Era soltanto un anno fa.
Voi, che giustamente coltivate la memoria, celebrando giorni della memoria e del ricordo, di eventi che non avete visto, memoria dei vostri padri, perché voi non c´eravate ancora o, al più eravate bambini, voi siete in grado di ricordare anche l´ieri?
O la vostra memoria soffre di quella malattia senile che rievoca la fanciullezza ma impedisce di ricostruire il presente?
Voi, che fate accurato e pubblico esercizio di memoria, ricordate questi giorni dello scorso anno? Sono stati un pugno, ventidue giorni, ma così carichi di morte e d´infamia che non e´ lecito dimenticarli.
Hanno lasciato il frutto di 1415 morti (di cui 400 bambini e migliaia di mutilati) ed un terreno inquinato con quantità di sostante tossiche, che lavoreranno in silenzio, oltre che feriti, orfani, miseria…
Voi che non lasciate, giustamente, che l´oblio permetta il ripetersi dell´orrore, voi anche questo orrore, così vicino, volete che non si ripeta? O rispetto ad esso avete un nobile distacco?
Non volete ricordare l´orrore dello scorso anno? Perché non si ripeta mai più?
Gaza è ancora sotto duplice assedio ed embargo: Israele e l´Egitto i suoi carcerieri.
Non sento innalzarsi voci, se non quelle della società civile internazionale.
Era soltanto un anno fa e solo pochi lo ricordano.
Per Gaza, 17 gennaio 2010
Flavia Lepre
NON IN MIO NOME
Io chiedo scusa al popolo palestinese per le dichiarazioni del presidente del consiglio italiano, sig. Silvio Berlusconi, pronunciate al parlamento israeliano.
Io chiedo scusa ai palestinesi superstiti e a quelli orrendamente trucidati nella feroce aggressione di un anno fa a Gaza, operazione denominata col sinistro nome di “piombo fuso”.
Io reputo vergognose le parole di approvazione del sig. Silvio Berlusconi per un massacro di più di 1400 civili indifesi – di cui circa 400 bambini – e migliaia di feriti e mutilati, parole che falsificano la storia, parole pronunciate in disprezzo dei più elementari diritti umani. Il sig. Silvio Berlusconi ha plaudito al genocidio, ma non l’ha fatto in mio nome.
Il sig. Silvio Berlusconi non ha parlato in mio nome, e non può permettersi di parlare in nome del popolo italiano in virtù di una maggioranza parlamentare che poggia su una coalizione legata da innominabili interessi.
Io chiedo scusa al sangue, alle mutilazioni, alle lacrime, alla sofferenza ed alla disperazione del popolo palestinese, abbandonato al suo destino da quell’intreccio di giochi di potere definito comunità internazionale.
L’obbedienza che il sig. Silvio Berlusconi deve al capufficio di Washington ed alle lobbies ebraiche non infangherà la mia dignità di essere umano, e nemmeno quella del popolo italiano, mai.
Non in mio nome.
Luigi Di Costanzo
40 risposte a “NON E’ POESIA”
Non in mio nome, Gino, non in mio nome!
Ricordo bene il dicembre 2008, io e te ci siamo conosciuti in quello sdegno, in quel dolore e ti ringrazio per questa sferzata di aria buona nella melma maleodorante di questo presente ottuso e cieco.
GRAZIE
lascio qui il mio “NO”:
NOTTE DI GAZA, 28 DICEMBRE 2008
Affilo gli accenti e le virgole ai pensieri,
– Acuminati –
feriscono le orecchie sulle dita della notte,
nella carne di sospiri ed urla innocenti
una lingua di terra benedetta da più dèi
nel sangue degli eletti:
ieri bambini senza corse
oggi fame senza domani
e sete senza speranze.
Pianto di stelle anche stanotte
nel cielo dei soprusi
d’umano invocare divine discolpe
per rammendare squarci di carne ed anima
nello scendere del sipario sull’infamia del mondo.
*
STORIA SENZA STORIE
Terra di cedri ed ulivi,
terra di pietre maledette
in nome di quale dio affoghi
in rovi e polveroso affanno
per diritto d’un popolo
nella diaspora nutrito
d’amaro sale e dolore?
Ieri vittime tatuate a numero e fosse
non vedono lo scempio
del proprio diritto
nel disumano vissuto genocidio?
Acre odore macabro di decenni
e sangue di disperazione e fame
sulle terre sfrattate e mutilate
non giungi ancóra
alle narici dei nuovi Pilato
immobili a decretare
nel complice silenzio
il trionfo dell’inferno sulla storia.
