A tutti i compagni di mestiere
alcune idee
intorno all’ “incendio del cuore umano con la parola”.(*)
Cos’è la poesia?
Una bazzecola.
Uno scherzo.
Ma per questi scherzi mi viene il raccapriccio.
Uno sguardo con l’occhio della mente sulla federazione,
e per il dolore sono pronto a strillare e ad accapigliarmi.
Per tutti i dintorni
un ventimila poeti stanno piegati ad arco.
La vita li ha rinsecchiti come stoppie.
Sono affamati.
Con i gomiti di fuori.
Ma giorno e notte
son lì che incendiano
cuori di uomini innocenti con la “parola”.
E’ scritto.
Pronto.
Si chiede: ha incendiato?
Se ha incendiato!
Il cuore e anche il costato.
Ma almeno capisse il gregge poetico
che i cuori
bruciano
solamente di vergogna.
Giudicate:
come se ce ne fossero poche di parole in Russia,
si scervella un qualunque spilungone.
E
tira su,
come uno spillo dal fango,
una sciocchezza qualunque,
ma la più facile a rimare.
E ce n’è nella lingua di scemenze simili
che da sole
come un campanello
ti si cacciano nelle orecchie!
Lui la sceglie.
E di nuovo ripassa sul pettinato
perché l’immagine sia “plastica”,
“poetica”
E pettina…
E ancora a gemere:
il feroce direttore ha un debole per i giambi.
Ma provati un po’
a ficcarci dentro
nel giambo
qualche parola
come, ad esempio, “mammifero”.
suda davvero allora
sopra il foglio.
Solo in margine,
su una striscia stretta stretta,
corte righe stanno stese come un verme solitario.
Quanto al resto,
solo punti e virgole.
Una bella lingua, e l’hai tutta sbriciolata.
Peccato, gli spiccioli spesi per la scuola!
In redazione
c’è una tale banda di poeti
che il direttore ha un versamento cronico di bile.
Urta la banda
coi gomiti, con le porte,
e il fattorino urla: “ci siamo riempiti di canaglie!”.
Ma loro vivono in silenzio
in un altro mondo.
Il successo raramente arride al poeta.
Solo quando il direttore si dà troppo al talmudismo,
e si riesce ad affibbiargli alla sprovvista
qualche cosuccia
di due anni prima
lasciata a lungo nel cassetto.
E alla fine
il proto,
sbuffando su quelle scemenze,
taglia il già composto in corpo sei
e chiude coi versi un corpo dietro l’altro,
a strazio dei genitori e a gioia dei critici.
E chiede aumenti il compositore.
Si capisce,
deve comporre storcendo il naso.
Ma in me una decisione è maturata:
d’aiutare questa gente.
Sarebbe un vero peccato se no.
(La proposta andrebbe bene specie verso primavera,
quando tutta la Nep si sprofonda nei versi.)
Io non sono contrario a quella poesia.
Per niente.
In primavera un malinconico tedio ci attira.
Ma abbasso i lavori a mano!
Non c’è nulla di più vecchio
dell’artigianato.
Come specialista d’un lavoro simile
(non avrete niente da ridire),
vi comunico una ricetta universale.
(La novità
è che col mio metodo
i fattorini di redazione sostituiscono i poeti).
La ricetta
Le regole sono semplici, assolutamente,
(Sette in tutto)
1. Si prendono i classici
se ne fa un rotolo
e si passano in un tritacarne.
2. Quello che ne esce
si butta in uno straccio.
3. Quindi, lo si espone all’aria aperta.
(Badare che sulle “immagini” non si affollino le mosche)
4. Lì, si scuote appena appena.
(Se no i segni deboli s’induriscono troppo.)
5. Si lascia seccare (perché non abbia il tempo di eternarsi),
poi si versa nella macchina:
una comune pepaiola.
6. Quindi,
si applica sotto la macchina
della carta appiccicosa
(per prenderci le mosche).
7. Ora è semplice:
gira la manovella,
e attento che le rime non si ammucchino tutte insieme.
“Sangue” con “langue”,
“intorno” con “giorno”,
tutte disposte bene
una dopo l’altra.
Adesso prendi tutto e …
è pronto per l’uso:
per la lettura,
per la declamazione,
per il canto.
E per guarire i poeti da sfaccendate malinconie, così che non si sentano invogliati a sprecar pezzi di carta,
toglierli alla giurisdizione del buonissimo Anatolij Vasil’evič (**)
e passarli a quella del compagno Semasko. (***)
1923 – Vladimir Majakovskij
__________
(*) Perifrasi dalla poesia “il vate” di Puškin.
(**) Commissario del popolo all’istruzione.
(***) Commissario del popolo alla sanità pubblica dal 1918 al 1930.