Dalle faglie del polje di Erebo

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Dalle faglie del polje di Erebo

cola denso il fiume Thanatos

giù, fino all’imbuto della dolina

di Emera, dove il Grave dell’Ade

accede profondo alla Risorgiva.

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Dalla bocca di bava del Pozzo

dondola il mio capo assonnato

che ciondola incerto sull’orlo

del Nulla, come un pendolo

che non sa battere l’ora.

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Il cappio al ventre mi lega

al bozzello di Stige, di Caronte

il battello veloce, dalla stiva

d’ampiezza infinita da dove

proviene la voce che dice: …

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Mi fa un nodo alla gola l’inghiottitoio

che stringe e per i piedi mi spinge:

strabuzzo gli occhi, la luce m’annaffia,

l’aria mi gonfia – leggero leggero,

il peso mi schiaccia.

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Il Grave dell’Ade su di sé si richiude

e non m’inghiotte. Qualcuno sega

il laccio al verricello: di schianto

mi stacco e precipito tra le braccia

d’una darsena,

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dove non mi resta che piangere mentre

aspetto che vengano a riprendermi.

3 risposte a “Dalle faglie del polje di Erebo”

  1. E’ forte, piena, magistrale, una catena di irte memorie di storia. Quella “piana” dei merli, in cui si aguzzano i cervelli, per trovare dove s’infoiba la turpe, cruda assassina volontà di un mondo che non è infero ma animal-mente tutto umano.Dai merli danteschi da cui calano le gorgoni, che pure un tempo, nei primordi dell’umanità, non erano atroci aguzzine feroci, ma fiere generatrici di fertilità, fino alla chiusa, è forte l’impatto con la Divina Commedia,almeno così lo sento. Pure c’è, in quella circoscrizione di tormentata in-quietudine, una parte cedevole che,personalmente, modificherei così, per dargli più nitidi confini.


    Mi fa nodo alla gola l’inghiottitoio che stringe
    e per i piedi spinge gli occhi
    la luce strabuzza e l’aria mi gonfia –
    leggero soverchiante e leggero
    il peso mi schiaccia.

    > Ed è per questi tuoi versi che ho scritto, quasi di getto, il mio ritorno di bolina. Grazie,ferni

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  2. Ciao Fernanda,
    il richiamo ad alcune figure dantesche c’è ed è palese, come pure c’è molta mitologia.
    L’atto di nascere è qualcosa di profondamente fondativo e, allo stesso tempo, talmente estraneo al mio essere hic et nunc che non sono riuscito ad immaginarmelo diverso da un “mito”.

    Quello che tu vedi come un “cedimento dell’inquietudine” è in realtà un voluto cambiamento del timbro e del ritmo della strofa rispetto alle precedenti più “pesanti”, inquiete. Ho cercato di immaginare il parto di me stesso (sarebbe sconvolgentemente geniale se potessi ricordarlo coscientemente) come un iniziale trambusto, uno sconvolgimento che si trasforma in una condizione nuova, non sperimentata (l’aria mi gonfia leggero leggero, il peso mi schiaccia)cercando di dare alle parole lo stesso ritmo di improvvisa accelerazione delle nuove sensazioni. Poi, l’inquietudine torna daccapo, quando tagliano il laccio al vericello e, precipitando nelle braccia di una darsena, mi chiedo: e adesso?
    Poi si piange.

    Grazie per la lettura.
    Luigi

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  3. In effetti pensando alla nascita, quella natural burella che porta a (ri)veder le stelle da un’altra postazione,l’attraversamento dell’utero materno si sente nelle righe che ho tentato di segnare, con il ricordo volto alla nascita dei miei figli, ripensando all’attimo in cui li ho visti senza un vetro divisore, quello delle ecografie e della visione falsamente in 3D del monitor. Al momento della nascita, pur leggeri, il peso dell’aria si opponeva a quel loro corpo ma, allo stesso tempo sembrava dare loro una dimensione in più gonfiando il loro corpo, nuovo involucro fuori dal mio, corpo-ventre.Ed è la relazione, la responsabilità per quella loro fragilità e la mia, di persona come loro, che ti schiaccia, poi, e ti pone nelle condizioni di dare misure nuove alla tua vita che, prima della loro, segue un percorso di ritorno.Ciao, ferni

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