*
KAMIKAZE
Stringhe di dolore annodano l’olfatto
d’un caffè bruciato nel vapore d’un mattino uggioso.
Ricarichi le ossa nella tosse d’una sigaretta
che spezza anelli di fumosa esitazione e paura.
Avvolto nel giubbotto logoro di anni e sogni
ti accompagni all’odore del letto vuoto
sul sedile d’un metrò.
Ti giri di scatto nel presagio di un nulla
vuoto del ricordo:
negli occhi danzano le lettere d’una stazione
senza ritorno
sbiadite nel sudore d’un biglietto accartocciato tra le mani.
Rimbocchi il colletto
mentre il freddo ti scorre nelle vene,
[t’inonderà il silenzio
violento nel rapido finire].
Non baratti la ragione con la vita,
chiudi gli occhi sul suo sguardo di tizzone
ed è un addio
per una causa senza stato né nome.
*
natàlia
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A tutti i palestinesi: Berlusconi ha parlato per sè e per la supposta maggioranza che l’ha votato. Io mi onoro di far parte della supposta minoranza.
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No ,naturalmente non in mio nome…..
Da Gaza.
Gaza: Testamento di una madre….
Principi carenti d’essere
dentro una terra
Mai paga di sangue
Sbarre striate di vergogna
Sopra una gabbia
Che lesina aiuti
Scandali assopiti
Nel decoro
In una società
Senza remore di divieti
E poi soli fra tutti
Coloro che raspan
Dura terra
Per raccattare
Una fiaccola accesa
Una madre scrive……..
Qui si sprofonda nel limo
Di uno stagno nero
Qui agli alberi stessi
Senza tronchi né zolle
Non è dato ricoprirsi
Di verdi germogli
Qui l’acqua non erompe
Innocua da cime invernali
Ma rocce può frantumare
Mentre sibila il vento
Come pianto
A lungo represso
E amarezze riversa
Su chi ci cammina accanto
A noi non è dato
Indugiare sull’erba
E ascoltare il vento
Che modula gemme
Quando anche i sogni
Violentano l’anima..
Quando anche i ricordi
Sfiatano al tempo
Fuochi passati..
E’ difficile sperare
E se poi anche la luna
Inganna spazi aperti
Gli occhi assorti nel nulla
S’arrendono prima o poi..
Perciò lascio questi pensieri…
Mi sfiora il tempo
Con afflati nuovi
E rubo al mondo
I suoi spazi azzurri
Fuggendo l’ombra
Dai contorni netti
Afferrerà il tutto
Come un sussurro
Chi il cuore pasce
Di improvvisi guizzi
Chi va in silenzio
Per ascoltare un canto
Chi accorda insieme
Attimi d’eterno
Senti
E’ un fluire
di diafane visioni
In cui scie
Restano di parole
Perciò scrivo
Frantumando
Un abisso senza fondo
Sostando al largo
In cui l’onda
E’ regno
Odi
Un mormorìo
Si sprigiona intorno
Di sole e vento
Di luce e vita
Dentro
E’ il segreto
Che non disturba
Il giorno
Maria Allo
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Etel Adnan, JENIN
E quella notte, quando smisero di piovere tigri
e paraventi,
mentre coloro che erano venuti per rapine a mano armata
andavano via con un magro bottino,
dopo la chiusura degli amari caffè, e
dopo l’ora in cui i bordelli cominciano
a ricevere i clienti, quando gli stoppini si furono spenti
nelle loro lampade
e i preti furono tornati alla loro
abituale pedofilia,
quando la pioggia ebbe paura perché
le bombe cadevano più veloci
della luce,
un fumo denso, fatto di ossa bruciate
sopra un fuoco tenue
e trasformato in “Calcio-Palestina”,
discese,
e riempì di disperazione le gole dei boia
che poi andarono a lavarsi dalle loro madri
con le orecchie allucinate
perché sentivano le famose
trombe di Jerico
e confondevano gli anni con le stelle,
i cavalli con i granchi.
E la notte si rifiutò di piovere sulla testa della pecora,
e noi vedemmo lampi misti a
nuvole ingrossate con il sangue e le lacrime,
e la materia cominciò a parlare direttamente con i morti,
che non ascoltavano più,
e la gente non aveva voce,
e noi camminammo su rovi, spine e cardi,
e i nostri occhi esaurirono il vocabolario delle
ombre della morte,
e allora discese – seguendo la pioggia – un
angelo di cui nessuno conosceva il nome.
Egli cominciò a contare i feriti qua e là
e le amputazioni fatte con coltelli da cucina,
e quell’angelo scrisse ogni cosa in un libro di
oro e fango.
