Fabio Teti – due testi “precari”

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Raymond Meeks
  precari due testi da: sotto maggiori paragrafi . - di Fabio Teti

.

§

.

cassetti con le ovaie dentro, con le pleure,

e non ci sono. cassetti con il gordio delle viscere.

né si ammette qui la serie ottativa

– l’«oh potesse» – (trovarli). buio

.

con dentro le mandibole, le ossa

della bocca. sanno drenata

la canción del agua, la historia

. 

de su alma. le corde in nylon,

invece, al balcone – i panni stesi sul

massacro. così cos’è taciuto

– e la ragione

.

§

.

se osservano è con le pellicole a falsi colori:

tutte isoiete chiare e fresche, allora, isoterme. i tracciati.

con vigore poi all’«a-apra», «tras-z» –

gliene sfavilla tavola del risiko, la sera. / sotto

.

è l’acido sui volti, nessuno potrà ritrovare

.

nessuno. l’ossidazione fuori, delle grate; il nido nelle

rimangiato dalla ruggine e rainer, fallo tu

il concione agli angeli, quella trafila,

sulle forficule, sul numero di serie inciso a

montatura, degli occhiali:

4  3  5  2  5

.

nota:

per «la canciòn del agua» e la «historia de su alma» si veda García Lorca, Mañana, 1918.

«rainer» è il Rilke, particolarmente, della settima e nona elegia duinese.

43.525 sono le paia di scarpe ritrovate ad Auschwitz dai sovietici, dopo la liberazione.

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13 risposte a “Fabio Teti – due testi “precari””

  1. Mi sembra che si possa dire di questa poesia, con le parole dell’attacco della settima elegia duinese di Rilke, nella trasformazione dell’ottativo in esortativo:

    “Werbung nicht mehr, nicht Werbung, entwachsene Stimme
    sei deines Schreies Natur”

    “Non più corteggiamento, non propaganda, voce emancipata
    sia la natura del tuo grido”

    (mi assumo la responsabilità della mia traduzione che si discosta da quella dell’edizione italiana delle Elegie duinesi)

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  2. @ Viola [che se ricordo bene, mi battezzò un anno addietro col primo commento]: convintissimo non sono, o comunque assai a rilento; ma ti ringrazio.

    @ Anna Maria: bisognerà capire il segno di questa emancipazione, se negativo o positivo. che, a premermi ancora di più, è l’emancipazione dello sguardo – la sua consapevolezza: del margine da cui, del mezzo in cui, della ragione per cui guarda (e guarda con la voce, anche). da altri miei testi, probabilmente, questi motivi emergono con diversa precisione.

    un caro saluto,
    e un grazie a Natalia [perché le rane imbottigliate di Meeks sono vive, credo di capire ora, e a tutta prima le avevo date per spacciate…]

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    • sono tragicamente vive e danzano macabramente] penso ad un’incisione di memoria, in cui la “precarietà” è tragicomica variante che l’uomo fa della sua storia: giusto per tacere, o non imparare, o dimenticare ciò che non conviene.
      43.525 [ ! ]
      venga l’esortazione, l’emancipazione – magari, ed oltre.
      grazie caro Fabio…

      Hail

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      • venga; ma poi quella cifra, quell’incisione immanente alla stessa possibilità di vedere, ahimé la nega, l’emancipazione, dice: “non un minuto guarderemo nel bene”.

        come le rane, appunto (seppure quel soffione a lato, fuori fuoco…)

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    • ma non penso affatto tu voglia fare polemica, per carità… se una cosa non arriva o non piace si è liberi di dirlo.
      Beh.. andando a noi. Se leggi la nota in calce ai testi, trovi subito delle chiavi di lettura.
      In più ti dico che il titolo che racchiude i testi fa riferimento alla Vita nova, laddove Dante decide di scostarsi dai fabulosi parlari della gioventù per rivolgere la sua attenzione ai “maggiori paragrafi”, quelli in cui si incide la memoria. Il “maggiori paragrafi” viene cambiato dall’autore in “precari” a sottolineare la precarietà attuale della vita in generale e della memoria stessa, soggetta anch’essa agli inganni dei nostri tempi e della storia che pare non insegnare. Evidente poi nel secondo testo il riferimento ad Auschwitz ed al teatro degli orrori del nostro recente passato.
      Si ripeterà? si ripeterà questo orribile scenario?
      insomma la memoria dovrebbe rispondere a questo quesito…. ma come risponderà?
      nella precarietà del titolo si cela lo sconforto in merito.

