Vittorio Sereni) a pubblicare l’antologia Poesie d’amore curata da Joyce Lussu, la quale aveva conosciuto a Stoccolma il poeta in occasione d’una sua conferenza. Prima d’allora la Lussu mai aveva sentito parlare di Nazim Hikmet e ancor meno aveva avuto modo di leggere delle sue poesie.
Il giorno della conferenza circolavano delle traduzione in francese di alcuni suoi componimenti e la futura curatrice ne rimase folgorata; si affrettò a conoscere il poeta il quale le propose di tradurre in italiano i suoi versi dal francese con la sua supervisione.
A Nazim Hikmet premeva che fosse mantenuto il senso riposto nelle poesie; poco gli importava che nella lingua della traduzione figurassero nuove rime al posto delle originali per le quali sacrificare del tutto il messaggio veicolato dalla poesia stessa (in poche parole l’utile non doveva mai essere sacrificato al bello).
Con quest’aura di leggenda vide la luce un testo che ancora oggi rimane l’unico di riferimento per il lettore italiano che si avvicini al poeta, mancando a tutt’oggi non solo un’edizione organica dell’intera produzione di Hikmet ma pure una nuova antologia con testi a fronte, strumento indispensabile non solo per lo studioso ma anche per il lettore che avesse la fortuna di cogliere la musicalità legata alla matrice orale del limpido verso del poeta. Di recente Barbara La Rosa ha offerto un saggio di nuove traduzioni direttamente dal turco attraverso le pagine della rivista «Poesia» (n. 214, Marzo 2007). Un’operazione che lancia un possibile ponte verso una futura edizione completa delle poesie di Nazim Hikmet con testo a fronte.

© Fabio Michieli

 

Nostalgia

Voglio tornare al mare!
Nello specchio azzurro delle acque
voglio riflettermi!
Voglio tornare al mare!
Navigano le navi verso orizzonti luminosi, navigano le navi!
La tristezza non gonfia le bianche vele tese!
Verrà il momento in cui potrò stare di sentinella
a bordo di una nave, anche per un sol giorno.
E poiché la morte è comunque fatale,
come un raggio di luce che tramonta nelle acque
nelle acque voglio spegnermi!
Voglio tornare al mare!
Voglio tornare al mare!

(Mosca, 1927)

 

Ho socchiuso gli occhi

Ho socchiuso gli occhi:
Nell’oscurità ci sei tu,
Nell’oscurità sei sdraiata col viso all’insù,
Nell’oscurità la tua fronte e i tuoi polsi sono un triangolo d’oro.
Sei dentro le mie palpebre socchiuse, mia amata,
Dentro le mie palpebre socchiuse le canzoni
Adesso lì tutto ha inizio con te
Adesso lì non c’è più nulla che appartenga alla mia vita prima di te
E nulla che non appartenga a te.

(Prigione di Bursa, 1947)

 

Sono dentro un raggio di luce che avanza
Colmo di desiderio le mie mani, il mondo è meraviglioso.

I miei occhi non si saziano di alberi,
Sono così pieni di speranza, così verdi.

Un viottolo soleggiato attraversa il gelseto,
Sono alla finestra, nell’infermeria della prigione.

Non avverto l’odore delle medicine,
Da qualche parte devono essere sbocciati i garofani.

Ecco, moglie mia, vedi,
Il problema non è essere fatto prigioniero,
Il problema è non arrendersi…

(Prigione di Bursa, maggio 1948)

 

Mio figlio cresce nelle fotografie

Nel mio cuore il dolore di un ramo a cui è stato strappato il frutto,
nei miei occhi l’immagine della strada che scende verso il Corno d’Oro,
la nostalgia di mio figlio e la nostalgia di Istambul
sono un pugnale confitto nel mio cuore.

La separazione è insopportabile.
Il nostro destino ci sembra proprio tremendo.
Proviamo invidia per gli sconosciuti.
Il padre è in prigione a Istambul,
vogliono impiccare il figlio
in pieno giorno
in mezzo alla strada.
Io qui sono libero come il vento,
come una canzone popolare,
tu sei lì, figlio mio,
ma sei ancora piccolo per meritare la forca.
Vorrei che il figlio non diventasse un assassino,
vorrei che il padre non morisse,
per portare a casa il pane e un aquilone
hanno rischiato la forca.
Gente,
brava gente,
fatevi sentire dai quattro angoli del mondo,
dite che si fermi,
che il boia non metta loro la corda al collo.