Per questo il mare dilagò, tremò di terrore,
obbligò le sue onde a vigilare,
e noi, al sentire suonare strumenti barbarici
giurammo che dovevamo uccidere la vita, e la morte,
avendo già visto uno spazio di lacrime e fuoco.
Nessuno uscì vivo dal campo
ma il tuono scosse le case piene di bambini,
e la miseria indossò abiti da donna,
e nessuno si fermò, mentre tutto ciò che era vivo
era morto.
Avvolgemmo la morte in una enorme bandiera e
la calammo in quella fossa comune che era diventata
la città: il cibo quotidiano dei suoi abitanti
furono le briciole aride della memoria.
Non disegneremo linee diritte ma chiederemo
alla primavera di tenere un diario di guerra,
chiederemo all’autunno di prendere posto fra i traditori.
Illumineremo le finestre con cera che brucia,
ma non chiedete ai pipistrelli di indicare la strada alle
volpi del deserto.
Preparate i camion che ci porteranno
al mattatoio.
Lì, si terrà un banchetto con bollitori
pieni di agnello cotto in limone e sangue.
Un banchetto preparato per i generali vittoriosi,
quello appena descritto.
Il sole si velò.
In un’orgia di furia, sleale ed efficiente
una tempesta si portò via i letti.
Le armi per uccidere sono più fredde dell’aria
che le circonda. Feriscono ma non fanno paura.
A Jenin è stato creato il male da un nuovo ordine.
Il male ha subito una mutazione che è
l’opposto di quella che ci aspettavamo.
Abbiamo dunque diritto ad odiare – ma non
ci affrettiamo a stupide conclusioni. Non siamo di questo mondo.
Le foreste stanno crescendo più fitte, gli animali notturni
stanno generando mostri.
Il male ha bussato alla porta, nella stessa
notte in cui la pioggia ha smesso di cadere.
I boulevard stanno perdendo attrattiva.
I cavalli corrono ad annegarsi,
senza alcuna ragione.
Viviamo nel perimetro tempestato di stelle
dell’incubo che esaspera la bellezza di questa primavera,
una primavera abitata da alberi in fiore,
montagne umide coronate da nubi translucide,
e la brezza che si mantiene sveglia quando i nostri
occhi smarriscono la strada da ovest a est attraverso
le colline rosa.
Ecco il dolore della gente che è circondata
da carri armati e incarcerata dallo sguardo
di assassini che hanno attraversato confini che sono
null’altro che le prime linee delle loro
molteplici prigioni:
tutto ciò solo per aggravare la bellezza di un mondo
posseduto da un’altra follia, estranea alla nostra
condizione.
C’è un tragico incontro fra la morte
di alcuni e la vita moltiplicata di altri:
altri essendo le gelide e felici onde
di un oceano che muggisce il suo piacere di essere nato
un’eternità prima della nostra misera coscienza.
La differenza fra ciò che imputridisce
e ciò che non smette di rinnovarsi
ci fissa.
Viviamo negli abissi.
Altrove la nebbia inghiotte le zone industriali.
Emanazioni di ciminiere che costellano
l’orizzonte riempiono le bocche di lavoratori necessari ma
dichiarati indesiderabili.
I gas bruciano le loro memorie.
Hanno dimenticato che prima di imbarcarsi sul battello
avevano un nome e un indirizzo.
Come buonuscita avranno malattie incurabili.
Lassù, sulla mia unica montagna, gli uccelli emettono
canzoni in codice, volano a coppie,
colpiscono l’aria con le ali e con gioia.
Nelle nostre teste sigillate i pensieri rappresentano
un vomito di gas velenoso –
e ricompensano se stessi.
La funzione primordiale della sopravvivenza
sta fornendo scuse per la morte;
è per questo che la Natura con noi ci ha rinunciato.
Rimane inaccessibile.
Quello che noi ne diciamo
non è che un pallido riflesso della sua realtà.
Ci siamo resi estranei
al nostro destino
sebbene la nostra infanzia
mostrasse un’esuberante lucidità.
Cosa è accaduto al passato?
Gli assassini non si fermano alla carne.
Cercano l’invisibile,
la nostra precedente beatitudine.
Nel frattempo, l’universo invecchia.
Miliardi di anni sono passati
e le stelle si battono per la loro vita:
brillare non le preserva dalla
definitiva scomparsa.
So che la materia non ha occhi,
che non ha smesso di respirare.
Sotto le tombe c’è la terra fresca.
Abbiamo visto tappeti tessuti con tinte vegetali:
uno aveva il colore ocra del volto
di uno degli uomini assassinati
a Jenin.