      Ecco, ti dò la mia lettura, magari inesatta e poco esaustiva, ma “purchessia” hai scritto ed io di fatto ho risposto.
      a presto, ciao
      nc

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  3. Bon: io ringrazio – davvero – Natàlia per l’intervento perché effettivamente, Perelà, avrei qualche imbarazzo a risponderti sul “bravo de che”, giacché non sta a me farlo. Poi tu, nel 1911, sicuramente certe cifre incise sugli occhiali non le avevi – io che vuoi che faccia, si vede così male qui (e scrivere figurati).

    comunque, qualsiasi domanda specifica tu voglia rivolgermi, sono qui a risponderti, altrimenti pubblicare su un blog non avrebbe senso. diversamente, ottime chiavi le ha fornite qui sopra Natàlia, e dovrebbero bastare.

    un saluto

    f.

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  4. La poesia di Fabio sorprende e “s’infutura”, direbbe qualcuno che ne sapeva più di noi. Fa proprio quello che dovrebbe fare una poesia contemporanea. Dialoga.
    Lo statuto della poesia è proprio quello di essere “significante” e “comunicativa” per il suo stesso inserirsi all’interno di una tradizione. Qui c’è un certo sperimentalismo supportato da grandi consapevolezze teoriche. La poesia più la consapevolezza teorica più la tradizione rendono significativo e comunicativo un discorso anche quando destrutturato ed al di là degli schemi della sintassi consolidata.
    L.

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  5. caro Luciano, ti ringrazio dei – e glisso subito sugli, anche eccessivi – complimenti (“s’infutura”: ahi lasso, è già tanto se ci si tiene verticali…).

    mentre rifletto e rifletterò invece sulla terna da te delineata – poesia, consapevolezza, tradizione – che, pur sembrandomi assai generosa nel suo riferirsi a o dedursi da questi due testi, può – articolata – dare vita a una costellazione nella quale effettivamente posso, per il modo che ho di praticare la scrittura, sentirmi necessitato.

    vorrei salutarti/arvi con una citazione portiana, tratta da una bella pagina de Il re del magazzino, che forse può porsi a monte dell’attributo “sperimentale” che tu accordi ai miei testi e che non di necessità – o non per tutte le zone di quanto ho scritto e scrivo – sento come connaturato. non si arriva sul foglio per tradurvi un sapere già acquisito, un’esperienza già data, insomma – magari semplicemente da sversare in forme coerentemente espressive o accattivanti. non c’è mai una strategia teorica, per quanta consapevolezza possa esserci, che il testo si limita semplcemente a dimostrare e avverare, o a scalfire in stile (o non avrebbe senso praticare la poiesi, che è una forma e forza gnoseologica alternativa e in un certo senso “nemica”, laddove uno scritto storico, giornalistico, filosofico, logico-formale, scientifico, propagandistico, pubblicitario, raggiungerebbe con mezzi migliori e l’obiettivo, sia esso il “messaggio” o “l’esposizione” o la “persuasione” etc. ).

    “Sappiamo che niente accade per caso (ma questo uso smodato del verbo *sapere* per esprimere un’acquisizione anticipata rispetto al discorso, non è un alibi, uno scarto dell’intelligenza pigra, neghittosa? Sì, è un alibi: mi accorgo, scrivendo, di quanto poco *sapevo* prima di scrivere, prima di esercitarlo questo sapere presunto)”

    Hail,

    f.t.

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