(1954)

 

Ho vissuto alla velocità dei sogni
Tra sfavillanti scintille
Ho piantato un albero di susine
Ne hanno assaggiato i frutti

Meno male che ho amato la tristezza
Soprattutto la tristezza che c’è nell’occhio delle pietre
Del mare dell’essere umano
E ho amato la gioia improvvisa

Meno male che ho amato la pioggia
Meno male che sono stato in carcere
Ho amato l’irraggiungibile
In tutte le mie nostalgie

Meno male che ho amato il ritorno
……………………………

(Mosca, 2 maggio 1963)

 


* I testi, tradotti da Barbara La Rosa, tratti dal fasc. n. 214 (marzo 2007) di «Poesia», sono riproposti in ordine cronologico e non come pubblicati in rivista.
* L’immagine della pagina manoscritta e autografa di una poesia di Nazim Hikmet è presa da http://bachecaarte.blogspot.com/2010/07/nazim-hikmet-biografia-e-poesie.html

31 risposte a “Invito alla (ri)lettura: Nazim Hikmet”

  1. Grazie. L’invito è proprio rivolto alla riscoperta di un autore che in Italia è purtroppo noto solo per via del volume mondadoriano che ormai presenta limiti vistosi.
    Joyce Lussu, grandissima donna, come scrivo, tradusse in italiano da traduzioni in francese; mentre le traduzioni di Barbara La Rosa sono state fatte dall’originale turco. Credo che i tempi siano maturi per un’edizione più matura.

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  2. L’articolo di Fabio mette l’accento su un punto cruciale e cioè sulle traduzioni senza l’originale a fronte. Come diceva Goethe “Chi vuole comprendere la poesia / deve andare nella terra della poesia; / chi vuole comprendere il poeta / deve andare nella terra del poeta”. La terra della poesia è la lingua che la rappresenta, e sebbene si può non conoscere la lingua turca è suggestivo discendere in quell’armonia di cui è dotata.
    Ringrazio Fabio per il suo articolo la cui sintesi fa risaltare con chiarezza i punti fondamentali per una rilettura piacevole e al tempo stesso attenta delle poesie di Hikmet.

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  3. Non ho il volume pubblicato dalla NC ma credo si basi sempre sulle stesse traduzioni francesi, a leggere l’articolo di Barbara La Rosa pubblicato in “Poesia”.

    Davide, grazie.

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  4. Quel fascicolo di Poesia mi manca, ma posso confermare che è la stessa curatela. Mondadori l’ha pubblicato in prima edizione, ma i diritti di edizione sono stati poi estesi anche alla NC. Anche perché per un puro caso le possiedo entrambi :-)

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  5. Questo ti dimostra, come fai notare tu caro Fabio, che la lettura di Hikmet si è fermata ad un punto, poi non c’è stata evoluzione, rimanendo così alla “superficie”, da parte di certi editori ma, converrai, anche da parte dei lettori (fra questi mi ci metto io per primo che non l’ho approfondito) che hanno preferito catturare della scrittura di Hikmet soltanto il lato più “romantico”. Si leggono soltanto quelle perché? Perché a quanto pare piace di più leggere versi come “Ti amo come se mangiassi il pane spruzzandolo di sale” che, ci mancherebbe, superificiale non è, ma è alquanto apprensibile per i sensi, e sentiamo a ripetizione queste et similia perché a San Valentino il primo libro che si ricordano di regalare sono le poesie d’amore di Hikmet; è pur vero che se l’editore ha le sue colpe (e io gli punto contro il dito), anche i lettori hanno i loro limiti. Se il lettore ti chiede “questo” Hikmet, pur di vendertelo in qualsiasi salsa ti stampano quello.
    Se i lettori (intendo i lettori tutti senza distinzione di lettori forti prigri modesti eccetera) fossero più attenti, stai sicuro che l’indice di gusto si sposterebbe verso altri versanti, altre opere, e l’editore se ne accorgerebbe. L’uomo è ciò che legge.

