Orfeo ed Euridice (o sulla moltiplicazione letteraria del mito)

di Davide Zizza

 

Il mito è una miniera d’oro per la letteratura universale perché è un vero e proprio generatore di opere che sviluppano idee, varianti, e soprattutto simboli; esso riferisce un fatto primordiale, che nel tempo viene rimaneggiato enne volte, e si scopre così che il volto originario di quel determinato mito ha cambiato i tratti, mantenendone la struttura fondamentale, talora alterando alcuni fattori accidentali. Questo è ciò che distingue in letteratura la tradizione dalla modernità: da un lato il mantenimento di un’ossatura archetipica e dall’altro lo stravolgimento drammatico e brillante degli eventi.
Non si tratta di richiamare concetti sacri e filosofici. La riflessione intende solo portare l’attenzione al dato che dei miti si prestino ad una facile modellabilità per comunicare una verità che fa parte dell’essere umano di ieri e di sempre. Talvolta è tramite l’escamotage del mito riveduto in maniera felicemente scorretta che il testo letterario dice la sua.
Su Orfeo ed Euridice la letteratura non si è mai stancata di moltiplicare le versioni ufficiali, tradizionali e quelle – chiamiamole – apocrife, cioè moderne. È un mito letterario, seguendo quanto ci dice Pierre Brunel nel suo Dictionnaire, i cui rifacimenti hanno sottolineato il carattere profano della storia. Analizzando dei testi ci si accorge che la reinterpretazione della vicenda di amore e morte fra Orfeo ed Euridice non è necessariamente concentrata sulle varianti degli accadimenti, ma in modo prevalente sul piano dell’azione. Si interpreta letterariamente il gesto. Un’azione può nascondere (ecco il valore del termine apocrifo di prima) un significato ambiguo o comunque polivalente, complesso per le ragioni simboliche in sé contenute; di conseguenza tale oscurità sul mito si presta ai dubbi e ai tentativi di ricollocazione di significato che poeti e scrittori hanno riversato nelle loro opere, ridimensionando così la visione poetica e rendendola attuale. Il respicere di Orfeo rientra nella suddetta polivalenza. Quanto ci perviene dalla letteratura, nel presente caso, è riconducibile ad un attimo: a Orfeo – sceso nell’Ade per recuperare la consorte morta una prima volta per il morso di un serpente – viene concesso di riportare alla vita Euridice a patto di non guardarla, ma prima di varcare completamente l’uscita del regno dei morti si volta verso di lei. Euridice muore per una seconda volta perché per “gran furore” egli non ha resistito.
Consideriamo tre varianti letterarie; una versione tradizionale, quella di Ovidio (Metamorfosi, X, versi 1-77):

[versi 45-64]

Orfeo del Ròdope, prendendola per mano, ricevette l’ordine
di non volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito
dalle valli dell’Averno; vano, se no, sarebbe stato il dono.
In un silenzio di tomba s’inerpicano su per un sentiero
scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile.
E ormai non erano lontani dalla superficie della terra,
quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,
l’innamorato Orfeo si volse: subito lei svanì nell’Averno;
cercò, sì, tendendo le braccia, d’afferrarlo ed essere afferrata,
ma null’altro strinse, ahimè, che l’aria sfuggente.
Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?);
per l’ultima volta gli disse ‘addio’, un addio che alle sue orecchie
giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.

Rimase impietrito Orfeo per la doppia morte della moglie […]

e poi un’altra versione, più apocrifa, di Robert Browning:

[A Selection of Works from Robert Browning, 1865]

Eurydice to Orpheus: A Picture by Leighton

But give them me, the mouth, the eyes, the brow!
Let them once more absorb me! One look now
Will lap me round for ever, not to pass
Out of its light, though darkness lie beyond:
Hold me but safe again within the bond
Of one immortal look! All woe that was,
Forgotten, and all terror that may be,
Defied, – no past is mine, no future: look at me!

per arrivare infine ad una lettura ancora più apocrifa della precedente, tratto dal dialogo L’inconsolabile di Cesare Pavese (dai Dialoghi con Leucò):

“E’ andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravidi il barlume del giorno. Allora dissi “Sia finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolìo, come d’un topo che si salva.”