Non vi preoccupate, non dovrete guardare
nè il tappeto, nè quel cadavere.
Durante questo tempo, mentre i soldati nemici
lavoravano nel buio, l’universo invecchiava.
Con noi.
Come noi.
Nel nostro crollo finale trascineremo Dio stesso
verso la Sua fine.
Per ora, qualcuno governa, qualcuno scompare…
Nel campo c’era un campo,
i gradi dell’inferno entrano uno nell’altro.
Siamo seduti in questa stazione di comfort,
contemplazione e rinuncia.
L’ustione bianca si muove sui corpi,
ciascuno prigioniero del suo dolore.
Il dolore è murato nelle ossa, le ossa
nel corpo, e il corpo in case
murate a loro volta.
Sopra le porte ridotte in macerie
una volta c’erano iscrizioni,
o un semplice disegno.
Il sangue e l’inchiostro dei calamai si sono mischiati,
per questo le nuove scritte sono sporche di fango.
Sulle membra sparpagliate, abiti e
mobili sono diventati una dura coperta.
La notte si è chiesta se fosse morale nascondere
tale mostruosità, poi ha deciso:
resterà sospesa in alto nel cielo,
come ultimo bene dei diseredati.
Il silenzio è disceso e in assenza
di una scala è caduto giù con tutto il suo peso,
come piombo.
Alcuni di quelli che avevano cominciato la loro mortale agonia
riconobbero quel silenzio.
Chiamarono in aiuto le madri
ma le donne dormivano nella stanza accanto,
le loro teste mozzate riposavano sui cuscini.
Il fazzoletto di Sohrawardi si era macchiato…
Settimane dopo la carneficina un giovane
cercava di imparare, da un libro, come
diventare costruttore di cimiteri.
Ma non riuscì a trovare un pezzo di terreno
per la sepoltura dei morti.
Allora abbandonò i suoi studi
e si unì ad un’organizzazione clandestina.
Nessuno sa dove sia, nè se è ancora
tra noi.
C’è qualcosa di più degradato della morte,
di più assente, è ciò che è stato cancellato
col cassino di un bambino dalla lavagna della Storia.
La Storia, l’ultima illusione.
Nel freddo delle nostre case senza riscaldamento
ci tenevamo caldi con
la memoria dei nostri antenati, pensando ai
i nostri bisnonni come a semidei.
Sì. Certo.
Nient’altro.
Ma arrivarono loro – i bastardi, a sradicare,
con le bombe,
a dirci molto semplicemente che noi non esistevamo.
Cominciarono con gli ulivi,
poi con i frutteti,
poi, con gli edifici,
e quando tutto fu scomparso,
gettarono, uno sopra l’altro,
i bambini, i vecchi e gli sposi,
in una fossa comune,
tutto ciò per dire al mondo dei mezzo-morti
che noi non esistevamo,
che non siamo mai esistiti,
e che perciò avevano ragione…
a sterminarci tutti.
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Grazie Andrea!
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grazie ragazzi….vi faccio sentire e leggere questa poesia della mia amica bravissima, barbara coacci
E tu cosa mi dici?
Che cosa mi dici di Gaza?
Ho visto delle foto e non sembrava
che fossero davvero bambini, quelli… Mostra tutto
ho pensato che ci mettono sempre i bambini
per fare scena e mica saranno stati
buchi sul petto tutta quella terra i corpi
le teste fracassate per davvero e gli occhi
aperti, non erano certo sbarrati,
guardavano la telecamera
con l’occhio stupito dei bambini
– nessuno gli ha detto
che la curiosità uccise il gatto? –
ho letto da qualche parte genocidio
mi sembra un po’ esagerato, ecco
se stesse succedendo davvero
Gaza non sarebbe sparita dai notiziari.
E tu, cosa mi dici di Gaza?
Tutta quella terra le macerie
potevano coprirli, almeno
il sangue sui corpi fa ricami
il mio scende convulso in fiotti scuri
di ciclo mestruale, fiori
consuete emorragie
chi più e chi meno
@ poesia di barbara coacci
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!!! grazie!
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naturalmente. non in mio nome
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Grazie davvero a tutti, ero sicuro della vostra vicinanza… Vi abbraccio
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Vincenzo Mancuso.Grazie;)
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Non in mio nome. Eppure, non so perché, mi vergogno.
roberta
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Non in mio nome, grazie a Gino e a voi tutti di Poetarum
Moira
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non in mio nome, grazie a gianni e a tutti voi :)
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Aggiungo anche il mio grazie.
fm
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non in mio nome
stefania
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mon in mio nome
Antonella
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non in mio nome
Maria
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FUSI nel Piombo ( agli angeli di Gaza)
Scaviamo
su ceneri e braci
ferro pelle cemento,
polvere
su rughe frantumate,
polvere d’ossa,
ansimo d’orrore.