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  6. Il problema con la poesia di Hikmet è che siamo fermi all’intuizione di Vittorio Sereni.
    Dopo lui e l’edizione Lussu si è sempre ristampata in sostanza la stessa cosa. Ma quanti sanno quali sono le opere singole pubblicate, e i drammi teatrali? solo quelli che si sono presi la briga di andare oltre (anche con la sola pagina di wikipedia)

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  7. oddio, Davide, di questi tempi si potrebbe pure dire che “l’uomo è ciò che gli danno da leggere”

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  8. Di Hikmet adoro moltissimo le poesie romantiche, d’amore.
    Come P. Neruda manipola le parole anche apparentemente
    banali e li trasforma in una musicalità che incanta il lettore.
    Un poeta quello turco che è stato amore a prima vista. ud

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  9. Ma sai che non sono convinto di aver bisogno della traduzione a fronte? Ho riletto, qualche giorno fa- quella volta che si parlava dell’importanza del traduttore in altro post-, a margine dell’edizione mondadoriana, la lettera che il poeta scrive a Lussu che si appresta a tradurre la sua opera. Più di una volta riferisce di come la sua lingua, la sua parola, fossero cambiate al cambiare dei luoghi, dei passi, delle disperazioni che via via andava incrociando nella parabola del suo esilio. Io sono grato alla Lussu per aver tradotto questo, perchè ci ha reso la parola di Hikmet parola memorabile per leggerezza, forza, armonia, nella disperazione più nera.
    Grazie per questo invito alla sua rilettura Fabio

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  10. Gianluca la traduzione di Joyce Lussu però si basa su una precedente traduzione sicché lei si ritrovò, con la supervisione dello stesso Hikmet, a tradurre in italiano dal francese. Barbara De Rosa non usa la mediazione di un’altra lingua: va all’originale e quindi fa tesoro della mutazione subita dalla lingua di Hikmet nel tempo; modifiche che sicuramente il francese non può contenere.
    Che poi Joyce Lussu sia riuscita a fare un buon lavoro coi “pochi mezzi” di cui disponeva è un merito che le riconosco. Ma penso davvero che i tempi siano maturi per affrontare Hikmet come affrontiamo altri grandi poeti.

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  11. Ti confesso il mio timore: scoprire che ‘ il mio cuore batte con la stella più lontana’ di angina pectoris, o ‘Nazim dolcemente carezza la barca/ e si brucia le mani’ di ‘ non è un cuore..’ in realtà siano altro.

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  12. Fa accedere a diverse piste di ricerca,, nella sua efficacissima sintesi, l’invitation au voyage di Fabio Michieli alla poesia di Hikmet, del quale ho avuto la fortuna di conoscere, in occasione di una conferenza del dicembre 2007 a Roma, poesie inedite nella traduzione dall’originale di Maria Pia Quircio. appassionata e formidabile studiosa di lingua e letteratura turca.

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  13. oh Anna Maria, ciò che scrivi mi incuriosisce moltissimo. cosa disse Maria Pia Quircio in quell’occasione? e c’è traccia di quelle traduzioni?

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  14. Grazie Fabio per questo re-invito alla lettura di uno scrittore finito suo malgrado tra i baci perugina. Doverosa e necessaria una sua rilettura, così come fu per Joyce Lussu la scelta di affrontarne la traduzione per portarlo in Italia.

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  15. Nel corso dell’incontro del 18 dicembre 2007 a Roma, Maria Pia Quircio ha istituito una stretta connessione tra poesia d’amore e poesia politica, ha discusso aspetti linguistico-culturali (anche attinenti la storia della lingua poetica in Turchia) entrando nel dettaglio e .. ci ha lasciato con l’acquolina in bocca circa le sue traduzioni. Torno alla carica con lei per sapere se ci sono novità.

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  16. Mi trovo pienamente d’accordo su quanto proposto da Fabio, soprattutto a fronte di un’esperienza fatta qualche anno fa con il gruppo di poesia della biblioteca comunale: per presentare la poesia di Hikmet a due voci volavamo leggere anche i testi originali. È stata una vera impresa trovarne! Questo credo sia un peccato, perché la frammentarietà delle informazioni non ha mai giovato alla diffusione di conoscenza e alla costruzione di un pensiero critico!
    Da ex studente di turcologia mi farebbe molto piacere sapere dell’esistenza di un’edizione critica che raccolga l’opera di Hikmet e approfondisca anche il piano filologico. Il turco di Turchia è una lingua molto interessante: prima per via di una riforma linguistica ha rimosso tutto il lessico arabo e persiano, lo ha sostituito con dei termini (spesso neologismi) con radice turcica e attualmente si trova costellato di prestiti dalle lingue europee. Si dice che la lingua di Hikmet fosse semplice, diretta, familiare; ma sarebbe bello indagare “quale” lingua il poeta utilizzava, comprendendo maggiormente lo spessore della sua figura d’intellettuale engagè. Incrocio le dita!