Perché Orfeo si gira a guardare Euridice? Cosa ci danno ad intendere i nostri autori? Da che parte stanno e quale punto di vista adottano? I tre brani riflettono tre opposte visioni e riusciamo a intuire, senza andare troppo lontano, il filo logico applicato. Ma l’originalità della reinterpretazione risiede nel ricollocare il senso di tutta la storia basandosi su quel gesto. Non si può negare, all’apice del simbolico, che la morte di Euridice corrisponda alla morte di una storia d’amore declinata con uno stato di coscienza sempre diverso. Ovidio fa credere che sia stata l’ansia di Orfeo a tradire la sua volontà, per Browning Euridice è cosciente più dello stesso Orfeo che la storia è finita e in quel “look at me!” suggella e prende su di sé la responsabilità dello sguardo, col finire nella versione disarmante ma tanto originale quanto autentica di Pavese: “‘Sia finita’ e mi voltai”. La consapevolezza di una storia conclusa qui raggiunge un tono di crudezza, meno dedito al rammarico.
Chi dei due decide la fine? Orfeo che si gira o Euridice che lo spinge a voltarsi? E Orfeo è dispiaciuto davvero o in realtà ha una sensazione di libertà? Mi verrebbe da rispondere, con Borges, che in letteratura si celano più dubbi che certezze perché l’opera letteraria è un indovinello che si rinnova. In queste rivisitazioni il mito adotta un carattere di adeguamento alla modernità, nonostante il plot narrativo resti quasi inalterato nel suo tessuto. Se da una parte gli esempi proposti possono apparire come realtà già appartenenti al nostro retroterra culturale, dall’altra operano un cambiamento nella coscienza nel momento in cui le valutiamo, e riconfermano inoltre la funzione letteraria del mito come spazio narrativo in cui rintracciare un messaggio universale, offrendo al lettore la possibilità di una consapevolezza più ampia.

16 risposte a “Orfeo ed Euridice (o sulla moltiplicazione letteraria del mito)”

  1. il mito di Orfeo ed Euridice ha per me un significato particolare, legato, in parte, alla mia adolescenza (qualcuno direbbe “sì cioè a un anno fa” :-) ) e alla mia scoperta dei Classici come patrimonio imprescindibile per la mia vita.
    Grazie di questo intervento in Poetarum!

    Madda

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  2. La leggenda di Orfeo che incanta le belve ed Euridice
    è una bella storia d’amore non a lieto fine che ci
    danno in più versioni.

    Il musicista Gluck ha creato con la sua musica
    un capolavoro: chi non l’avesse fatto, ascolti
    il brano cantato da Tito Schipa:
    Che farò senza Euridice. E’ una musica celestiale.ud

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  3. per ovvi motivi mi sento “parte in causa” e mi permetto di provocare chiedendo perché non è a lieto fine?
    io ho sempre visto nell’explicit del mito la liberazione di Euridice e la dannazione di una certa idea di amore in Orfeo (e qui interviene la riscrittura di Virgilio e le Erinni che straziano il corpo di Orfeo con il suo capo che trascinato dal corso d’acqua continua a cantare).
    Euridice alla fine è eternata nel canto, cosa che non le sarebbe successo se fosse ‘uscita’ dall’Ade

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  4. Nel ringraziare Davide Zizza per queste riflessioni, mi permetto di aggiungere un ulteriore fattore alla “moltiplicazione letteraria del mito”. Si tratta dell’opera di Claudio Magris “Lei dunque capirà”, “versione moderna del mito di Orfeo e Euridice”, come ha avuto modo di affermare lo stesso autore in occasione di un incontro pomeridiano al teatro India a Roma il 27 settembre 2011, che ha preceduto la rappresentazione della pièce. Nel monologo della donna si chiarisce che, in questa versione, non siamo di fronte a “un atto estorto, imposto”, ma che è ‘Euridice’ a compiere “una scelta di assoluta libertà” (C. Magris).