Scaviamo
sulla terra
che terra non è più,
fusa nel piombo
con il fuso della nonna,
con il pianto
di quaderni, matite
scaraventate
lontano,
in altro posto
che non è cielo.
Scaviamo
con fretta furiosa
cercando aliti,
sussurri,
scostando la paura,
per un attimo
accantonata dietro
angoli di case,
inesistenti
come bicchieri di thè
sbriciolati
dal piombo,
fuso come lava
su rocce, nuvole,
notti, albe
che riflettono
ombre di memoria,
tracce d’umano.
Sterili semi
di saggi dormienti
su muri chiusi.
Nessuna breccia
da osare,
nessun anfratto,
solo rumore
sordo ai nostri
richiami.
Scaviamo,
ancora,
fusi nel piombo.
– 29 dicembre 2008 –
…questo è con il mio nome. grazie, gino.
api
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Non in mio nome
Non sarà in mio nome
Che i gelsi reclineranno la testa
Non in mio nome
I salici penderanno
nei giardini delle case
non in mio nome
le strade si riempiranno di pioppi
e la scritta: fate silenzio.
Non sarà in mio nome
Che si griderà vittoria
Non in mio nome
Si vendicherà una sconfitta
Che io non ho cercato
Non in mio nome
Una bandiera sventolerà sulle teste
di chi non la vuol vedere.
Non sarà in mio nome
Le scie di cielo verde la notte
Non in mio nome
Il fumo e i calcinacci levarsi
come incenso sulla strada dai muri dei palazzi
Non in mio nome
I padri fucilati
I figli coi fucili
E i ventri delle madri.
*
Sulla schiena della terra scorre
un rivolo di sangue. Grevi,
mettono le loro radici
i fiori della sofferenza:
pesanti,
sul prato attendono
che trasudino dai loro petali
– sentendole risalire
dallo stelo allo stame –
gocce impallidite di
dolore.
*
Nuove braccia raccoglieranno
altre braccia dal suolo sporco
e teste di bambini rotoleranno
sparse in terra senza corpo
come vecchie bambole rotte.
Nuove braccia sopravvissute
al tempo raccatteranno pezzi
di uomo nelle borgate mute
ammassandoli in avvezzi
piccoli mucchi di morte.
Nuove braccia si laveranno
del sangue di chi raccolsero
e verso il cielo leveranno
la preghiera per chi persero
e la vendetta imbraccerà il fucile.
Le lacrime offuscheranno
la mira sorda alle urla
del dolore e dell’affanno
di chi inerme strilla
e delle madri che piangono.
*
Il cinismo è morto subito dopo Dio. Tutto ciò che vedi appartiene solo al reale.
Non in mio nome.
Luigi
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Grazie ancora per i vostri meravigliosi contributi.
Sottraiamo i nostri nomi alla barbarie, facciamolo per noi stessi.
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[…] al grido di “Non in mio nome”. Se sei dello stesso avviso, aggiungi la tua firma al post: farai parte dei depennati. Io ho aggiunto il mio, con una breve […]
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ho perso
così tanto tempo
tutti i miei nomi
che erano i nomi della terra
i nomi della madre e della sposa
della casa e della mia sepoltura
come fossero un solo seme
un unico sole dentro la notte
ho perso me stesso
ho perso la storia della mia venuta
e la storia ha perso la voce della sua avventura
ho perso la cifra della mia insipienza
la cecità la viltà l’arroganza della menzogna
ancora mi governa.
ferni
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Chiaramente il sig. B. non parla neppure in mio nome.
Luciano Mazziotta
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con Gino e con tutti voi dico NON IN MIO NOME
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non in mio nome.
Alessandra
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INTIFADAH
Nell’ardore di canto
battiti in colpi al petto
svelata la rabbia del pianto
lacera inganni ed il senso è stretto.
…e non c’è verso che possa placare!
Di verbo l’idioma
da pietra il colore.
http://edwarner-world.blogspot.com/search?q=intifadah
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non in mio nome. Fiorenzo
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Ciao Fra! :)
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Cià… ;-)
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Anna Salvini
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Non in mio nome, ASSOLUTAMENTE. Questo premier che ci ritroviamo non mi rappresenta e MAI mi rappresenterà.
Giovanni Madurini
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grazie Roberto!
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nn in MIO nome..ringrazio chi m sta dando la possibilità d dissociarmi..
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Grazie a te, Silvia.
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