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  17. Grazie Jacopo. Io penso, anzi sono convinto, che Joyce Lussu sapeva di poter proporre un poeta allora sconosciuto in Italia perché comunque alla Mondadori allora c’era Sereni.

    Anna Maria, sarebbe bello se Maria Pia Quircio ci facesse il dono di un contributo sulla lingua di Hikmet. Perciò vai alla carica ;)

    Ciao Ilaria. Quella lettura a due voci è stata fondamentale per me per riappropriarmi della poesia di Hikmet ridotta ormai a brevi versi diabetici. Tu, come pure i commenti di Anna Maria Curci (attraverso il ricordo di una conferenza di Maria Pia Quircio), poni l’attenzione là dove io sento il nervo scoperto della questione: dare al lettore un’edizione completa e fedele dell’opera di Hikmet, soprattutto ora che la sensibilità del lettore nei suoi confronti ha superato l’innamoramento dell’idea dell’amore nella sua poesia, spesso banalizzando il sentimento d’amore che non è solo erotico-sentimentale, bensì è fortemente politico per buona parte della sua produzione.

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  18. “Cara Joyce,

    Mi domandi perché scrivo delle poesie? Sarebbe più giusto porre la domanda in altro modo. Perché e come ho cominciato a scrivere delle poesie.
    Cerco di ricordare.
    Avevo tredici anni. Abitavamo Istanbul. Mio nonno era poeta, ma ancora oggi non capisco le sue poesie. Il suo linguaggio: scriveva in un turco che si chiamava ottomano, ossia formato per il 75 per cento da parole arabe e persiane; anche le regole grammaticali erano arabe e persiane. Le poesie di mio nonno erano dogmatiche, didattiche, religiose. Non le capivo ma ero il nipote di un nonno poeta. Mia madre era innamorata di Baudelaire e di Lamartine, e li leggeva in francese, perché in quei tempi le traduzioni in turco erano in ottomano, e molto rare. Mia madre conosceva benissimo il francese, ma l’ottomano lo sapeva meno ancora di me. Mio nonno, Nazim Pascià, era poeta e apparteneva alla setta dei Mevlevé, dervisci vagabondi che derivavano il loro nome dal poeta Mevlana. Mia madre adorava Lamartine e Baudelaire, e la poesia, a casa nostra, era sugli altari.
    Scoppiò un incendio di fronte alla nostra casa. Era la prima volta che vedevo un incendio. Ne fui stupito ed ebbi paura. Mio nonno, affinché l’incendio non arrivasse a casa nostra, si mise in piedi davanti alla finestra, brandendo il Corano aperto. L’incendio si spense, ma non per la forza del Corano, e nemmeno per quella dei pompieri; si spense da solo, dopo aver incenerito la casa che bruciava di fronte a noi. E io, due ore dopo, scrissi la mia prima poesia: “L’incendio”. Il ritmo della mia poesia imitava quello della metrica chiusa arabo-persiana che si chiama “aruz”: mi era restato nelle orecchie sentendo recitare mio nonno. L’”aruz” comporta delle cesure obbligate, che però non sono né sillabiche né toniche; non sapevo allora che vi fossero altri ritmi, o che esistessero i versi liberi. Anche il mio linguaggio era un’imitazione dell’ottomano.
    Ecco i primi versi:

    “Brucia brucia con terribile fracasso quel nemico dell’umanità
    che stringe fra le sue braccia
    le case le madri e gli orfani…”