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  5. scusa davide, sono curioso di una tua eventuale risposta alla domanda che ti fa Fabio Michieli

    (e grazie per l’articolo)

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  6. Hai ragione Gianni caro, e anzi chiedo scusa per la disattenzione :-). Premesso che tempo fa pensavo di approntare una “mia” versione di Orfeo ed Euridice, ma non mi reputo capace di un’impresa di rifacimento così importante. Qui ho preferito buttare il sasso e stuzzicare punti di vista diversi. In tutta franchezza mi ritrovo in quello che dice Fabio: perché interpretare una storia d’amore con un’accezione tradizionalmente negativa? Nell’articolo ho inteso esprimere il lato puramente strutturale e brillante di un mito che non finisce mai di dire quel che ha da dire. E di fatti a ben vedere l’impianto della presente riflessione si aggrappa alla domanda “Orfeo è dispiaciuto davvero o in realtà ha una sensazione di libertà?”. In sintesi ho posto la domanda, cioè cosa nasconde la coscienza di un atto. Certo la mia opinione tutta personale è chiara: “Non si può negare, all’apice del simbolico, che la morte di Euridice corrisponda alla morte di una storia d’amore.” Ma in effetti se una storia più non “vive”, a prescindere dalle cause, è una storia d’amore conclusa, e anche se Euridice vive in eterno nel canto di Orfeo, Euridice non c’è più, manca la presenza.
    Nelle versioni non ho preso posizione di simpatia, ma solo sottolineare il meccanismo di riproposizione di varianti diverse, le quali confermano che la letteratura è un continuo indovinello.
    Grazie come sempre a voi per l’interesse verso questo intervento :-).

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  7. Davide la tua risposta è davvero interessante, perché foriera di due possibili interpretazioni tra le varie interpretazioni possibili (e già sono nel paradosso):
    1) la scelta di porre fine è di Orfeo che non “vede più” Euridice e riconosce in ciò comunque l’impossibilità di “riprendere” ad amare. ma questa lettura è comunque dalla parte di Orfeo e Euridice prima era il trofeo d’amore in vita e ora è il trofeo d’amore in morte;
    2) Orfeo capisce che Euridice è passivamente al suo seguito? comprende che quell’amore vissuto non può essere rivissuto?

    in realtà, e di questo mi scuso, la mia provocazione nasce dal fatto che anni fa scrissi un dittico su Orfeo ed Euridice finito poi nella mia raccolta “Dire”.
    per correttezza riporto i due componimenti:

    ***
    (Orfeo a Euridice)

    superai il corpo e il salto mi portò
    oltre l’ombra accasciatasi sul suolo
    dove nera svaniva anche l’attesa…

    ma tu continua a non temere il salto
    che m’inselva oltre il limite concesso,
    ora che dal Lete pura risorgi

    ***
    (Euridice a Orfeo)

    voltati e guardami! sei tu: sono io:

    m’interroga il silenzio sceso come una nube
    a cingermi e salvarmi dall’intorno vociante –

    ora voltati e guardami! ti supplico:

    spegni il tuo amore incauto! eternami nel canto!
    annientami: dissolvimi: esaudiscimi: annullami

    sia chiaro che in tutto ciò non c’è la volontà di gareggiare né col mito né con i riscrittori dello stesso. è solo la mia personale interpretazione del mito di Orfeo che mi “assilla” dai tempi in cui ne studiai la riscrittura del Poliziano.

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  8. Ti ringrazio io Fabio. La provocazione è una scintilla di piacevole confronto, quindi non c’è nulla per cui chiedere scusa, anzi la tua lettura attenta ha messo in luce i fattori fondanti che nel mio intervento erano tesi solo a dare una veduta d’insieme. Mi fa molto piacere leggere le tue versioni perché aggiungono e motivano quel senso di urgente domanda che si nutre verso un mito. Grazie ancora.

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  9. Rilke, “Orpheus. Euridike. Hermes”:

    “Chiusa era in sé. E il suo essere morta
    la riempiva come una pienezza.
    Come d’oscurità e dolcezza un frutto,
    era colma della sua grande morte,
    così nuova che tutto le era incomprensibile.
    […]
    E quando bruscamente il Dio, fermatala,
    con voce di dolore
    esclamò: Si è voltato –
    lei non capì e in un soffio chiese: Chi?”

    E’ forse lei la mia angolatura preferita; qualsiasi sia la condotta di Orfeo – e Orfeo, nel mio immaginario, è Blanchot – lei è perfetta come i morti, puro canto.
    Scusate la botta di allegria.

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