    E’ tutto quello che ricordo: sembra quasi che abbia presentito la guerra atomica. E riscrivendo queste righe, mi accorgo tutt’a un tratto che ero influenzato, più che dalla poesia di mio nonno, da quella di Tefik Fikret. Perché? Non lo so. Forse perché mio padre, che di letteratura non capiva nulla, leggeva qualche volta Tefik Fikret, il nostro primo grande poeta umanista, forse anche un po’ socialista utopista: il nostro primo poeta che scrisse versi contro la guerra e contro la religione. Ma scriveva anche lui in ottomano, per quanto un po’ modernizzato.
    La mia seconda poesia la scrissi, mi pare, a quattordici anni. C’era la prima guerra mondiale. Mio zio era caduto ai Dardanelli. Ero molto patriota e scrissi un poema sulla guerra. E’ strano. Ricordo benissimo di aver scritto quella poesia, ma non mi viene in mente un solo verso. Ricordo anche che non era scritta in ottomano, bensì in un turco purificato in parte dalle parole arabe e persiane ma ancora molto impacciato; e che scrivevo sotto l’influsso del poeta Mehmet Emin, il primo che abbia scritto in turco e con metriche nazionali turche, sillabiche. Mehmet Emin era considerato il poeta del nazionalismo turco.
    A sedici anni, credo, scrissi la mia terza poesia. In quell’epoca un altro grande poeta turco dominava la nostra letteratura. Aveva inventato una lingua poetica tutta nuova e si chiamava Yaya Kemal. Penso che fosse innamorato di mia madre: a casa leggevamo le sue poesie e all’accademia navale era il mio professore di storia. La poesia aveva per argomento il gatto di mia sorella. Perché? Ora che ci penso, credo che sentissi il bisogno di approfondire le questioni di forma, e per questo avevo scelto un tema neutro, astratto. Feci vedere la poesia a Yaya Kemal, e lui volle vedere il gatto. Era un gattino rognoso, di colore incerto. Il grande poeta mi disse: “Se puoi fare una poesia su quella sudicia bestiola, puoi diventare un grande poeta”.
    Adesso capisco che si trattava di tutto un modo di concepire la poesia. C’era una differenza così grande tra la realtà e quello che avevo scritto:

    “Aveva gli occhi verdi come le onde del mare
    con i suoi peli bianchi sembrava una palla di neve…”

    Pubblicai la prima poesia a 17 anni. Era stata corretta largamente da Yaya Kemal. Suonava così:

    “Ho sentito un lamento sotto i cipressi
    mi son chiesto, c’è qualcuno che piange qui?
    o è il vento che si ricorda di un amore passato
    in questo luogo solitario?

    Un tempo pensavo che i morti ridessero
    quando le nere cortine cadon sugli occhi
    ma ora mi chiedo se i morti che amaron la vita
    piangono ancora sotto i cipressi.”

    Nel linguaggio e nella metrica era, almeno formalmente, una poesia che esprimeva le nuove tendenze.
    Poi mi sono innamorato follemente di varie ragazze e ho scritto per loro dei versi; poi le questioni che riguardano la coscienza, l’onore, l’eternità mi hanno interessato e ho scritto su queste cose. Poi gli Alleati occuparono Istanbul, e io scrissi delle poesie contro l’Intesa inneggiando al movimento di liberazione in Anatolia.
    A 18 anni passai in Anatolia, scoprii il mio popolo e le sue lotte. Lottava con i suoi cavalli magri, con le sue armi preistoriche, in mezzo alla sua fame e alle sue cimici, contro l’esercito greco sostenuto dagli inglesi e dai francesi. Ero tutto stupito, ebbi paura, lo amai, lo adorai, compresi che bisognava scrivere tutto ciò in un altro modo. Ma non ne fui capace. Per trovare il modo giusto era necessario, a quanto pare, che passassi nell’Unione Sovietica.
    Era la fine del 1921. Fui mille volte più stupito, e sentii un amore e un’ammirazione cento volte più forti, perché avevo scoperto, in quel 1921-1922, una carestia cento volte più terribile, e delle cimici cento volte più feroci, e una lotta contro tutto un mondo cento volte più potente, e una immensa speranza, un’immensa gioia di vivere, di creare.
    Ho scoperto tutta un’altra umanità.
    E cominciai a scrivere in un altro modo.
    E da allora, non posso non scrivere delle poesie.

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  19. Scusate,ho postato l’intera lettera che hikmet scrisse a lussu nel 61. Ma a me serviva soltanto un passaggio per spiegare meglio ciò che intendevo dire prima, poco più sopra:
    “A 18 anni passai in Anatolia, scoprii il mio popolo e le sue lotte. Lottava con i suoi cavalli magri, con le sue armi preistoriche, in mezzo alla sua fame e alle sue cimici, contro l’esercito greco sostenuto dagli inglesi e dai francesi. Ero tutto stupito, ebbi paura, lo amai, lo adorai, compresi che bisognava scrivere tutto ciò in un altro modo. Ma non ne fui capace. Per trovare il modo giusto era necessario, a quanto pare, che passassi nell’Unione Sovietica.
    Era la fine del 1921. Fui mille volte più stupito, e sentii un amore e un’ammirazione cento volte più forti, perché avevo scoperto, in quel 1921-1922, una carestia cento volte più terribile, e delle cimici cento volte più feroci, e una lotta contro tutto un mondo cento volte più potente, e una immensa speranza, un’immensa gioia di vivere, di creare.
    Ho scoperto tutta un’altra umanità.
    E cominciai a scrivere in un altro modo.”
    E’ questo che mi fa dubitare, nella pur lodevole iniziativa di una rilettura di Hikmet, della efficacia dell’operazione.
    Siamo troppo lontani. Troppo per risalire alla fonte.Mio pensiero, of course.

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  20. Io sicuramente sono lontano perché non conosco né il turco moderno né l’ottomano. Raccolgo piccoli segnali di oralità provenienti dal riuscire a osservare il testo originale e cogliere le costanti ripetizioni che sono riconducibili a strutture orali appartenenti alla tradizione poetica mediterranea e medio-orientale. Oltre questi piccoli elementi, altro non mi è dato di cogliere.
    Però sono convinto che le distanze si possano accorciare attraverso un certo approccio critico e lo studio, e posso assicurarti, Gianluca, che Maria Pia Quircio, Barbara La Rosa e pure Ilaria Targhetta hanno tracciato la strada da percorrere per avvicinare quel punto di contatto.
    Dico “pure Ilaria” perché quell’esperimento di lettura con traduzione mostrò a me questa possibilità: quella sera le sue traduzioni, sorrette dalla conoscienza della lingua e anche della cultura turca (Ilaria Targhetta ha soggiornato in Turchia per ragioni di studio legate a ricerche etnologiche, perciò in una certa misura ha, come Hikmet, “scoperto” il popolo) diedero proprio questo tipo di frutti, e lei mostrò pure i punti di contatto con la tradizione poetica che in Nazim Hikmet è rappresentata dall’incomprensione delle poesie dell’avo.
    Non so se sarà possibile avvicinarsi alla fonte; so che si può tentare di risalire il torrente.
    Un po’ di rafting ammacca le ossa, vero; ma se si è capaci di governare le acque alla meta si può anche arrivare sani e salvi.

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  21. Nel libro intervista di Silvia Ballestra (Baldini Castoldi), Joyce Lussu racconta approfonditamente il suo rapporto con N. H. la sua poesia e il percorso che l’ha portata a quella traduzione voluta e proposta in un periodo in cui difficilmente il pubblico e l’editoria italiana (Sereni compreso, a suo parere) si lasciava attrarre da tutto ciò che potesse essere extra occidentale. Non a caso la Lussu lamenta il fatto che l’interesse (scarso) per Hikmet si sia fermato a quel libro e che non sia stato pubblicato tutto quello che lei aveva tradotto, compreso il carteggio scambiato con Hikmet, a parte la lettera già citata.

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  22. oh! grazie Jacopo.
    vedrò di recuperare il libro della Ballestra (ma non era Dalai Editore? e per altro “non disponibile”) e documentarmi di più su quest’aspetto che come hai ben notato a me interessa moltissimo.
    Sereni poco interessato? forse non capì l’importanza di Hikmet perché proposto solo attraverso il lavoro della Lussu senza altro riscontro. Vero è pure che lui si accendeva di passioni, raro, per poi spegnersi altrettanto rapidamente. O forse aveva capito che i tempi non erano maturi per un poeta turco.
    ma non voglio dare l’idea di quello che difende Sereni sempre e comunque.

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    • Tranquillo, perchè da quel libro emerge anche un certo provocatorio delirio di onnipotenza della Lussu; personaggio che non brillava certo per sobrietà :-).

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  23. no, certo; e infatti credo che al più sobrio e defilato Sereni un’entità così lussu-reggiante non dovesse proprio andare a genio ;)

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